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Maestro d’infanzia: professione rara e bellissima

di Oscar Mondini *

L’autore del seguente articolo ha conseguito laurea triennale in Scienze dell’Educazione presso l’Università degli Studi di Bergamo, con una tesi dal titolo “Papà, quando torna mio padre? – Crisi e possibilità della figura paterna”. Padre di due figlie, ha una lunga esperienza professionale nella scuola dell’infanzia.

Da circa vent’anni lavoro nella scuola, e, fino a qui, nulla di strano: la scuola non è certo sguarnita di figure maschili. Ma di questi vent’anni ne ho vissuti sedici nella scuola dell’infanzia, tre dei quali come maestro e tredici anni come direttore. Il maestro di scuola dell’infanzia è una specie rara, rarissima, quasi una specie protetta, sicuramente da sempre in via di estinzione ed è un vero peccato.

Per ciò che vivo nella mia esperienza quotidiana, posso dire di avere una chiara impressione di essere ben accettato dai bambini: si rapportano in modo molto spontaneo con me e quando entro nelle sezioni ve ne sono addirittura alcuni che vengono a “farmi le feste”. È un atteggiamento di benevolenza e di grande apertura che ho potuto toccare con mano anche nelle esperienze precedenti: ho sempre avuto questa sorta di disposizione d’animo da parte dei bambini.

Posso affermare che i maschi perdono una grande opportunità di conoscenza del mondo infantile dal punto di vista di una delle professioni più belle del mondo. Oltre a ciò perdono un’enorme possibilità di conoscenza di sé stessi, di alcune dinamiche della cura che travalicano gli stereotipi di genere.

Alla luce della grande apertura e simpatia dei bambini verso il maestro maschio, mi sento di aggiungere che ce ne sarebbe molto bisogno; forse l’attrattiva e la disponibilità nei suoi confronti sono proprio dovute alla sua assenza. Questi atteggiamenti dei bambini hanno anche la particolarità di un’investitura di fiducia e di autorevolezza da parte dei bambini nei confronti del maestro maschio pressoché totale. Se è vero che la figura del docente riveste un ruolo di autorità presso i bambini, per il maestro lo è ancora maggiormente: come si scriveva sopra, forse è dovuto al suo essere una mosca bianca che giustifica quell’atteggiamento di fiducia pressoché incondizionata e di conseguenza di grande rispetto; mi domando se questa espressione fiduciale e di affidamento nei confronti del maschio non sia una sorta di aspetto arcaico e, oserei dire, ontologico nelle dinamiche relazionali e di crescita dei bambini. La domanda è quindi duplice: non è che il padre è indispensabile per i bambini? Se questa domanda può essere ridotta a quesito retorico, la questione vera allora è: non è che i bambini hanno bisogno di un certo tipo di padre? Ovvero di una figura che sappia coniugare la cura e l’affetto con l’autorevolezza e la norma?

Ricordo un episodio in una classe seconda delle cosiddette elementari; stavo spiegando e un bambino esclamò “ma quante cose che sai, maestro” e un compagno gli ribatté “ma non sai che il maestro sa tutto?”. Questo simpaticissimo episodio mi ha fatto riflettere molto: ecco qui la grande fiducia dei bambini, un credito incondizionato e pressoché infinito, gratuito e che, in quanto tale, responsabilizza.

A volte giungo a pensare se questa attrattiva dei bambini verso il maestro non sia una specie di nostalgia o di bisogno ancestrale che alberga nell’animo dei bambini nei confronti di una figura che riveste il ruolo di guida sicura, generosa e affettuosa e al contempo ferma e forte.

Il mondo della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, dal punto di vista dei docenti, è un mondo quasi totalmente femminile, eppure sarebbe bello avere una pluralità educativa legata anche al genere affinché possano esprimersi le differenti sensibilità femminili e maschili verso la prima infanzia. Aggiungo che vi sarebbero ricadute interessanti anche sul team docente: vi sarebbero punti di vista educativi contaminati anche dalle sensibilità inevitabilmente legate ai generi e non solo dalle imprescindibili competenze didattiche e pedagogiche.

Le perplessità maggiori verso il maestro maschio sono da parte degli adulti, dei genitori che, apprensivi e investiti di un carico emotivo debordante, vedono la maestra come migliore risposta ai bisogni dei loro piccoli. La scuola dell’infanzia è pensata da moltissimi genitori ancora come una sorta di prolungamento, dilatato nei numeri, della cura della madre verso i figli: una specie di manus longa della madre se non della famiglia tout court. Non a caso la denominazione, fino a qualche anno fa, era “scuola materna” e la connotazione, anche dal punto di vista formale del nome, di scuola al femminile era molto chiara.

A volte ho vissuto la diffidenza se non la completa sfiducia da parte del mondo adulto: una volta una madre mi disse che io incutevo timore a suo figlio perché lui non era abituato alla figura maschile. Ma come, se un papà quel bimbo a casa ce l’aveva! Era un papà, un padre, un pelouche a disposizione del figlio, un allegro amico di giochi del bimbo? Un episodio del genere può facilmente mostrare cosa sia diventato il padre oggi, in quale organismo si sia trasformato.

Altre volte la diffidenza si è sciolta con la serenità dei bambini: loro hanno la forza di mostrare le evidenze significative nei rapporti. Questo anche rispetto all’autorevolezza: alcune mamme riportavano i giochi di finzione che i bambini facevano nel tempo extrascolastico: “io faccio il maestro Oscar che fa i disegni con le tempere”, “faccio il maestro Oscar che fa dormire i piccoli”. La cosa molto interessante, e non scontata, era sentire che l’immedesimazione era sia da parte dei bimbi maschi, sia delle femmine.

In tutte queste riflessioni non si deve assolutamente scordare la grande trasformazione della famiglia negli ultimi decenni: in generale, abbiamo genitori disorientati circa l’educazione dei figli, senza un centro di riferimento riguardo le basi da gettare per il futuro dei loro figli. Viviamo in un’epoca che rende molto difficoltosi i processi di esplicazione di senso poiché viviamo schiacciati sul presente, incapaci di pensare progetti a lungo termine, compressi da una sorta di pseudopsicologia da rotocalco pomeridiano dove i figli devono essere il centro di gravità attorno ai quali tutto il mondo deve ruotare: la misura del mondo è la loro contentezza del momento. Non c’è un oltre al quale far riferimento, un orizzonte di valori di cui dotare i figli già da piccoli affinché questi possano essere i futuri cittadini responsabili della casa comune.

In questo quadro dalla cornice già piuttosto malinconica si inserisce il padre del ventunesimo secolo: non più alternativo alla madre, ma ormai appiattito sui codici materni. E non si tratta della condivisione dei compiti di accudimento e di cura dei figli, bensì della sparizione del codice paterno, di quel campo semantico che fa del padre colui che introduce il figlio alla vita fuori dal comodo ambiente famigliare. Il padre replica, e pure male, il ruolo materno: non getta il figlio nella vita dotandolo degli strumenti necessari per poterne godere pienamente in modo sensato, ma viene gettato nella mischia, nello stadio della società performante, che non ammette sconfitte, fragilità o cadute. Le uniche cadute contemplate sono quelle altrui, quelle dei vari competitor che si presentano sulla scena.

Nei miei anni a scuola ho visto padri che incarnano pienamente lo spirito del tempo: assenza formale a scuola negli appuntamenti importanti e assenza sostanziale nella vita dei figli, con bambini tiranni già a tre anni. Padri incapaci di porre limiti allo strabordare dei figli, di essere di supporto a mamme in difficoltà a imporre una linea educativa ai figli; padri che vogliono figli vincenti a tutti i costi; ho conosciuto padri amiconi dei figli, moderni, che chiedono ai figli di quattro anni di decidere tutto in casa, da dove trascorrere le vacanze alla frequenza o meno alla scuola dell’infanzia. Capita non di rado che il padre intervenga quando la madre si trova in difficoltà di fronte a questioni educative poste dalla scuola: in questi casi, il papà morbido e evanescente indossa immediatamente i panni di avvocato o sindacalista del proprio piccolo di 5 anni e non teme di mostrare i muscoli verso la scuola, in una sorta di riedizione del maschio d’antan con punte di machismo. Ovviamente alla base di tutto ciò vi è un gande spaesamento educativo unito a una visione del bambino che negli ultimi anni ha riscosso sempre maggiori successi: il bambino come nuova umanità compiuta, pura e innocente, dove l’emozione del momento detta legge ed è quindi degna di obbediente ascolto pressoché assoluto da parte del mondo adulto. Anche in questo ambito, vi è certa pseudopedagogia da talk show che sostiene tali pratiche formative con vuoto educativo a perdere.

Per quanto riguarda la partecipazione attiva e fattiva, c’è un’ampia superiorità della presenza delle madri nei vari momenti scolastici: accompagnamento dei bambini a scuola e colloqui con le insegnanti sono in abbondante prevalenza appannaggio delle mamme, così come l’impegno nei ruoli di rappresentanza dei genitori. I padri vengono coinvolti più facilmente in iniziative di tipo pratico, come piccole manutenzioni o lavori dove la fatica fisica è più protagonista.

Vi è anche qualche padre che si dedica nel seguire il percorso dei figli a scuola e ovviamente si incontrano anche uomini che si impegnano a fondo per essere padri significativi per i loro figli e figlie. Persone che non temono lo scacco momentaneo del pianto del bimbo, ma che sanno intravedere un oltre nelle loro azioni educative, che vogliono dotare i loro figli di strumenti efficaci per la vita, che sanno guardare un poco più avanti, che leggono nelle pieghe della quotidianità il domani, che vedono oggi un possibile futuro buono e promettente, al di là delle dinamiche di questo tempo. Uomini fragili, che non temono di cadere, non temono il fallimento e la possibile sconfitta. Perché nelle relazioni può anche accadere questo.

Ricordo un padre che, nell’arco di dieci anni continuativi, ha portato tre figli alla mia scuola; mi diceva che sapeva di non essere sempre gradito ai suoi figli, perché era esigente verso di loro: in realtà chiedeva cose normalissime come l’impegno a scuola, l’impegno in casa nel disbrigo di alcune faccende domestiche. I bambini che avevo conosciuto da piccoli sono cresciuti e quel padre che, insieme alla madre, si era prodigato e speso per i figli, ringraziava Dio perché i questi ultimi stavano crescendo bene.

Che serva forse riconoscere davvero un ultra come Dio, per ben poter realizzare quell’oltre dell’azione educativa di padre? O, non volendo scomodare Dio, non pensiamo che, comunque, occorra avere un orizzonte ampio per dare un indirizzo di senso alla quotidiana pratica educativa paterna?

* Direttore della scuola dell’Infanzia di Chiuduno (Bergamo)