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Il tempo dei padri


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di Maurizio Quilici *

E’ questo il tempo dei padri, padri nuovi e diversi da quelli che abitarono i secoli scorsi, padri che ormai sfumano agli occhi delle nuove generazioni come qualcosa di indistinto e sconosciuto. Ma dobbiamo parlare del “tempo dei padri” anche in un altro senso, ossia riferendoci a una vecchia questione: il significato da attribuire al tempo che i padri trascorrono con i propri figli. In sintesi, e usando l’ormai inevitabile lessico anglosassone, quality time o quantity time? Più importante la quantità del tempo che un padre passa con i suoi figli o la qualità, la natura del tempo?

Da quando ci si è cominciati a porre il problema, ossia da quando il tema della paternità è uscito dalla nebbia e dalla trascuratezza per divenire rilevante agli occhi di ogni disciplina, la risposta era pressoché univoca: non conta il quanto ma il come. E in effetti sembrava risposta ovvia: che senso può avere trascorrere ore vicino a un figlio magari senza interloquire, senza relazionarsi con lui? Meglio un periodo più breve ma fatto di dialogo, di partecipazione, di scambio. Concordavo anch’io, e naturalmente lo faccio ancora. Ai padri che a volte mi hanno chiesto cosa fare per il proprio figlio per essere un buon padre ho sempre risposto: non preoccupatevi tanto di fare cose per vostro figlio, quanto di fare cose con vostro figlio. Non importa cosa: che siano cose legate alla vostra attività (un lavoro manuale per un problema domestico, parte del vostro lavoro professionale, un film da vedere, una musica da ascoltare, una escursione, un viaggio… ) o a quella di vostro figlio (i suoi giochi, i suoi compiti scolastici…). Siate vicini a lui negli spazi della vita di tutti i giorni, con una presenza attiva, empatica, partecipe.

Numerose le affermazioni in questo senso di psicologi e pedagogisti. “La pura e semplice quantità di ore è, tuttavia, assai meno significativa della qualità della relazione con i bambini. (…) Il vero problema non consiste nel numero di ore che egli [il padre, n.d.r.] può dedicare al figlio, ma nelle cose che fa con il figlio quando si occupa di lui”. (T. Loschi – G. Vandelli, Essere padre fare il padre, Aloisa Edizioni 1991, p. 146). E ancora: “Essere un buon genitore non significa trascorrere un certo numero di ore con il bambino: ciò che conta è il tipo di relazione che si instaura quando il genitore e il bambino sono insieme” (Rudoplh Shaffer, Decisioni sui problemi socio-familiari riguardanti i bambini, Piccin 1994, p. 230). Queste due frasi – ma potrei citarne numerose altre – riflettono il pensiero di gran lunga dominante fino a pochi anni fa. Più di recente qualche voce dissonante si era fatta per la verità sentire. Nel 2009 lo psichiatra e psicologo Michele Novellino scriveva senza mezzi termini: “E’ del ’68 la mitica auto-convinzione che… non conta la quantità del tempo trascorso con i figli ma la qualità… diciamolo francamente (un po’ ce lo siamo detto tutti noi di quell’epoca): che bel modo di metterci la coscienza a posto!”. (Michele Novellino, L’arco e la freccia, FrancoAngeli, p. 30). Pochi anni dopo, la sociologa Marina D’Amato, chiamando in causa i genitori di oggi che “appaiono scarsamente vocati a impegni costanti e di lungo periodo”, così scriveva: “Si sono persino inventati che la qualità del tempo trascorso con i figli vale molto più della quantità di ore dedicate alla loro educazione” (Marina D’Amato, Ci siamo persi i bambini, Laterza 2014, p. 52). Certo, D’Amato si riferisce non a ore “vuote” ma a ore impegnate nell’educazione; tuttavia ella denuncia chiaramente il quality time come un comodo alibi.

Studi recenti – antropologici e biologici, ma soprattutto legati alle neuroscienze e alla endocrinologia – vanno mettendo in luce aspetti finora trascurati del fattore “quantità”. E’ giusto prenderli in considerazione e riflettervi, anche perché essi hanno effetti su comportamenti sociali, come i congedi di paternità e i congedi parentali, e notevoli implicazioni di carattere psicologico e comportamentale. Un buon aggiornamento su questo tipo di ricerche è costituito dal libro dell’antropologa Sarah Blaffer Hrdy Il tempo dei padri (Boringhieri 2024), recensito nello scorso numero di ISP notizie. Non solo Blaffer giunge alla conclusione che l’uomo (inteso come maschio) è antropologicamente portato all’accudimento e alla cura dei figli, ma evidenzia come la quantità di tempo trascorsa con un bambino (a prescindere dalla qualità) consenta lo sviluppo di qualità ritenute tipicamente materne. Per fare un esempio: finora si è sempre creduto che le madri fossero più capaci dei padri nel distinguere il pianto del proprio neonato, grazie al famoso “istinto materno”. Ma uno studio condotto dall’Università di Lione/Saint-Etienne, diretto dal neuroetologo Nicolas Mathevon e citato da Hrdy, ha dimostrato che la capacità di riconoscere il pianto del proprio bambino (e reagirvi di conseguenza) non dipende dal sesso del genitore, ma dalla quantità di tempo che il genitore trascorre vicino al figlio. Insomma, la maggiore capacità materna sarebbe dovuta al fatto che la madre trascorre molto più tempo con il neonato rispetto al padre. Quanto più tempo il padre trascorre assieme al neonato tanto più si affina la sua capacità di riconoscere il pianto del figlio. Fino ad equiparare la sensibilità materna. Da notare che non conta neppure il rapporto di sangue con il neonato, ma semplicemente la familiarità dell’adulto con il neonato. Ampliando il discorso, Hrdy conclude affermando che “uno stimolo che a livello di specie quasi sempre si rivela cruciale è l’esposizione prolungata a un certo bambino”, tempo per il quale ella ha coniato un acronimo (con ironia riferita a un certo vezzo comune tra gli psicologi scrive: “E finalmente posso inventare anche io un acronimo): TTSC, ovvero ‘tempo trascorso a stretto contatto’”.

Trasformazioni a livello neuroendocrino e cerebrali sono ormai dimostrate nei neo-padri (e persino negli uomini che stanno per diventarlo). Nel caso di chi è divenuto padre queste trasformazioni avvengono dopo una soglia temporale legata al tempo trascorso con il figlio. La durata della vicinanza ha effetti persino durante il sonno, provocando conseguenze a livello endocrino: mentre il padre e il bambino dormono insieme calano i livelli di testosterone nell’uomo – notoriamente collegati all’aggressività – mentre aumentano quelli di ossitocina, che induce una sensazione di benessere e promuove i sentimenti di affetto. Qualcosa di cui andrebbero informati quei giudici che, nella separazione e nell’affidamento, sono pregiudizialmente ostili al pernottamento di un figlio piccolo con il padre.

Insomma, conclude Hrdy: “Quello che so è che più tempo un uomo trascorre con un bambino, più è probabile che il loro legame si rafforzi”. Una affermazione che si raccorda con quella già espressa in precedenza da altri studiosi: quanto più precoce è la vicinanza del padre al figlio tanto più probabile il futuro attaccamento. Per questi motivi  in Italia sarebbe opportuno un congruo incremento dei congedi di paternità alla nascita, sull’esempio di molti altri Paesi.

Ce n’è abbastanza – mi sembra – per rivalutare la quantità del tempo che passiamo accanto ai nostri figli. Naturalmente senza trascurare la qualità. E soprattutto tenendo presente un punto che invece è spesso ignorato: come avvertiva la psicoanalista Francoise Dolto, “il tempo non è lo stesso per un bambino e per un adulto”. Diversa è la dimensione, diversa la pregnanza; il significante “tempo” ha significati molto diversi per un bambino e per un adulto. Dolto si riferiva alla assenza del padre, ma lo stesso principio vale, a contrario, per la presenza del padre.

* Presidente dell’ISP

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