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Aiutare la famiglia si deve. Sostituirla non si può.

di Giuseppe Magno *

“È ridicolo che i custodi abbiano bisogno di essere sorvegliati”: lo affermava Platone (Rep., III, 403e) a proposito dei phylakes, cittadini incaricati di assicurare il buon funzionamento delle istituzioni nella polis ideale; e Giovenale, circa quattro secoli più tardi, ribadiva il concetto – quis custodiet ipsos custodes? –, a proposito di un tema apparentemente più frivolo, concernente la velleitaria pretesa di controllare la virtù delle signore.

         La custodia dei beni che hanno origine e si sviluppano nella famiglia – affetti, educazione, tradizioni… – è un argomento poco frequentato di questi tempi: o perché non li consideriamo più beni di primaria importanza, da proteggere con la massima cura, prevalendo la sensazione di poterne trovare a sufficienza ad ogni angolo di strada; o perché pensiamo che possano essere tutelati meglio da “custodi” pubblici, estranei al nucleo familiare. Ma poi la noncuranza colpevole degli opinionisti, vale a dire di quei pochi che hanno accesso ai mezzi di comunicazione importanti, è scossa dall’improvvisa comparsa di fenomeni o da episodi, incomprensibili per molti di loro e suscettibili, per altri, d’interpretazioni banali o interessate.

         Sarebbe tempo, invece, di rimettere in discussione l’idea secondo cui il buon andamento dei rapporti familiari (e sociali) sarebbe meglio garantito da interventi sempre più incisivi e penetranti della sfera pubblica. Familiare e sociale sono e debbono restare, per quanto è possibile, ambiti strettamente connessi, ma essenzialmente distinti. Forse, negli ultimi quarant’anni, abbiamo fatto un po’ di confusione: abbiamo assistito passivamente (o contribuito) all’indebolimento progressivo dell’impalcatura familiare, fidando nel sostegno di strutture esterne, approntate dalla mano pubblica. I pilastri – ossia i ruoli coniugali e parentali – hanno scricchiolato, ed il supporto di rincalzo esterno si è rivelato insufficiente, inadeguato, tardivo; oppure non si è visto affatto.  Il fatto è che la buona tenuta e la vitalità di ogni organismo, compreso quello familiare, sono assicurate principalmente dalla conservazione del corredo genetico originario; se un fattore viene meno, l’intero organismo si degrada o muta, con una serie di effetti a catena nell’ambiente circostante; e non c’è intervento esterno che possa ripristinarlo.

         Molti genitori e, in particolare, molti padri avevano tenuto comportamenti non consoni ai doveri di ruolo; ma questo non bastava, logicamente, a giustificare la demonizzazione e poi la demolizione della funzione genitoriale, in primo luogo quella paterna. I singoli episodi negativi, sia pure numerosi, furono invece utilizzati per destrutturare l’istituto familiare dall’interno, smantellando il concetto stesso di ruolo; senza il quale le relazioni si allentano e cedono, la famiglia si sfalda e gli individui che la compongono si ritrovano soli: uomini che erano mariti e padri, donne che erano mogli e madri, ragazze e ragazzi che erano figli iniziano a nuotare con una sensazione nuova di totale libertà; o annaspano in un mare ricco di possibilità spesso illusorie, ma pure di rischi molto concreti.

         Insomma – se può essere scusato il ricorso ad una metafora alquanto abusata – il cattivo comportamento di alcuni (o di molti) ufficiali non giustificava la mortificazione del ruolo di guida, in sé, ed il conseguente affidamento della nave, per il mantenimento della rotta e per la gestione dei servizi di bordo, ad organi di controllo esterni: custodes o phylakes ispirati e diretti, a loro volta, da non si sa chi. Un caso emblematico, utile per riflettere, è fornito dalle recenti vicende di Bibbiano, di cui tanto si è discusso di recente.

         I servizi, moderna versione della phylakia istituzionale, non solo non riescono a garantire il normale svolgimento delle funzioni parentali, ma possono cagionare gravi danni alla prole minorenne quando intervengono per sostituire e gestire in proprio, in buona fede o no, il ruolo dei genitori. Una lunga serie d’interventi legislativi sulla famiglia, almeno a partire dalla riforma del 1975, ha causato una deriva che non era certamente nelle intenzioni del Legislatore, e che occorrerebbe esaminare finalmente senza pregiudizi ideologici, per cercare di correggerla.

         La sacrosanta affermazione della parità fra coniugi, nella titolarità e nello svolgimento delle funzioni genitoriali, comportava la necessità d’immaginare una nuova chiave di volta del sistema: infatti, la questione non si pone allorché il potere di decidere spetta – almeno sul piano formale – ad una sola persona (storicamente era il padre, ma il discorso non muterebbe se, in un ipotetico regime matriarcale, a prendere l’ultima decisione fosse chiamata la madre); quando due persone (nel nostro caso, i genitori) occupano una posizione paritaria, sorge il problema di risolvere i contrasti di opinione persistenti, come una divergenza sull’acquisto di un immobile o, in materia minorile, circa l’indirizzo di studi del figlio.

         Il Legislatore disponeva, in teoria, di opzioni diverse: consiglio di famiglia, organi specializzati di tipo arbitrale, consultori o altro, ma preferì che simili questioni, pur non appartenenti al catalogo delle patologie del nucleo familiare, fossero devolute ad un giudice, attivabile senza formalità procedurali (articoli 144, 145 cod. civ.; 316, 2° e 3° comma, stesso codice). Probabilmente l’idea era di prospettare ai coniugi dissenzienti un intervento di tipo autorevole, da parte di un organo (il giudice) che avrebbe dato “suggerimenti”, ma che, all’occorrenza e fra le quinte, si sarebbe facilmente presentato con dotazione di poteri ben più incisivi.

         Tutto ciò significava, e significa, portare fuori dall’ambiente strettamente familiare il potere di “dire l’ultima parola” su questioni della massima importanza, in una situazione di normalità non implicante alcun dissesto in atto della compagine domestica (in caso di litigio vero e proprio, l’intervento del giudice era previsto, ovviamente, anche prima della riforma). Ora, è vero che il ricorso al giudice rappresenta, in casi del genere, una sorta di ultima spiaggia, effettivamente poco praticata; ma è innegabile – ed è questo il punto cruciale – che a monte ed a valle di quella spiaggia si estende il campo d’azione vasto, vario e talvolta insidioso dei servizi, ai quali il giudice si rivolge, bensì, per avere informazioni di prima mano su persone e vicende che attendono il suo giudizio; ma più spesso essi agiscono da soli o dietro impulso di privati o degli enti da cui dipendono. Il giudice, d’altra parte, non dispone di strumenti efficaci di controllo delle loro relazioni. Simili strumenti, faticosamente e parzialmente entrati nella cultura del giudice specializzato minorile, sono del tutto ignoti al giudice ordinario, la cui competenza anche in materia minorile è diventata la regola, dopo l’avventata riforma (2012) dell’articolo 38, disp. att. cod. civile.

         In ogni caso, i servizi sociali – riformati nel 1977 e divenuti in seguito “socio-sanitari” – agiscono secondo metodi investigativi propri, senza alcuna reale garanzia di contraddittorio e d’indipendenza, salvo quella assicurata dalla mera deontologia professionale; purtuttavia le loro relazioni costituiscono, di norma, l’unica fonte di conoscenza dei fatti, su cui il giudice baserà la sua decisione provvisoria prima di procedere (quando procede) all’ascolto delle parti.

         La prassi consolidata, determinata in parte dalla cronica insufficienza di personale e di mezzi negli uffici giudiziari minorili ed ordinari, è nel senso di una delega sempre più ampia di poteri d’indagine e di proposta ai servizi socio-sanitari, per la gestione di affari che sarebbero stati trattati in condizioni normali, davanti al giudice, in conformità al principio del contraddittorio e mediante acquisizione di testimonianze, consulenze ed altre fonti di prova.

         Si è delineato in tal modo un sistema in cui le intime dinamiche familiari sono sempre più esposte ad una intrusiva ed incontrollata osservazione da parte dei servizi, i cui rappresentanti (assistenti sociali, psicologi, educatori, ecc.) sono liberi, in buona sostanza, di agire seguendo i propri indirizzi formativi, ma pure le proprie tendenze e ideologie, oltre a quelle dell’ente cui appartengono; disgraziatamente, in alcuni casi, la loro azione potrebbe rispecchiare interessi personali. Ecco perché i fatti di Bibbiano, se accertati, non rivestono un carattere eccezionale, bensì costituiscono prevedibili conseguenze di una politica ispirata per decenni ad una cultura ideologizzata non favorevole, per non dire ostile, alla tenuta dei classici ruoli parentali.

         La famiglia era, oltre al resto, il luogo dell’intimità più gelosa e dell’abilitazione a gestire le relazioni interpersonali. Almeno sotto questi profili, l’eccessiva diluizione dei ruoli nel magma dei rapporti amministrativi pubblici non le giova: non foss’altro perché è molto difficile, poi, controllare i controllori.

* Docente di Diritto Minorile Università “La Sapienza”, Roma.