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Codice Rosso: violenza “di genere” o in generale?

Il 9 agosto 2019 è entrata in vigore la Legge 69/2019 – meglio conosciuta come “Codice Rosso” per rivendicare l’intenzione di favorire un percorso prioritario di trattazione dei procedimenti in questione a tutela delle vittime – rubricata “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”. Con essa il Legislatore, dopo ampie e articolate discussioni in sede parlamentare, ha introdotto importanti modifiche alla disciplina normativa, sia sostanziale, sia processuale, in materia di “violenza domestica e di genere”.

Il provvedimento regolamenta la nuova categoria dei “reati di violenza domestica o di genere” nell’ambito della quale rientrano il reato di maltrattamenti contro conviventi o familiari, la violenza sessuale aggravata o di gruppo, gli atti sessuali con minorenne, gli atti persecutori e lesioni aggravate commessi in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza, e introduce, da un lato, nuove disposizioni penali, volte all’irrigidimento del trattamento sanzionatorio, e, dall’altro, nuove previsioni processuali.

Per quanto concerne il profilo sostanziale, il provvedimento è intervenuto su: Maltrattamenti e atti persecutori. L’articolo 9, infatti, disciplina i reati di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori, elevando la pena minima a tre anni, fino a una massima di sette; se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; con una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni. In caso di morte, la reclusione raddoppia da dodici a ventiquattro anni. La fattispecie viene ulteriormente aggravata quando il delitto di maltrattamenti è commesso in presenza o in danno di minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità. Analogamente a quanto previsto per lo stalking, anche per tale reato sarà possibile applicare la misura di prevenzione della sorveglianza speciale.

La Legge ha introdotto anche il nuovo reato di Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612 terp.), c.d. revenge porn, che punisce chi realizza e diffonde immagini o video privati, sessualmente espliciti, senza il consenso delle persone rappresentate per danneggiarle, a scopo di vendetta o di rivalsa personale. È punito, anche, colui che, più semplicemente, condivide le immagini online, con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da cinquemila a quindicimila euro, con la previsione di aggravanti nel caso in cui, ad esempio, il reato di pubblicazione illecita fosse commesso dal coniuge, anche separato o divorziato o da una persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.

Il provvedimento prevede, poi, per chi commette la deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti la pena della reclusione da otto a quattordici anni. Se lo sfregio causa la morte della vittima la pena è quella dell’ergastolo. In caso di condanna, scatta l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela ed all’amministrazione di sostegno.

Una ulteriore novità è rappresentata dalla introduzione del reato di Costrizione o induzione al matrimonio (art. 558 bis p.) che colpisce chi con violenza o minaccia costringe una persona a contrarre vincolo di natura personale o unione civile, approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona. La fattispecie è punita con la reclusione da uno a cinque anni. Il reato è punito anche quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia.

Il nuovo articolo disciplina, altresì, le circostanze aggravanti del reato di matrimonio forzato: la pena è aumentata se i fatti sono commessi ai danni di un minore di diciotto anni ed è aumentata da due a sette anni se viene colpito un minore di anni quattordici (è evidente, in tal caso, l’intento del Legislatore di contrastare il dilagante fenomeno delle spose bambine e dei matrimoni precoci e forzati).

L’articolo 11 modifica il codice penale intervenendo sull’omicidio aggravato dalle relazioni personali, di cui all’art. 577 c.p., per estendere il campo d’applicazione delle aggravanti, consentendo, così, l’applicazione dell’ergastolo anche in caso di relazione affettiva senza stabile convivenza o di stabile convivenza non connotata da relazione affettivaPer chi causa lesioni permanenti personali gravissime, come la deformazione o lo sfregio permanente del viso, è stabilita la pena da otto a quattordici anni di carcere.

L’articolo 13, poi, inasprisce le pene per i delitti di violenza sessuale che, in caso di violenza su un minore di dieci anni, parte da un minimo di dodici fino a un massimo di ventiquattro anni di reclusione.

In ordine al profilo processuale, il Codice Rosso ottempera a quanto imposto dalla Corte Europea con la nota sentenza Talpis (sentenza 2/3/2017 – ricorso 41237/14), nel procedimento che si è concluso con la condanna dell’Italia per la violazione del disposto normativo di cui agli 2, 3 e 14 della Convenzione EDU, attesa la inerzia delle Autorità italiane di fronte alle reiterate denunce di una vittima di violenze familiari che aveva condotto ad un epilogo tragico (ovvero all’omicidio del figlio della donna perseguitata e al tentato omicidio di quest’ultima); la Corte di Strasburgo ha ritenuto violato sia il diritto alla vita, sia quello a non subire trattamenti inumani e degradanti, identificati nei maltrattamenti patiti dalla vittima a causa della perdurante inerzia delle Autorità statali e nella omessa attivazione dei presidi di tutela dei vulnerabili; d’altro canto, il venir meno dello Stato all’obbligo di protezione delle donne contro le violenze domestiche conduceva la Corte Europea a ravvisare una violazione del diritto alla non discriminazione.

Con l’introduzione di un sistema normativo di “pronta protezione” della vittima, il testo si prefigge di garantire la priorità nella trattazione delle indagini e l’immediata instaurazione del procedimento al fine di pervenire, nel più breve tempo possibile, all’adozione di provvedimenti “di protezione o di non avvicinamento”, secondo quanto prescrive, fra l’altro, proprio la Direttiva 2012/29/UE.

Gli interventi processuali del Legislatore sono evidentemente accumunati dall’esigenza di evitare stasi procedimentali. Infatti, gli articoli da 1 a 3 intervengono sul Codice di rito estendendo alla delineata categoria dei reati di violenza di genere o domestica il regime speciale attualmente previsto per i più gravi delitti. La Polizia Giudiziaria sarà tenuta a comunicare al Pubblico Ministero le notizie di reato con assoluta immediatezza, anche in forma orale, attivandosi immediatamente, vale a dire d’urgenza, restando, comunque, esclusa ogni possibilità di valutazione delle ragioni o meno dell’urgenza stessa. Imponendo l’immediata comunicazione della notizia di reato si introduce una presunzione assoluta di urgenza rispetto ai fenomeni criminosi per i quali l’inutile decorso del tempo può portare spesso ad un aggravamento delle conseguenze dannose o pericolose.

Il Pubblico Ministero, entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, deve assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato, con tempi evidentemente più rapidi (senza ritardo) per la conduzione delle indagini delegate alla Polizia Giudiziaria e la trasmissione dei relativi atti all’organo inquirente. Le misure dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, vengono rafforzate attraverso la predisposizione del c.d. braccialetto elettronico. La violazione degli obblighi o dei divieti previsti dall’Autorità Giudiziaria nei provvedimenti dà luogo ad una nuova fattispecie di reato, punita con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Il testo impone, altresì, la comunicazione alla persona offesa e al difensore dei provvedimenti di scarcerazione, di volontaria sottrazione e cessazione della misura cautelare o della misura detentiva. Prevede anche che, se sono in corso procedimenti civili di separazione dei coniugi o cause relative ai figli minori di età o relative alla potestà genitoriale, il Giudice penale deve trasmettere, senza ritardo, al Giudice civile copia dei seguenti provvedimenti, adottati in relazione a un procedimento penale per un delitto di violenza domestica o di genere: ordinanze relative a misure cautelari personali, avviso di conclusione delle indagini preliminari, provvedimento di archiviazione, sentenza.

Al fine di ridurre la recidiva, il testo normativo prevede la possibilità, per i condannati, di sottoporsi a un trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno, suscettibile di valutazione ai fini della concessione dei benefici penitenziari. Poi per garantire le dovute cognizioni specialistiche necessarie a trattare, sul piano della prevenzione e/o del perseguimento dei reati di violenza domestica e di genere che assumono rilevanza penale, da parte degli organi di Pubblica Sicurezza, è prevista l’attivazione di specifici corsi di formazione per il personale della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia penitenziaria.

L’obiettivo del testo di legge era (ed è) quello di creare una corsia di fatto preferenziale riservata ai reati che segnalano gravi crisi relazionali, che rivelano un elevato pericolo di reiterazione delle devianze e un grave rischio per la persona e di contrastare il ritardo nella presa in carico di indagini che non sono finalizzate solo alla verifica della responsabilità, ma anche a garantire la tutela del diritto alla vita della persona offesa.

Come sottolineato da più parti, “L’obiettivo di creare un obbligo di immediata attivazione delle indagini per i reati a “codice rosso” è stato tuttavia attuato attraverso la introduzione di “regole senza sanzione” il che rischia di vanificarne l’efficacia: la violazione delle regole monitorie e del termine ordinatorio dei tre giorni entro i quali devono essere assunte le dichiarazioni dell’offeso, ha infatti solo un effetto extraprocessuale, dato che può generare un procedimento disciplinare a carico del Pubblico Ministero o dell’ufficiale di Polizia Giudiziaria cui sia addebitabile la violazione” (così, Sandra Recchione, Magistrato, in “Codice Rosso. Come cambia la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere con la legge 69/2019”, in il Familiarista del 26/7/2019).

Non può nascondersi, però, che la Legge in questione, il “Codice Rosso”, seppur parto di una forte esigenza di tutela, quasi emergenziale, dinanzi a fenomeni di violenza domestica e di genere che ormai affliggono quotidianamente la nostra realtà sociale, sin dal suo primo vagito ha mostrato profili di imperfezione e di criticità, che, pur se non sottaciuti dai più, non sempre sono stati pienamente fotografati nella loro reale complessità.

Da un punto di vista squisitamente tecnico, fra le criticità maggiormente evidenziate, si deve sottolineare quella legata alla applicazione del nuovo disposto normativo di cui all’art. 387 bis c.p. che punisce (o dovrebbe punire!), con la pena da sei mesi a tre anni, «chiunque violi dei provvedimenti (ai quali sia stato sottoposto dal Giudice) di allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. In realtà, tale inosservanza non sembra aver avuto una puntuale e nuova disciplina rispetto al passato. Perché? Perché proprio il limite massimo dei tre anni di pena impedisce, di fatto, di arrestare in flagranza di reato chi si avvicina ancora all’abitazione della persona già vittima di violenza o di stalking.

L’arresto di una persona in flagranza di reato, che non avviene su richiesta del PM, bensì per iniziativa della Polizia, è infatti possibile, da parte della stessa Polizia, soltanto per reati la cui pena massima sia superiore a tre anni. E se, allora, avvicinarsi troppo ai luoghi frequentati da una persona offesa può portare al massimo a tre anni di carcere, come si può arrestare la persona che infrange la legge? Semplicemente: non si può!

In realtà, l’arresto in flagrante sarebbe consentito, in via facoltativa, anche per reati per cui sono previste pene inferiori: ovverosia, quelli elencati nel secondo comma dell’art. 381 c.p., oppure menzionati dall’art. 3 del D. L. 152/1991. Ma il nuovo reato non appare in nessuno dei due! Al PM, allora, rimarrebbe un’altra opzione, ovvero chiedere al GIP l’aggravamento della misura cautelare violata, che potrebbe portare all’arresto, che avverrebbe però solo dopo qualche giorno. Ma qualche giorno, appunto, per una persona che si vuole avvicinare di nuovo a una persona che ha già picchiato o stalkerizzato, è un sacco di tempo. Troppo per pensare di evitare l’irreparabile.

Tra i punti principali della nuova Legge oltre all’aumento delle pene, c’è l’obbligo per la Polizia Giudiziaria di comunicare al Magistrato (il PM di turno) le notizie di reato di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni aggravate avvenute in famiglia o tra conviventi. E le vittime, secondo le nuove norme, devono essere sentite dal PM entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. Anche questa disposizione, forse molto più di altre, ha generato serie difficoltà applicative della nuova Legge nella realtà quotidiana, ben rappresentate dalle esternazioni di chi si è trovato a vivere la concreta applicazione della nuova Legge.

“Nessuno vuole contestare il Codice Rosso, dico che sta diventando un problema a livello pratico, il problema è come gestirlo, già ora ci sono 30 allarmi al giorno e ciò ci impedisce di estrapolare i casi più gravi”. Così il Procuratore di Milano, Dott. Francesco Greco, si esprimeva sul Codice Rosso parlando con i cronisti dell’ennesimo femminicidio nel nostro Paese, dopo la morte di Adriana Signorelli (da Huffington Post del 2/9/2019). In tale occasione, il Procuratore di Milano sottolineava che gli uffici della Procura milanese e, in particolare, quelli dei PM di turno venivano sommersi da “una marea” di segnalazioni di presunti abusi, violenze o atti persecutori, giorno dopo giorno. E ciò causava ovviamente serie “difficoltà” nella stessa gestione di segnalazioni e denunce, anche di quelle più “urgenti”.

Il Dott. Greco chiariva che, già nel 2018, la Procura milanese aveva gestito “5395 procedimenti” per “reati da Codice Rosso’”, quando non era ancora in vigore, ossia “2121 per maltrattamenti, 1151 per stalking, 574 per violenza sessuale e 34 per violenze su minori”. E “se quest’anno si ripetessero quei numeri – aggiungeva il Procuratore – avremmo, come l’anno scorso, quindici Codici Rossi al giorno, ma già ora si viaggia sui 30 allarmi al giorno e ciò impedisce di estrapolare i casi più gravi”. Per il Dott. Greco, in buona sostanza, il Codice Rosso è certamente “utile” ed importante, ma “il problema è come gestirlo” e si rischia di non riuscire ad “estrapolare i casi più gravi” dalla marea di denunce, anche perché tutti i casi per legge devono essere trattati “con urgenza”.

Il Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Milano, Dott.ssa Maria Letizia Mannella, a capo del pool “fasce deboli”, ha spiegato come anche la carenza “drammatica” negli organici della Procura, ossia l’assenza di cancellieri e personale amministrativo, crea diversi e seri problemi di gestione, perché i PM hanno tre giorni per sentire la presunta vittima di violenze e iscrivere il fascicolo (su Huffington Post del 2/9/2019), così come sottolineato anche dalla Deputata PD, Lucia Annibali, in un’intervista su Huffington Post, allorquando sottolineava che la realizzabilità dell’obbligo dei tre giorni resta impraticabile nelle Procure più piccole o sotto organico.

«Fare le leggi senza tenere conto della realtà pratica della struttura che le deve poi sostenere è solo riempirsi la bocca e sciacquarsi la coscienza», l’amaro e crudo, ma realistico, commento dell’Avv. Francesca Garisto, collaboratrice di i.Re., Donne in rete contro la violenza (in “Codice Rosso, cosa non funziona nella legge contro la violenza sulle donne?” di Chiara Pizzimenti, Vanity Fair, News Diritti, del 8/9/2019). Dalle denunce delle Procure, però, l’accumulo di casi non porterà alla rapidità nella procedura e questo profilo di criticità era già stato notato dalle diverse Associazioni quando il Codice Rosso è stato varato senza stanziamenti di fondi, senza poter incrementare il personale e senza la possibilità di organizzare i necessari corsi specifici di formazione.

Il Dott. Fabio Roia, Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano, ha chiaramente sottolineato, sul punto, la importanza della “competenza e specializzazione di Pubblici Ministeri e operatori delle forze dell’ordine. … la legge sul Codice Rosso ha reso obbligatoria la formazione. L’obiettivo è far sì che gli operatori di Polizia Giudiziaria e i Magistrati siano specializzati e formati per valutare le priorità. Andrebbe introdotto il triage come nei pronto soccorso degli ospedali, con codice giallo, verde e bianco per differenziare il livello d’urgenza. … Questo è il vero tema. Senza risorse per la formazione e per implementare il personale a disposizione delle Procure c’è il rischio che tutto venga vanificato” (da il Messaggero.it del 14/9/2019).

Accanto alle profonde criticità che caratterizzano il profilo tecnico applicativo della nuova Legge – limpidamente evidenziate con drammatica preoccupazione dai protagonisti della quotidianità giudiziaria – però, sembra di potersi affermare che ne emergono altre, in tutta la loro tangibile imponenza, che rendono il provvedimento normativo in questione assolutamente “ambiguo”, nella fotografia mediatica quotidianamente offerta alla collettività. Non può sottacersi, infatti, che per quanto non esplicitamente riservato alle sole donne – ma “dedicato” a tutti i casi di violenza domestica e di genere – il “Codice Rosso” è stato trasmesso all’opinione pubblica come una “legge per le donne”.

Appare evidente che, sulla carta, il “Codice Rosso” sia una legge per entrambi i sessi, ma non è nascosta l’opinione di chi ritiene che, nella pratica, forse verrà applicato al pari dell’art. 612 bis c.p.: se è una donna a denunciare per stalking, la reazione è istantanea; se è un uomo, prima passano risate e dileggi, poi rinvii, poi forse la denuncia va avanti, per essere archiviata poco dopo da un Giudice. Le false accuse non faranno eccezione: semplicemente andranno a bersaglio con più rapidità.

La verità – che, anch’essa, meriterebbe di non essere sottaciuta, soprattutto all’alba della entrata in vigore della nuova Legge – è che accanto alla violenza sulle donne ce n’è un’altra più nascosta, più taciuta, più “sotterranea”, più trascurata ed è la violenza sugli uomini da parte delle donne e che il Codice Rosso è Legge per la tutela anche delle vittime di questa violenza.

A dirlo, ma solo in parte, sono quei pochi dati che vengono fuori da un’indagine dell’ISTAT pubblicata lo scorso anno, che, per la prima volta, analizzando la violenza sul lavoro, ha rilevato anche le molestie a sfondo sessuale ai danni degli uomini.

Sono 3 milioni 574 mila gli uomini che hanno subito molestie di questo tipo almeno una volta nella vita, 1 milione 274 mila negli ultimi tre anni (l’indagine ISTAT si riferisce al periodo 2015-2016). Un dato inferiore a quello relativo alle donne, ma pur sempre esistente (Osservatorio Diritti on line del 20/2/2019, “Violenza sugli uomini: ecco cosa si nasconde fra le pareti di casa” di Cristina Maccarone). L’ISTAT, in ogni caso, ha chiarito anche che «gli autori delle molestie a sfondo sessuale risultano in larga prevalenza uomini: lo sono per il 97% delle vittime donne e per l’85,4% delle vittime uomini».

Nel dettaglio, le forme di molestia più diffuse tra uomini e donne non sono poi così differenti, sebbene lo siano, secondo l’Istituto di Statistica, quantitativamente: al primo posto tra le molestie ci sono quelle verbali, seguite dai pedinamenti, dall’esibizionismo per arrivare alle molestie fisiche. Sia per uomini, sia per donne.

Nel mondo virtuale le differenze si assottigliano: uomini e donne sono quasi sullo stesso piano per quanto riguarda le molestie sui social network o il furto delle credenziali.

Oltre ai dati dell’ISTAT, però, è difficile trovare fonti diverse che raccontano il “fenomeno” sommerso della violenza delle donne sugli uomini.E se si pensa che sia così solo perché ci sono meno casi, è di diverso parere Barbara Benedettelli che alla violenza in generale (senza distinzione di genere) ha dedicato il libro 50 sfumature di violenza. Femminicidio e maschicidio in Italia: «Che ci siano meno casi di violenza sugli uomini non è un dato di fatto. In Italia non ci sono indagini ufficiali e largamente condivise che possono confermarlo. E gli uomini, a causa dello stereotipo di virilità e della quasi certezza di non essere creduti, non denunciano».

Del fenomeno si è occupata «nel 2012 l’Università di Siena, la cui proiezione statistica è allarmante: 5 milioni di uomini vittime degli stessi tipi di violenza che subiscono le donne», continua la giornalista e saggista «Numeri analoghi sono stati rilevati da Gesef, associazione per genitori separati con sportelli di ascolto in Italia, che si è basata su un campione molto simile a quello usato dall’ISTAT per l’indagine che vede vittime le donne».

Ricerche sporadiche, che, però, non fanno emergere il problema, come, diversamente, avviene nei paesi anglosassoni che alla violenza, tutta ed indistintamente, dedicano maggiore attenzione. In Gran Bretagna, per esempio, il Ministero dell’Interno ha monitorato l’andamento del fenomeno, in Inghilterra e in Galles, dal 2005 fino a oggi: se prima la forbice tra donne e uomini vittime era piuttosto ampia, adesso si parla di un 7,9% contro un 4,2 per cento. «Le donne hanno quasi il doppio delle probabilità di subire abusi domestici», si legge nel rapporto. Si parla di «1,3 milioni di donne vittime e 695 mila di sesso maschile», numeri comunque importanti in entrambi i casi anche se, tiene a precisare il Ministero, «le stime non tengono conto del contesto e dell’impatto dei comportamenti abusivi subiti».

Qualche anno fa in Sicilia, esattamente a Catania, è nata AVU Associazione violenza sugli uomini. A fondarla sono stati due Avvocati, Massimo Arcidiacono e Alessandro Granieri Galilei, che si occupano di aiutare uomini, ma anche donne, perchè “la violenza non ha genere”, ha precisato l’Avv. Arcidiacono.

Ecco, forse questo dovrebbe essere il punto di partenza da cui muovere, anche al fine di valorizzare, in tutti i suoi aspetti, da quello tecnico a quello sociale, il Codice Rosso, per non farne, attraverso una interpretazione assolutamente fuorviante e di parte, il finto baluardo di un sesso, ancorchè di un altro: la violenza non ha genere!

Tutto è nato, riferisce l’Avv. Arcidiacono “quando abbiamo ricevuto una telefonata di un uomo da Lentini (Siracusa) che denunciava: “Sono disperato, mia moglie mi ha buttato fuori di casa, non posso vedere più i miei figli, sono stato licenziato, sono tornato a vivere con mia madre, ma non ho neanche i soldi per venire con l’autobus a incontrarvi. Non so se devo suicidarmi o sopravvivere …”. Quella situazione ha fatto scattare un campanello d’allarme e da allora sono diversi i casi di violenza in cui ci imbattiamo, sia di tipo psicologico che fisico, e questo quasi sempre all’interno delle mura domestiche». Aggiunge il legale: «È tra i congiunti che si verificano le situazioni più rilevanti. Se nelle dinamiche di coppia l’uomo sfoga la rabbia per lo più dal punto di vista fisico, le donne agiscono di converso sulla psiche dell’uomo».

Un modus operandi, quest’ultimo, riconosciuto anche dall’Ordine degli Psicologi dell’Emilia Romagna che, constatando che la violenza psicologica è subita anche da uomini e bambini, sebbene non ci siano ricerche quantitative in proposito, parla della propensione delle donne a utilizzare, nell’ambito familiare, soprusi psicologici rispetto ad altre forme di maltrattamento.

Un tipo di violenza sottovalutata anche dalle vittime stesse perché, come spiegano gli psicologi, «non la riconoscono come forma di violenza, specie se si stabilisce come modalità relazionale all’interno della coppia e della famiglia. E invece è una delle più forti e distruttive espressioni manipolatorie di esercizio del potere e controllo sulla persona». Aggiunge ancora l’Avv. Arcidiacono: «La violenza sugli uomini da parte delle donne le vede denigrare l’uomo, nelle sue capacità familiari, sessuali, dal punto di vista economico e, quando ci sono i figli, quello che avviene spesso è l’alienazione parentale: gli uomini si vedono privati dei loro bambini per mesi o addirittura anni. Situazioni del genere fanno crollare chiunque». A dispetto di questo, come anticipava Barbara Benedettelli, sono poche le denunce: «Gli uomini si vergognano a parlare di queste cose… E così spesso tacciono».

La violenza sugli uomini non è solo psicologica, ma è anche fisica, come dimostrano i fatti di cronaca, che, magari, non sempre hanno la giusta considerazione mediatica; nel solo mese di agosto 2019 tre donne hanno ucciso i loro compagni o ex compagni: Francesco Armigero, 30 anni, Nicola Pizzi, 53 anni, e Leonardo Politi, 61 anni. Quali sono state le reazioni sociali e mediatiche?

Sono tanti i casi che anche Benedettelli riporta nel testo innanzi ricordato. Nella ricerca dell’Università di Siena emerge un 60,5% di uomini intervistati che parla di spinte, graffi, morsi, capelli strappati, un 51% di lancio di oggetti e, in misura minore, folgorazione con la corrente elettrica o dita schiacciate con la porta. A subire questi atti, ovviamente, non solo uomini, ma anche donne. Lo scrive la giornalista nel suo libro Al centro va messa la persona. E uomini e donne sono entrambi vittime: “Chi subisce violenza ha le stesse ansie, le stesse paure, gli stessi traumi ed è colpito da forme di violenza molto simili. Solo che le donne oggi sono capite, aiutate, protette. Gli uomini no”.

C’è una soluzione? «Uomini e donne fanno parte di un unico “ecosistema” che deve essere osservato e studiato senza veti ideologici, pregiudizi, narrazioni retoriche e monche che condizionano la percezione collettiva della realtà e impediscono di trovare il modo corretto di “aggiustare ciò che si è rotto”: le relazioni affettive che diventano (o nascono) Non ci sono vittime di serie A e vittime di serie B. Tutti e senza distinzione alcuna, come recita anche l’articolo 3 della nostra Costituzione, hanno il diritto di essere ascoltati, tutelati, sostenuti. Lo chiede anche la Convenzione di Istanbul del 2011 che riconosce gli uomini come possibili vittime di violenza domestica».

Gli spunti di riflessione che, senza nessuna pretesa di esaustività, hanno ispirato questa chiacchierata sulle diverse “facce” del Codice Rosso e sui diversi profili di problematicità che i primi ambiti di operatività hanno evidenziato, originano umilmente dalla sentita necessità di permettere la piena realizzazione proprio di quegli intenti che hanno ispirato il Legislatore nella redazione del provvedimento normativo in questione.

Il salto di mentalità introdotto dal Codice Rosso, per lo meno in via propositiva, è tangibile, perché è stata la innegabile dimostrazione del fatto che in Italia si è compreso che il fenomeno della violenza (sulle donne, sugli uomini, sui bambini e in famiglia) è da trattare come un problema sociale; un problema sociale che, però, merita di essere compreso intimamente e non settorializzato. Se bastasse attribuire un colore per stabilire le priorità e far sì che a queste priorità facciano seguito risposte immediate, concrete e risolutive saremmo forse senza problemi. Ma così non è e non poteva esserlo per il Codice Rosso che pure è nato per cercare di porre in essere ogni più opportuno e concreto accorgimento per cercare di arginare (o meglio, per arginare) una violenza che in Italia è ormai una malattia sociale, senza sesso, né genere.

Purtuttavia, se, come testimoniato dai protagonisti della quotidianità giudiziaria, alla priorità data al contrasto del fenomeno non farà seguito un potenziamento degli organici di chi indaga e di chi controlla il territorio è chiaro che tutti gli intenti saranno destinati a restare buoni, ma solo sulla carta, e tutti gli sforzi saranno destinati ad essere vanificati. La necessità di una rete che consenta, ancor prima di arrivare al momento repressivo, di attivare un sistema preventivo appare evidente. Una rete che richiede uomini, formazione, specializzazione, strutture e fondi; elementi, questi, che purtroppo, in questo momento, sembrano pericolosamente mancare.

E, allora, le disquisizioni ormai diffuse sulle problematiche applicative del Codice Rosso, possono essere la viva occasione per occuparci della violenza, in ogni suo profilo (e di tutti gli strumenti per prevenirla e, solo dopo, per curarne gli effetti a volte tragici), contro le persone, che siano donne, uomini e bambini, perché la violenza domestica è un fenomeno sociale che non può riguardare (o, meglio, che non riguarda) solo le donne o solo gli uomini, ma, nella sua immensa tragicità, abbraccia, purtroppo, la quotidianità di ognuno, senza distinzioni di genere e questo, forse, dovrebbe costringerci a ripensare per un attimo la connotazione sociale che ha caratterizzato (con consapevolezza o meno, sarebbe azzardato sostenerlo) sin dalla fase embrionale, la nuova Legge.

* Avvocato, ISP Bari