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Il tramonto del cognome paterno

Questi ultimi mesi sono stati ricchi di novità sul tema a noi caro della paternità, tanto che mi sono trovato un po’ in imbarazzo nella scelta di un argomento sul quale riflettere. Di grande rilevanza – anche se non inattesa – la pronuncia della Corte Costituzionale sul cognome (la n. 286 dell’8 novembre 2016, pubblicata il 21 dicembre) che elimina l’attribuzione automatica del cognome paterno, dichiarandola incostituzionale, e lascia liberi i genitori di scegliere fra più opzioni. Poi c’è stata la presentazione annuale del rapporto Istat su “Matrimoni, separazioni, divorzi”, che ha fotografato il nostro Paese nel 2015 offrendo come sempre una serie di dati che si traducono in spunti di riflessione. Numerose sentenze in tema di separazione e affidamento – di merito e di legittimità – hanno confermato vecchi, importanti principi o innovato aprendo nuove, interessanti strade. Infine, quest’anno compie dieci anni di vita la Legge 2006/54 sull’affidamento condiviso, che certo meriterebbe un consuntivo.

Ho scelto di parlare della prima questione, e non è la prima volta, poiché essa mi sembra accogliere in sé una grande, dolorosa contraddizione: si tratta di un passaggio che quando sarà attuato (ormai non ci sono dubbi sul “se”, ma solo sul “quando”) modificherà sostanzialmente il concetto di “famiglia”, influirà sensibilmente sul “valore” del padre, innoverà annullando un sistema anagrafico in vigore da circa dieci secoli. Non mi pare poco, eppure su questo storico passaggio nessuno si interroga. Non leggo articoli in merito, non vedo dibattiti televisivi o radiofonici, non sento la gente – neppure le cosiddette “elites culturali” – parlarne. Nemmeno sui social network, sempre pronti ad ospitare virulenti dibattiti su ogni sciocchezza, mi è capitato di leggere alcunché. Psicologi, sociologi, psicoanalisti, politici, storici… tutti tacciono tranquilli, salvo mie gravi distrazioni. E se qualche corposo e autorevole intervento mi è sfuggito vi prego di segnalarmelo.

Non starò a spiegare come siamo arrivati a questo punto: le raccomandazioni del Consiglio d’Europa; l’intervento della Commissione Europea per i Diritti dell’Uomo che ha condannato l’Italia per violazione del principio di uguaglianza fra uomo e donna; le precedenti sentenze della Corte Costituzionale, specialmente quelle del 1998 e del 2006.  In quest’ultima la Corte aveva definito l’automatismo del patronimico “il retaggio di una conceziona patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza fra uomo e donna” (troviamo quasi le stesse parole nella sentenza dell’8 novembre scorso) e aveva sollecitato il legislatore a intervenire. Anche la Corte di Cassazione, in sentenze del 2006, del 2009, del 2011, del 2013, aveva evidenziato la ingiustizia del vigente sistema di attribuzione del patronimico. Non racconterò nemmeno la lunga vicenda di Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, che per primi, volendo dare alla figlia, nata nel 1999, il cognome della madre portarono il loro caso all’attenzione della Corte Europea dei Diritti Umani.

Vediamo invece qual è la situazione. Il 24 settembre 2014 la Camera approvò il Disegno di Legge n. 1628, testo risultante dall’unificazione di più disegni, per l’esattezza sette, presentati rispettivamente da Rosy Bindi (PD), Alessandra Mussolini (Pdl), Laura Garavini (PD), Jole Santelli (Pdl), Francesco Colucci (Pdl), Vittoria Franco (PD), Donatella Poretti (PD). Da allora il testo giace in Senato e, che io sappia, non è stato neppure calendarizzato (i fautori del “Sì” al recente Referendum avrebbero probabilmente qualcosa da dire…). Il Ddl è composto di sette articoli, ma tutta la “rivoluzione” è contenuta nel primo, per il quale prima dell’art. 144 del Codice Civile è inserito il seguente:

“Art. 143 quater. – (Cognome del figlio nato nel matrimonio). – I genitori coniugati, all’atto della dichiarazione di nascita del figlio, possono attribuirgli, secondo la loro volontà, il cognome del padre o quello della madre ovvero quelli di entrambi nell’ordine concordato.

In caso di mancato accordo tra i genitori, al figlio sono attribuiti i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico.

I figli degli stessi genitori coniugati, nati successivamente, portano lo stesso cognome attribuito al primo figlio.

Il figlio al quale è stato attribuito il cognome di entrambi i genitori può trasmetterne al proprio figlio soltanto uno, a sua scelta.

Le disposizioni di questo articolo si applicano anche al figlio nato fuori dal matrimonio e riconosciuto da entrambi i genitori e a quello adottato.

Al momento della maggiore età il figlio che alla nascita, per decisione dei genitori, aveva ricevuto un solo cognome può aggiungere al proprio il cognome paterno o quello materno”.

Per qualcuno, si tratta di una rivoluzione che pone fine a una storica ingiustizia e sancisce un principio di sacrosanta parità fra i genitori; per altri un inutile spreco di energie in un momento carico di ben altri problemi ed anche un ulteriore fomite di tensioni e litigi fra i coniugi, “un altro granello” – come mi è capitato di leggere – “nell’ingranaggio già abbastanza inceppabile dell’integrità e della stabilità familiare”. I movimenti cattolici più oltranzisti sono particolarmente ostili al disegno di legge in questione, che considerano – sono parole tratte dal sito www.sialla famiglia.it – “un ulteriore contributo alla disgregazione dell’unità familiare”. Analoghi giudizi sui siti www.cristianesimocattolico.it, www.culturacattolica.it ed altri simili. Più caute le posizioni ufficiali: il quotidiano Avvenire riporta la notizia ma non commenta, mentre in una intervista a Radio Vaticana mons. Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina e assistente generale dell’Azione Cattolica, non è contrario, purché “ambedue i genitori vengano considerati come fondamentali”. Giudica invece l’ipotesi del solo cognome materno “un ritorno indietro”.

Oggi la sentenza della Corte Costituzionale dichiara esplicitamente la illegittimità costituzionale del sistema vigente e sancisce il criterio della libera scelta da parte dei genitori. Ne sapremo di più con il deposito della sentenza, la cui estensione è affidata a Giuliano Amato, ma con questa pronuncia la Corte Costituzionale ha detto l’ultima parola in materia, sopperendo alle usuali lungaggini parlamentari.

Entrando nel merito, devo subito anticipare che non essendo un nostalgico del patriarcato (che ha fatto per secoli danni almeno pari a quelli che oggi sta producendo una diffusa maternizzazione con conseguente “evanescenza” paterna) ed essendo invece un fautore di pari diritti/doveri delle persone – non di uomo/donna –  non posso non trovare giusto che padre e madre siano posti sullo stesso piano anche anagraficamente, se è vero che i figli si fanno in due e che a entrambi i genitori competono responsabilità accuditive e educative. Parimente, non trovavo giusto che la donna, sposandosi, dovesse perdere il suo cognome ed acquistare quello del marito (prima che, a partire dal 2000, le fosse consentito di aggiungere anche il suo).

Dove invece non mi trovo d’accordo è quando si vuole stabilire una primazia materna “naturale” che deriverebbe dalla gravidanza e dal parto da un lato e dal maggior peso accuditivo e educativo dall’altro. Concetto che è bene espresso nelle parole pronunciate dall’on. Marisa Nicchi (SEL) nella discussione generale del 14 luglio 2014 alla Camera sul Ddl 1628: “L’imposizione del cognome paterno nasce dalla volontà degli uomini di darsi una centralità nella generazione della vita e della discendenza da cui si sentivano esclusi, con la conseguenza che, con l’occultamento del nome della madre, si è cancellata la primaria relazione madre-figlio o figlia. Primaria perché si è figli e figlie in quanto si ha una madre che partorisce dopo una gravidanza voluta. Primaria perché si viene al mondo solo da una donna, che ha un ruolo fondamentale nella maternità, nella filiazione e nella crescita dei figli e delle figlie”. E ancora più chiaramente: “C’è una primaria responsabilità femminile nella riproduzione: è un principio da riconoscere sempre. (…) Non vi è il rovescio della discriminazione, ma, semplicemente, la presa d’atto di ciò che avviene nella realtà”.

Sulla stessa linea l’intervento dell’on. Titti Di Salvo (PD), secondo la quale la discendenza automatica attraverso il cognome paterno costituisce “quasi un’inversione di senso in una relazione che, oggettivamente, realisticamente, ha una primazia, che è quella della madre. (…) Io avrei preferito che la primazia del cognome materno venisse segnalata”. Sono parole che, a distanza di molti anni, riecheggiano queelle di Giuliano Pisapia, quando propose – era l’agosto del 1996 e Pisapia era Presidente della Commissione Giustizia della Camera e Presidente di Rifondazione Comunista – di sostituire tout court il cognome paterno con quello matermo “per la priorità che di fatto l’apporto materno ricopre nella riproduzione ed allevamento dei figli”.

Ora, l’importanza del rapporto madre-figli, satura di implicazioni profonde (non tutte positive, anzi…) è indiscutibile, tant’è che sulla delicata questione dell’aborto ho sempre ritenuto che l’ultima parola, ove non sia possibile un accordo, debba spettare alla donna, pur trovando profondamente discriminatorio che al padre sia consentito di essere coinvolto (anzi: “informato”) solo, come recita la Legge 194, “ove la donna lo consenta”. Tuttavia, fondare sul particolare rapporto biologico madre-figlio una superiorità femminile-materna mi pare sbagliato e pericoloso, così come fu sbagliato e dannoso, nella Grecia di duemila anni fa, fondare la superiorità maschile sull’idea che la madre fosse solo un “contenitore”, un “recipiente” e che il seme maschile fosse il vero elemento fondante della riproduzione.

Tuttavia, la mia adesione in linea di principio al doppio cognome (non certo al cognome materno in sostituzione di quello paterno) non esclude che si possano fare alcune riflessioni. Anzitutto,  una riflessione storica. L’uso del cognome nacque, prima tra le famiglie di nobile lignaggio, più o meno dieci secoli fa. Per carità, molti usi e costumi sono durati secoli e d’improvviso sono scomparsi (basti pensare proprio al patriarcato, che sostanzialmente ha caratterizzato l’intera storia dell’umanità e che da 50 anni a questa parte vacilla in tutto il mondo occidentale) tuttavia è bene sapere che aboliremo qualcosa di profondamente radicato nella storia dell’uomo.

Poi qualche riflessione psicologica. Sull’importanza del nome e del cognome come elemento costitutivo della identità di ognuno gli psicologi sono concordi. Ma non è solo questa componente identitaria a dare pregnanza al cognome; per il padre dare il proprio cognome al figlio equivale in qualche modo a riconoscerlo, a “farlo nascere” simbolicamente. La madre dà al figlio la vita facendolo nascere da sé, dal suo ventre. Ed è un rapporto che nessuno potrà mai disconoscere. Mater semper certa… (trascuriamo, per ora, i “mix” resi possibili dalla scienza medica ma ancora, tutto sommato, sporadici). Il padre lo fa nascere alla società, dandogli una identificazione sociale. E’ il suo unico segno, la sua unica impronta visibile, manifesta, il suo “dono”. Un’invidia storica della gravidanza? Può darsi. Certamente questo dà al padre un potere. Un potere diretto sul figlio (hai il mio cognome, sei della mia gente, legato a me) ed uno, mediato, nella società (lui è mio figlio, ovunque vada porta il mio cognome). Non voglio dire che sia giusto, né che sia bene. Dico solo che c’è anche questo da considerare. Che cosa accadrà alla figura paterna, già abbondantemente svilita, svalorizzata (in parte anche per colpa del padre stesso) quando l’avremo privata anche di questo sigillo? Cosa sarà di quel padre di cui molti lamentano “l’evaporazione” – per usare un termine lacaniano poi molto ripreso da altri – la fragilità, la mancanza di valore, di significato, di autorità? Ne trarranno beneficio i figli, che già vivono gran parte della loro vita in contesti fortemente “maternizzati”? Forse non accadrà proprio nulla e le nuove generazioni dimenticheranno presto. Forse potranno vivere le figure dei genitori in modo più paritario, senza squilibri e questo potrà essere per loro un bell’esempio (che dire, allora, dello squilibrio che si genera nove volte su dieci ogni volta che un giudice sentenzia in materia di separazione e affidamento di figli minori e al quale non si riesce a porre rimedio?).

Naturalmente non ho risposte certe, anche perché ogni caso sarà a sé, ogni storia familiare e coniugale sarà “quella”, ogni figlio vivrà il suo cognome – o i suoi cognomi – in modo diverso. Non credo, però, che si tratti di un passaggio irrilevante e privo di conseguenze. Per questo mi meraviglio del silenzio che per ora lo circonda. Cercando fra libri e giornali, su siti e su social network, parlando con amici e colleghi, ho trovato solo un intervento di Claudio Risé, psicoanalista noto per essersi occupato del maschile in tutte le sue declinazioni, pubblicato nel 2009 sul quotidiano di Napoli Il Mattino. “L’identità sociale dei figli, definita dal cognome” – ha scritto Risé – “non può rimandare soltanto al padre in una società, la nostra, nella quale la madre ha un ruolo sociale spesso autonomo e si occupa dei figli generalmente più del padre durante l’infanzia, ma spesso anche dopo”. Risé accenna quindi agli “enormi problemi” provocati dallo sbiadimento della figura paterna e alla “maternalizzazione” dell’educazione che non prepara adeguatamente i figli ad affrontare “le sconfitte e i dolori della vita”. Questa legge – osserva – non deve essere “la rivincita della donna-madre dalla precedente ingiusta esclusione (…) quanto fare davvero l’interesse dei figli che quel cognome porteranno”. E dopo aver ricordato l’aspetto “apparentemente formale (ma fortemente simbolico, e dunque profondo) del cognome”, così conclude: “In una società davvero democratica e libera, il meglio sarebbe che ogni persona, alla sua maggiore età, o successivamente, potesse scegliere qual è il suo nome: della madre, del padre, o di entrambi”. Se devo estrarre un “succo” dall’articolo di Risé mi azzardo a leggerlo così: giusto che il cognome non sia più solo un appannaggio paterno. Giusto ma non privo di conseguenze, non solo giuridiche ma psicologiche. Sulle quali, aggiungo io, sarebbe bene riflettere.

Ci sono molti altri aspetti che avrei voluto sottoporre al lettore: come le obiezioni “tecniche” (poche) in sede di discussione e fuori del Parlamento. Fra queste ultime, significativo l’articolo di Iole Natoli – regista, pittrice, pubblicista – sul potere dei genitori nella decisione per il cognome, che a Natoli appare “esorbitante” rispetto al diritto del figlio. Natoli dirige il blog cognome materno Italia, nel quale definisce  il cognome patrilineare “il burqa culturale delle donne”.

Utile sarebbe stato anche un confronto con il sistema adottato in altri paesi europei, Spagna, Francia, Germania, Regno Unito… Ma lo spazio richiesto sarebbe stato quello di un libro, non di un articolo…

Nella discussione generale del 14 luglio 2014 alla Camera sul Ddl 1.628, l’on. Marisa Nicchi, sopra citata, ha detto: “L’imporsi della possibilità di scelta del cognome porta con sé uno scardinamento di consuetudini e automatismi che si rifletterà sui vincoli più stretti, che saranno ripensati non più costretti nel modello unico di famiglia, e coinvolgerà la relazione con i nonni e con le proprie origini. Ci sarà una grande discussione, un grande lavoro culturale da fare”. Appunto: non sarebbe stato meglio farlo prima, questo grande lavoro culturale?

* Presidente dell’I.S.P.