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2020, un anno da dimenticare

di Maurizio Quilici *

Esattamente dieci anni fa, alla fine del 2010, l’editoriale di ISP notizie si intitolava Annus horribilis. Orribile perché funestato da numerosi episodi di violenza familiare, con figli che avevano ucciso i genitori, madri – e soprattutto padri (separati) – che avevano ucciso i figli e talvolta anche la loro madre, per poi togliersi la vita. Quel titolo spetterebbe di diritto anche a questo editoriale, in primo luogo per la pandemia che ci ha colpiti nell’anno passato e che continua a funestare il mondo intero. Qualcosa di epocale che sarà ricordato dalle generazioni a venire.

La rapida e globale diffusione del Covid-19 – con le sue decine di migliaia di morti in Italia, i lockdown ripetuti, le convivenze forzose, la paura del contagio – ha inciso non poco sulle relazioni familiari (si veda l’editoriale L’amore (paterno) al tempo del coronavirus, in ISP notizie n. 1/2020). Ha esasperato, patologizzandole, situazioni di tensione in famiglia che spesso sono sfociate in episodi di violenza; ha creato ulteriori difficoltà ai padri separati, da sempre penalizzati nel rapporto con i figli, offrendo alle madri conflittuali spunti per ostacolare le visite dell’altro genitore; ha aggravato la già difficile situazione dei padri in carcere. E’ vero, c’è un rovescio della medaglia: alcuni padri – forse molti – hanno “scoperto” i figli. Estraniati dalla professione, protesi verso il lavoro e il successo (spesso con la giustificazione del “bene per la famiglia”), perennemente assenti da casa, hanno imparato l’importanza e la dolcezza di un rapporto padre-figli quotidiano, più ricco e soddisfacente.

Purtroppo il 2020 è stato horribilis anche per quella stessa scia di sangue che aveva ispirato il titolo di dieci anni fa. Cominciamo proprio da qui per riflettere sull’anno appena concluso e sugli eventi che lo hanno caratterizzato, quelli significativi ai fini della paternità. Dicevo della violenza intrafamiliare. Sembra proprio – ed è tristissima considerazione – che il tempo non porti nessun beneficio a certi meccanismi. Fra i tanti episodi del 2010 uno in particolare colpì in modo straziante: la morte della piccola Nicole, appena tre anni, uccisa con un colpo di fucile dal padre, separato, che poi si suicidò. Due mesi prima il Tribunale aveva affidato la bambina alla madre con diritto del padre di vederla una volta alla settimana.

Nel 2020, in estate a Margno, nel Lecchese, un padre – coppia in crisi e separazione in vista – strozza i suoi gemelli, un maschio e una femmina di dodici anni, e si uccide gettandosi da un ponte. In settembre, in Piemonte, altro padre in attesa di separazione uccide il figlio undicenne con un colpo di pistola e si suicida. Due mesi dopo nella stessa regione, un uomo in fase di separazione uccide a colpi di fucile la moglie, i due figli gemelli di due anni e si suicida. L’anno si chiude con un’ennesima tragedia familiare: il 20 dicembre, nel Padovano, un uomo – divorziato da tempo – uccide i due figli, di tredici e quindici anni, accoltellandoli alla gola, quindi si suicida colpendosi con lo stesso coltello. Secondo la ex moglie, intervistata da la Repubblica, l’uomo ha agito per odio contro di lei. Per punirla perché lei si era rifatta una vita. Dieci anni sono passati, eppure nulla sembra cambiato.

Drammi – come ho scritto in altra occasione – la cui analisi non è mai semplice, caratterizzati da un lato dalla incapacità dell’uomo di affrontare il dolore di un abbandono da parte della compagna (spesso vissuto come umiliazione e fallimento, talvolta anche, con rabbia, come perdita di potere maschile) e dall’altro dalla previsione sofferta di una inevitabile lontananza dai figli.

Sul versante dei diritti e dei doveri, della ragione e del torto, la giurisprudenza ci aiuta a cogliere i passi avanti (e a volte, purtroppo, anche quelli indietro). Il diritto delle sentenze segue di solito i mutamenti sociali, si adegua ai cambiamenti del comune sentire e li riflette, talvolta li anticipa – come vedremo – indicando nuove strade. Qualche volta arretra, torna sui suoi passi, enuncia principi che avevamo dato per superati e dimenticati. Alcune sentenze del 2020 sono state particolarmente significative.

Nell’estate dello scorso anno la Cassazione, con ordinanza 17183/2020 che contraddice un consolidato orientamento, respinge il ricorso di una donna che chiedeva di continuare ad obbligare il padre al mantenimento del figlio, un trentenne di professione insegnante di musica (precario) con introiti annui di circa 20mila euro come supplente. La Suprema Corte afferma di agire “in linea con il mutamento dei tempi”, parla di “adattamento a ciò che il mercato offre, “autodeterminazione”, “impegno” e afferma che l’assegno di mantenimento “ha una funzione educativa e non è una assicurazione”. Ribadisce un sano principio più volte sostenuto dall’I.S.P., ossia che il diritto e il corrispondente obbligo al mantenimento si basano sulla situazione del figlio e sulle sue necessità e non sulla disponibilità economica dell’obbligato (in alcune occasione il riferimento alle capacità economiche del genitore aveva portato ad un assegno chiaramente eccedente le reali necessità del figlio e altrettanto chiaramente diseducativo). E infine, cosa non da poco, inverte l’onere della prova. Non sarà più, come prima, a carico del genitore obbligato, ma graverà sul figlio maggiorenne (Cfr. Gianluca Aresta, “Italiani bamboccioni: la Cassazione impone la fine di un’era”, in ISP notizie, n. 3/2020).  Insomma, una sentenza per molti versi rivoluzionaria. I giudici sono stati molto duri con coloro che definiscono “ex giovani”, per i quali usano il termine “parassitismo”. Una durezza che ha suscitato consensi ma anche molte critiche. Io la ritengo giustificata e persino virtuosa. Come lo sarebbe quella di un padre che, anziché spianare la strada di un figlio da ogni ostacolo, lo sprona a superarli, gli ostacoli, lo incita ad assumersi le sue responsabilità e a sopportare i sacrifici, lo indirizza alla vita.

   Da più parti è stata sollevata l’obiezione che i giudici dovrebbero tener conto della realtà sociale ed economica nella quale calano le loro pronunce, realtà che nel caso dell’Italia certo non favorisce i giovani. Non sono del tutto d’accordo. Oltre alla ovvia considerazione della realtà del Paese in cui opera, la magistratura può e deve svolgere anche un ruolo di stimolo, di indirizzamento, con un occhio non solo al proprio Paese ma anche a quella dimensione globale con cui oggi ogni nazione deve fare i conti. Perché se così fosse e i giudici si limitassero a fare da specchio al presente non vi sarebbe mai alcuna spinta al cambiamento.

 Altra pronuncia chiarificatrice l’ordinanza 16410/2020 della Cassazione, con la quale la Suprema Corte ribadisce che il mancato ascolto del minore in un procedimento giudiziario che lo riguarda, se non motivato, costituisce violazione del principio (ineludibile) del contraddittorio e dei diritti del minore. Con l’occasione esprime una importante opinione su una questione a lungo dibattuta: se il minore sia o meno parte del giudizio che lo riguarda. E al termine di una articolata e lunga dissertazione conclude affermando che il minore può qualificarsi “parte” non in senso proprio, ossia “formale”, ma in quanto parte “sostanziale”: “soggetto portatore di interessi diversi (quando non in certi casi anche contrapposti) da quelle dei genitori”. Questa qualifica, per la Suprema Corte, resterà tale fino a quando una specifica disposizione di legge non attribuirà al figlio minore la legittimazione processuale (come è avvenuto per i nonni, oggi autorizzati ad intervenire in giudizio come parti). (Cfr. “Nonni e nipoti, l’ascolto del minore” in ISP notizie n. 3/2020).

Sempre nell’anno trascorso, in un procedimento di separazione il Tribunale di Castrovillari, con decreto del 30 giugno, ha riconosciuto il “significativo condizionamento psicologico” dei figli da parte della madre, ha fatto proprie le osservazioni del perito d’ufficio (compresa l’espressione “alienazione parentale”) e ha affidato i due figli minori al padre in modalità “super esclusiva”.

Sull’annosa questione della PAS (Parental Alienation Syndrome) la giurisprudenza continua ad essere ondivaga. Purtroppo anche quella di legittimità, che pure nel 2016, con sentenza n. 6919, sembrava aver fatto chiarezza in materia. Non è compito dei giudici di legittimità – avevano scritto i giudici in quella pronuncia – dare giudizi sulla validità o meno delle teorie scientifiche. Anche il giudice di merito deve “prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia” (qui, forse, i giudici avrebbero dovuto aggiungere un “presunta”, visto che questa parola è termine squisitamente medico che indica una malattia). E però – eccoci al punto! – se un genitore denuncia comportamenti dell’altro genitore diretti ad allontanare materialmente e moralmente il figlio da lui e indicati come significativi di una PAS lo stesso giudice deve “accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti”.

Il 29 maggio 2020 sull’argomento si è espresso anche il Ministro della Salute, Roberto Speranza, rispondendo ad una interrogazione parlamentare della sen. Valeria Valente. La sua risposta è oggetto di una specifica riflessione in questo stesso numero (cfr., in questo stesso numero, PAS: anche il Ministero dice la sua).

E dunque, alla fine di un esame che poteva essere ben più ampio, quali le conclusioni? Un anno per molti versi da dimenticare, che colpisce in modo particolare per il ripetersi di stragi familiari seguite ad una separazione passata, in corso o in vista e ripropone il problema di un più diffuso sistema di monitoraggio e assistenza dei gravi disagi familiari.

* Presidente ISP