di Laura Romano *
Nel recente periodo è stato necessario confrontarsi con numerosi e gravi episodi di “bullismo” all’interno di vari istituti scolastici; questi eventi hanno suscitato reazioni più o meno scomposte, rimostranze e commenti spesso impropri, valutazioni talvolta poco accurate, fondate più su reazioni emotive che su riflessioni professionali e analisi del fenomeno.
A mio parere, la questione andrebbe affrontata tenendo conto di alcuni aspetti imprescindibili, che – debitamente considerati – possono fornire elementi non soltanto per una lettura corretta di quanto va accadendo, ma anche offrire alcune indicazioni pedagogiche per la gestione delle situazioni e delle dinamiche soggiacenti agli accadimenti eclatanti, punta dell’iceberg di una fatica evolutiva per i preadolescenti e gli adolescenti, di una pari fatica relazionale per gli adulti insegnanti, della perdita di profilo e ruolo per taluni genitori.
Innanzi tutto, mi pare importante evidenziare come il termine “bullismo” faccia riferimento a un fenomeno specifico, chiaramente delineato e definito, con caratteristiche che lo differenziano da altre dinamiche; parlare di bullismo da parte di un ragazzo – o anche di un gruppo classe – nei confronti di un insegnante a me pare improprio. Il bullismo, in effetti, si riconosce per quattro aspetti specifici: contesto di gruppo, disparità di forze (fisiche o psicologiche), permanenza nel tempo e, soprattutto, ruoli complementari bullo/vittima. Non credo, quindi, si possa considerare l’aggressione verbale o fisica rivolta da uno studente a un insegnante come un fenomeno di bullismo. Altrimenti, dovremmo interrogarci – ampliando a dismisura le riflessioni e, soprattutto, gli interventi educativi – su come sia accaduto che un adulto si sia ritrovato per un tempo prolungato (assai diverso da un episodio) in una posizione di “inferiorità” e come si sia collocato, senza mettere in campo contromisure pedagogiche, nel ruolo di vittima. Credo che gli insegnanti – almeno la più ampia maggioranza – meritino ben più stima e considerazione di quanto accadrebbe considerandoli vittime di “bullismo”.
Ovviamente, questa considerazione preliminare nulla toglie alla gravità di quanto accade nelle singole aule, negli istituti, nell’ambito sociale allargato.
Conseguentemente, diventa necessario domandarsi che cosa “non funzioni”, che cosa consenta l’insorgere di dinamiche tanto disfunzionali in un contesto che è quello scolastico nel senso complessivo e complesso del termine. In effetti, il malessere riguarda tutti gli attori di questo teatro, di questo spettacolo potente che dovrebbe porsi e proporsi come luogo reale e metaforico di apprendistato alla vita; alunni, insegnanti, genitori agiscono in ugual misura, pur non essendo sempre presenti contemporaneamente in scena.
Le analisi si sono susseguite e moltiplicate negli ultimi mesi, da più versanti, tutti ugualmente significativi e validi, poiché le ragioni di questa deriva sono molteplici. È corretta la lettura psicologica così come lo è quella sociologica; trovano fondamento le considerazioni relative alle caratteristiche dei ragazzi tanto quanto quelle che riguardano gli adulti e il loro ruolo. Che gli adulti siamo smarriti e sguarniti in questa nostra società contemporanea che corre così veloce, che si fa via via più aggressiva e violenta (è sufficiente leggere alcuni post su Facebook per rendersi conto di quanto “urlare” le proprie opinioni, rivendicazioni, pretese sia diventato costume), che non offre certezze e spinge a crearsele anche a partire da pre-concetti e pre-giudizi.
Ho scritto di una “deriva”, anche se credo importante sottolineare come soltanto il caso eclatante faccia notizia, come sia la violenza a trovare risonanza, mentre la “normalità” passi sotto silenzio; e, invece, sarebbe importante raccontare anche le esperienze virtuose, le storie “minime” di tutte quelle ragazze e quei ragazzi, di quegli insegnanti, di quei genitori che con il loro contributo rendono gli anni della scuola un percorso esistenziale e formativo a trecentosessanta gradi.
A questo punto, tornando agli episodi che tanto scalpore e tanta preoccupazione hanno suscitato in questi mesi, vorrei proporre una riflessione dal versante teorico pedagogico. Credo che una delle ragioni per cui il contesto scolastico (come ogni altro contesto di vita, comunque) possa trasformarsi in un luogo di conflitto e scontro sia rintracciabile nell’eclissarsi sempre più marcato del cosiddetto codice educativo paterno, che viene a mancare non soltanto negli adulti in quanto individui o gruppi (dai genitori agli insegnanti…), ma anche nei contesti, che vanno progressivamente perdendo autorevolezza e paiono incapaci di dare limiti e regole.
Il codice educativo paterno si fonda essenzialmente sull’indicazioni di limiti e regole, sulla trasmissione intergenerazionale dell’etica, sulla valorizzazione delle capacità, delle competenze, della abilità, sulla promozione della reciprocità, dell’autonomia, dell’assunzione di responsabilità; e lo fa attraverso l’insegnamento della tolleranza della frustrazione e del differimento della gratificazione, passaggi evolutivi fondamentali per la transizione dall’infanzia (dall’egocentrismo e dall’onnipotenza infantile) all’età adulta.
Se il codice educativo paterno si eclissa, si fa evanescente e a prendere il sopravvento è quello materno “che tutto tollera e tutto concede”, crescere – nel senso più ampio del termine – diventa assai difficile e il “no”, il fallimento, la frustrazione scatenano una rabbia che può tramutarsi in aggressività verbale e in violenza nei confronti di chi viene identificato come il responsabile del proprio insuccesso, come il “nemico” sul quale scaricare la colpa.
Genitori e ragazzi che vivono dentro questa non-logica ritengono di poter agire un comportamento aggressivo verbalmente e, talvolta, anche violento fisicamente nei confronti di un altro adulto che pure riveste un ruolo ben specifico e definito, che svolge una professione in cui è tenuto a valutare e a sanzionare quando necessario, poiché questi frustra aspettative ritenute diritti.
Mi pare che si possa affermare che tutto questo accade per una volontà malsana di non esporre i figli – e, di riflesso, se stessi in quanto genitori che quei figli hanno cresciuto ed “educato” – ad alcun tipo di limite e frustrazione. Un voto o un giudizio negativo, una critica, una punizione, la mancata considerazione delle motivazioni addotte da uno studente rappresentano per quest’ultimo una delusione e questo contrasta con il desiderio genitoriale di tutelare, proteggere, spianare la strada a ogni costo, in un’eccedenza di codice materno che risulta gravemente diseducativa; non soltanto: il fallimento del figlio pare essere letto come un implicito giudizio di segno negativo sulla propria competenza pedagogica genitoriale, come una critica rivolta a madre e padre da parte degli insegnanti.
Questi elementi possono condurre a sostenere il figlio contro ogni evidenza, ad assecondarlo sempre e comunque, a perdere di vista ruoli e funzioni extrafamiliari e a costruire con il ragazzo un’alleanza disfunzionale sul piano educativo, foriera di un’onnipotenza perenne, che porterà ad aspettarsi soltanto gratificazione, successo, apprezzamento e approvazione, dunque a non attrezzare per la vita (ben più che per il percorso formativo) coloro che dovrebbero essere le donne e gli uomini di domani e che invece rischiano di restare eterni bambini prigionieri di una irreparabile fragilità verso gli eventi della vita.
* Consulente educativa e formatrice. ISP Como