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Non con papà… Perchè?

di Gianluca Aresta *

È radicata la convinzione che, nella disciplina dei tempi di frequentazione fra genitore non collocatario e figli a seguito di una separazione personale, i figli non possano (o non debbano?) pernottare con il padre quale genitore non collocatario prima di una certa età, perché “troppo piccoli”. Una convinzione, questa, che per lungo tempo abbiamo visto affermata nelle parole degli avvocati e nelle sentenze dei giudici e che abbiamo spesso idealmente avversato, ma mai concretamente combattuto, accettandola passivamente, quasi fosse un sillogismo aristotelico: il bambino non ha ancora cinque anni, è troppo piccolo, per cui non può pernottare col padre!

Ma esiste un fondamento normativo a questa presunzione? È il caso di sgomberare immediatamente il campo da equivoci o falsi preconcetti: assolutamente no. L’art. 337 ter cod. civ. statuisce che: “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1955, ratificata e resa esecutiva in Italia con Legge n. 848 del 4 agosto 1955, dedica alla famiglia gli artt. 8 e 12, che rispettivamente sanciscono il diritto al rispetto della vita privata e familiare (oltre che del domicilio e della corrispondenza) e il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia.

L’art. 8 CEDU, rubricato “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”, dispone che: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

L’applicazione più ricorrente del principio a tutela del best interest del bambino da parte della Corte di Strasburgo è legata proprio all’art. 8 CEDU, in considerazione del rispetto del principio della vita familiare. La Corte Europea, infatti, ha dichiarato che: “la comunità nel suo complesso ha interesse a mantenere un sistema coerente di diritto di famiglia che ponga l’interesse del bambino in prima linea” (Corte Europea dei Diritti Umani, 22/4/1997, App. n. 21830/93). Tuttavia, l’approccio scientifico, giuridico, morale e sociale al tema è molto cambiato nel corso degli ultimi anni e la CEDU riflette questa evoluzione in due decisioni fondamentali: EB contro Francia e Shalk e Kopf contro Austria (Corte Europea dei Diritti Umani, 24/6/2010, App. n. 30141/04, Schalk and Kopf contro Austria). I giudici di Strasburgo hanno sottolineato che le “indubbie qualità personali e l’attitudine per l’educazione dei bambini” devono rientrare sicuramente nella valutazione del migliore interesse del bambino, “una nozione chiave nello strumento internazionale pertinente” (Corte Europea dei Diritti Umani, 22/1/2008, App. n. 43546/02, E. B. contro France, para. 95-96).

Proprio per tutelare l’interesse (superiore) del minore, la Corte afferma la necessità di valutare, nelle situazioni controverse specifiche, la situazione individuale di ogni soggetto coinvolto. È in questo contesto che si inserisce il criterio guida (di cui più volte abbiamo parlato anche nella nostra Rubrica) del “principio di superiore interesse del minore” che permea l’intero complesso del diritto minorile nei Paesi europei, formalizzato per la prima volta nell’art. 3 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Minore del 1989. Questo principio riconosce al minore diritti propri ed insieme costituisce una clausola generale predisposta al fine di consentire al Giudice la valutazione concreta delle peculiarità della situazione sottoposta al suo esame, affinché adotti la decisione che a suo giudizio realizzi appieno, appunto, il miglior interesse per la prole.

Uno dei punti più delicati della trattazione del concetto di best interest of the child ha riguardato la traduzione in lingua italiana della stessa espressione. La traduzione dell’art. 3 della Convenzione ONU relativo alla legge di ratifica parla di “protezione del miglior interesse del minore”, mentre, in altri casi, si preferisce utilizzare il termine “superiore”, ovvero “preminente”, piuttosto che il termine “prevalente”, sempre in riferimento alla tutela dell’interesse del fanciullo. Il punto fondamentale concerne la valenza che si desidera conferire al concetto nel bilanciamento con gli altri interessi in gioco, nel senso che, attraverso questo termine, il Giudice decide se l’interesse del fanciullo debba prevalere sempre o, diversamente, possa essere commisurato con altri valori di pari dignità costituzionale, almeno in via astratta.

In base al principio internazionale del best interest of the child, proclamato dalla Convenzione Internazionale di New York sui diritti dell’infanzia del 1989, il figlio minore è stato posto dal legislatore al centro di tutte le dinamiche familiari che lo riguardano. Sono, pertanto, i diritti del fanciullo, ed in particolare il preminente diritto alla bigenitorialità, che devono essere tutelati a livello nazionale ed internazionale in tutti i procedimenti che lo vedono partecipe. Il diritto alla bigenitorialità del minore si realizza, dunque, nel diritto del figlio di trascorrere con i genitori, anche dopo la rottura della loro relazione sentimentale, tutto il tempo necessario affinché lo stesso possa mantenere con entrambi un rapporto sano ed equilibrato, anche attraverso il pernottamento con il genitore “non collocatario” (ossia non convivente) al di fuori della casa familiare.

È proprio nei casi di affido condiviso in cui siano convolti bambini molto piccoli che è apparso particolarmente problematico definire, pur nell’ambito della affermazione del suddetto principio fondamentale, il diritto di visita e di frequentazione del padre, quale genitore non collocatario del minore, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di un pernottamento presso lo stesso, dato che (anche in modo del tutto ingiustificato) troppo spesso e per lungo tempo si è sottovalutata l’idoneità del padre a provvedere ai bisogni del figlio nei primi anni della sua vita.

Il diritto alla bigenitorialità del figlio minore comprende anche il diritto del minore a pernottare presso l’abitazione del padre quale genitore non collocatario. Tale assunto non è stato, tuttavia, unanimemente condiviso sia dalla giurisprudenza di merito, sia da quella di legittimità, che, nel tempo, ha oscillato tra un orientamento fermamente “negazionista”, radicatosi per lunghi periodi, uno “possibilista”, ma allo stesso tempo limitativo verso l’esercizio di tale diritto, ed un orientamento che non solo ammette, ma favorisce il pernottamento del figlio presso l’abitazione del padre genitore non collocatario.

È bene rimarcare che nel nostro ordinamento non esiste una prescrizione normativa che fissi l’età a partire dalla quale può consentirsi il pernotto del minore presso il padre, rimettendo al Giudice, alla luce delle circostanze del caso concreto, la valutazione (appunto) dell’interesse preminente del minore. L’eventuale incapacità del padre dovrà essere dimostrata in concreto, non potendo la stessa essere data per acquisita a priori, così come per lungo tempo sostenuto da parte di quell’orientamento della giurisprudenza che era arrivato a determinare una età minima (quattro o cinque anni) a far tempo dalla quale un figlio minore avrebbe potuto cominciare a pernottare con il padre genitore non collocatario. Pertanto, il diritto di frequentazione del figlio da parte del padre (nella più alta percentuale dei casi genitore non collocatario) sarebbe suscettibile di limitazione e restrizione solo e soltanto laddove giudicato non conforme all’interesse preminente del minore, non essendo, quindi, l’età del minore argomentazione di per sé sufficiente a limitare il diritto alla bigenitorialità.

Nessun limite di età potrebbe impedire al figlio minore di pernottare con il proprio genitore non collocatario (padre), pur se, come detto, per lungo tempo si è metabolizzata la convinzione che ciò non fosse assolutamente possibile, evidentemente per un granitico retaggio sociale e culturale che solo il tempo ha contribuito a scalfire, sicuramente assieme al profondo cambiamento dei ruoli genitoriali nel contesto sociale di riferimento. Negli ultimi anni la giurisprudenza maggioritaria ha assimilato dall’esperienza corrente l’esigenza di garantire al coniuge non collocatario, sia esso padre o madre, un adeguato diritto di visita e una effettiva frequentazione, nel senso che tale diritto non deve, né può consistere nel riconoscere un marginale e contenutissimo orario per l’incontro figlio-genitore, onde soddisfare solo un formale contatto od approccio, ma deve consistere nel garantire un’adeguata porzione di tempo utile in cui il minore ha tempo e modo sufficienti per “conoscere l’altro genitore”, nel senso di farne proprie, attraverso la viva esperienza quotidiana, le attitudini affettive e gli aspetti caratteriali. L’esigenza di conoscenza reciproca, invero, ha lo stesso peso ed importanza dell’esigenza di comunicare affetto al minore da parte del genitore, in quanto conoscenza ed affetto sono bagagli indispensabili per la serena crescita del minore. Anche le leggi internazionali, nel pieno rispetto del diritto del fanciullo, impongono “di mantenere relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori, salvo quando ciò sia contrario all’interesse superiore del fanciullo” (art. 9, par. 3, Legge 176/1991 di ratifica Convenzione diritti del fanciullo di New York 20/11/1989).

Per quanto innanzi detto, rimane, infatti, diritto fondamentale del minore avere un rapporto equilibrato, paritario e continuativo sia con la madre che con il padre, diritto che deve essere tutelato anche nei primi anni di vita, potendo, al contrario, rilevarsi pregiudizievole per il minore privare lo stesso di momenti di condivisione anche con il padre, come la possibilità di trascorrere la notte insieme sin dalla tenera età. Impedire al minore di pernottare con il genitore non collocatario significherebbe privarlo delle più elementari consuetudini quali, ad esempio, cenare, riposare nella casa paterna, condividere i momenti legati al calar della sera, addormentarsi o svegliarsi con il proprio genitore.

Già nell’ormai lontano ottobre del 2013, la Corte d’Appello di Catania (con la pronuncia del 17/10/2013), con visione lungimirante, affermava che “deve potersi consentire ai figli di trascorrere con il padre dei tempi adeguati e segnatamente dei fine settimana interi, e tempi infrasettimanali, garantendo una certa continuità di vita in questi periodi, nei limiti in cui ciò non interferisca con una normale organizzazione di vita domestica e consenta la conservazione dell’habitat principale dei minori presso il genitore domiciliatario. Vi è invero una sensibile differenza tra regolare i tempi di permanenza e limitarli significativamente: e per adottare limitazioni al diritto e dovere dei genitori di intrattenere con i figli un rapporto continuativo, è necessario dimostrare che da ciò può derivare pregiudizio al minore. Il preminente interesse del minore, infatti, cui deve essere conformato il provvedimento del giudice, può considerarsi composto essenzialmente da due elementi: mantenere i legami con la famiglia, a meno che non sia dimostrato che tali legami siano particolarmente inadatti, e potersi sviluppare in un ambiente sano (CEDU: Neulinger/Svizzera, 6/7/2010; CEDU: Sneersone e Kampanella/Italia, 12/7/2011). È indimostrato che la bambina più piccola, che ha compiuto due anni … riceva un pregiudizio, in concreto, dal pernottare ogni tanto presso il padre, mentre viceversa, non condividere mai le abitudini della vita quotidiana rende la relazione tra due persone diversa da quella familiare, che, sul piano materiale, è appunto connotata dal vivere insieme dei momenti (mangiare, dormire) che non si condividono con estranei. Resta ferma la considerazione che l’affidamento condiviso implica la conservazione dell’esercizio pieno delle responsabilità genitoriali, il che significa non solo esercitare dei poteri (quale quello ad esempio di stabilire il luogo di residenza abituale del minore), ma anche adempiere dei doveri e, tra questi, quello di interpretare responsabilmente eventuali segnali di disagio dei figli e, quindi, per esempio, ricondurli dalla madre se durante i week end presso il padre non riescono ad addormentarsi senza la presenza della mamma, o viceversa, chiamare il padre se durante i periodi di permanenza presso la madre i bambini manifestano il desiderio di vederlo”.

Sull’argomento, si sono, poi, susseguite diverse pronunce della giurisprudenza, sia di merito, sia di legittimità, che, sicuramente recependo le esigenze di cambiamento del tessuto e del vivere sociale nei rapporti familiari, hanno valorizzato il principio della bigenitorialità, mettendo in seria discussione la possibilità di limitare il diritto di visita e di frequentazione del padre unicamente in relazione all’età del figlio minore.

La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 9764 del 8/4/2019, ha sottolineato, in un passaggio particolarmente significativo, che “nell’interesse superiore del minore, va assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione. La lettura riservata dalla giurisprudenza di legittimità al superiore interesse della prole, atteso il preminente diritto del minore ad una crescita sana ed equilibrata, si è spinta a ritenere giustificata l’adozione, in un contesto di affidamento, di provvedimenti contenitivi o restrittivi di diritti individuali di libertà dei genitori, nell’apprezzato loro carattere recessivo rispetto all’interesse preminente del minore. L’orientamento è confortato nelle sue affermazioni di principio dalla giurisprudenza di fonte convenzionale là dove la Corte EDU, chiamata a pronunciare sul rispetto della vita familiare di cui all’art. 8 della CEDU, pur riconoscendo all’Autorità Giudiziaria ampia libertà in materia di diritto di affidamento, evidenzia la necessità di un più rigoroso controllo sulle “restrizioni supplementari”, tali intendendo quelle apportate dalle Autorità al diritto di visita dei genitori, e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare”. Nell’ordinanza in esame viene opportunamente sottolineato che “Le restrizioni supplementari comportano, invero, il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età e uno dei genitori o entrambi, pregiudicando il preminente interesse del minore (Corte EDU, 9/2/2017, Solarino/Italia)”.

La Corte di Strasburgo, del resto, ha sempre richiamato le autorità nazionali – nella materia in questione – ad adottare tutte quelle misure che ragionevolmente sarebbe stato possibile attendersi da esse autorità nazionali per mantenere e salvaguardare i legami tra il genitore e i suoi figli (Corte EDU, 17/11/2015, Bondavalli/Italia; Corte EDU, 23/2/2017, D’Alconzo/Italia), nella premessa che “per un genitore e suo figlio, stare insieme costituisce un elemento fondamentale della vita familiare (Kutzner/Germania, n. 46544/1999) e che delle misure interne che lo impediscano costituiscono una ingerenza nel diritto protetto dall’art. 8 della Convenzione” (K. e T./Finlandia (GC), n. 25702/1994). Ed è recente (Cass. Civ., Sez. I, n. 16125 del 28/7/2020) la conferma, da parte della Suprema Corte, della affermazione del principio della bigenitorialità nei termini suddescritti, laddove i Giudici di legittimità hanno ribadito come il diritto alla bigenitorialità debba essere inteso “quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive …, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione e istruzione della prole”; anche nel caso di specie, la Corte non ha ravvisato per il minore – un bambino di due anni – alcun pregiudizio specifico potenzialmente correlabile all’eventualità dei pernottamenti, per una volta a settimana, presso la abitazione del padre genitore non collocatario, ritenendoli, anzi, “importanti per la sana e serena crescita affettivo-relazionale del piccolo e per preservare il suo rapporto con il padre”.

Secondo l’ultima giurisprudenza di legittimità appare di intuitiva evidenza come il giudizio circa la valutazione dell’interesse del minore nelle fattispecie di cui trattasi, ove si consideri anche la rilevanza del principio del contraddittorio e la delicatezza della materia, non possa non conseguire all’esito di un giudizio di cognizione piena (Cass. Civ., Sez. I, del 22/12/2016, n. 26767) e non quale portato di una asettica e astratta valutazione, a volte ispirata da inaccettabili preconcetti, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di uno sviluppo armonico del minore dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale. A questo proposito, la giurisprudenza ha sostenuto che l’interesse superiore del minore, cui occorre avere riguardo nel disporre l’affidamento dello stesso ai genitori in maniera condivisa o in via esclusiva, deve intendersi di portata non limitata al desiderio, intuibile o comprensibile, del medesimo di mantenere la bigenitorialità, bensì in funzione del soddisfacimento delle sue oggettive, fondamentali ed imprescindibili esigenze di cura, mantenimento, educazione, istruzione ed assistenza morale, nonché della sua sana ed equilibrata crescita psicologica, morale e materiale.

La giurisprudenza di merito ha rafforzato questo orientamento, secondo cui se sussiste un conflitto genitoriale in ordine al prevalente collocamento dei figli, il criterio “guida” deve essere sempre il superiore interesse del minore, non potendo trovare applicazione quello da alcuni definito come “principio della maternal preference” (nella letteratura di settore, Maternal Preference in Child Custody Decisions), poiché criterio interpretativo non previsto dagli artt. 337 ter e segg. cod. civ. e, invero, in contrasto con la stessa ratio ispiratrice della normativa di riferimento, seppur anch’esso per lungo tempo affermatosi quale principio consolidato nelle pronunce dei giudici di merito e di legittimità.

Vi è anche da aggiungere che il principio di piena bigenitorialità e quello di parità genitoriale hanno contribuito all’abbandono proprio del criterio della maternal preference a mezzo di gender neutral child custody laws, ossia normative incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo, dunque, essere sia il padre, sia la madre, in base al solo preminente interesse del minore, il genitore di prevalente collocamento, non potendo (e non dovendo) essere il solo genere a determinare una preferenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale; principi, questi, che, in realtà, ritroviamo nelle produzioni normative da ultimo promulgate in Italia (possiamo ricordare, in particolare, la L. n. 54/2006, la L. n. 219/2012 e il D. Lgs. n. 154/2013).

Nella valutazione della questione relativa al pernottamento del figlio minore presso l’abitazione del genitore non collocatario, uno dei principali elementi che il Giudice deve considerare è il rapporto tra la condizione di fragilità legata all’età del minore e il diritto del figlio stesso di pernottare con il genitore presso l’abitazione di quest’ultimo, facendosi sempre guidare da quel best interest of the child, che, in questo caso, si concretizza nell’interesse del figlio a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori sin dai primi anni di vita.

Tra le pronunce di merito che consentono o incentivano il pernottamento dei figli minori (anche in tenera età) presso il padre assume particolare rilievo la sentenza del Tribunale di Roma dell’11/3/2016, con la quale il Giudice – anche con l’ausilio di una consulenza tecnica d’ufficio che ha ammesso la possibilità, nell’interesse della minore e per favorire il rapporto con il padre, di pernotti della stessa presso la residenza paterna – riconosceva il diritto del padre genitore non collocatario di pernottare con la propria figlia di appena sedici mesi. Il Tribunale, dimostrando particolare sensibilità, ravvisava espressamente, nella possibilità di pernottare con il padre, un elemento posto dalla legge a tutela e a favore della minore, sottolineando che assicurare un rapporto “anche” con la figura paterna, che andasse oltre la semplice “visita giornaliera”, avrebbe determinato nel figlio, anche a livello inconscio, un legame radicale con entrambi i genitori, indipendentemente dall’interruzione del loro legame sentimentale.

In aperta antitesi con l’orientamento più attuale, teso alla realizzazione di una piena ed effettiva bigenitorialità, si era posta, sull’onda di un orientamento allora quasi consolidato, la pronuncia della Sezione I della Suprema Corte di Cassazione n. 19594 del 26/11/2011, che, nell’affrontare il rapporto tra diritto al pernottamento ed età del minore, aveva ritenuto possibile, nell’ambito dell’esercizio del potere estremamente discrezionale del Giudice in subiecta materia, il pernotto presso l’abitazione paterna solo dopo il compimento del quarto anno di vita del figlio. In quella occasione, i Giudici di legittimità avevano sottolineato come l’attuazione del principio di cui all’art. 155 cod. civ., per cui il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori, fosse rimessa al Giudice che deve adottare, per realizzare detta finalità, “i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”, determinando, esclusivamente in relazione a tale interesse, “i tempi e le modalità della sua presenza presso ciascun genitore”. In base a tale principio, i Giudici della Suprema Corte avevano ritenuto che la Corte d’Appello non avesse affatto violato le norme di riferimento nel determinare e limitare – sino al compimento del quarto anno di età – il pernottamento del minore presso il padre nei termini ritenuti più conformi al suo interesse in relazione all’età, non risultando affatto compromessa, a dire dei Giudici di legittimità, da tale limitazione alle disposizioni dettate dal Tribunale la realizzazione di un rapporto equilibrato anche con il padre, nei primissimi anni di vita del bambino!

È di oggettiva evidenza che la “soluzione” della questione in esame è rimessa, caso per caso, alla discrezionalità del Giudice, il quale, di regola, riconoscerà al figlio minore il diritto a pernottare presso l’abitazione del genitore non collocatario (padre) solo ove sia dimostrato che il mutamento del luogo di pernottamento non alteri la serenità del minore e le sue abitudini e ritmi di vita acquisiti sino a quell’età. In tal senso, il divieto di pernottamento del minore con il padre sarebbe, in ipotesi, giustificato (o giustificabile) solo per un neonato o per un bimbo non ancora svezzato, che per esigenze primarie (quali, ad esempio, l’allattamento) ha necessità di rimanere con la madre. Per il resto, tale limitazione non può (e non deve) basarsi sul preconcetto secondo cui solo le mamme sarebbero in grado di comprendere le necessità e i bisogni dei propri figli “piccoli”, mentre i padri sarebbero incapaci di espletare l’accudimento di un bambino in tenera età. E nei casi in cui il bimbo non è allattato con latte materno? Perché un padre non potrebbe dare un biberon e avere un suo ruolo specifico nella buona riuscita dell’allattamento?

Del resto, non bisognerebbe trascurare, nella costruzione del processo decisionale in ordine alla frequentazione del genitore non collocatario con il proprio figlio minore, tutti gli altri gesti che fanno parte dell’accudimento di un bambino piccolo e che al padre non dovrebbero essere affatto preclusi. Ben venga l’impegno, in prima persona, di un padre quando si tratta di cullare, cantare, cambiare pannolini sporchi, lavare sederini, fare il bagnetto, portare il piccolo a fare delle belle passeggiate all’aria aperta nel passeggino! Prendersi cura di un bebè non significa solo nutrirlo! Il bambino ha bisogno di contatto, di sentirsi protetto, di sguardi e di voce, e le braccia forti del papà (al pari di quelle di una madre) sono perfette per soddisfare queste esigenze. Il papà (al pari di una madre) può tranquillizzare un bimbo inquieto, farlo ridere, raccontargli storie e intonare canzoni buffe e un giorno, quando il piccolo sarà cresciuto un po’, potrà incoraggiarlo a muovere i primi passi alla scoperta del mondo. Ogni padre (al pari di una madre) può coltivare il suo specialissimo rapporto con il proprio bambino e questo legame sarà un dono prezioso per entrambi e non dovrebbe essere un Giudice a privare entrambi di emozioni non più ripetibili, solo sulla scorta di un immotivato preconcetto: un padre non è capace di occuparsi di un figlio in tenera età. Per fortuna qualcosa sta cambiando!

Nel lungo e articolato percorso di evoluzione (anche sociale) del fondamentale principio di bigenitorialità e delle sue concrete applicazioni, mi piace ricordare la affermazione contenuta nella parte motiva del decreto reso dalla IX Sezione del Tribunale di Milano in data 14/1/2015 (Presidente: Dott. Dell’Arciprete; Giudice Rel.: Dott. Buffone). È trascorso qualche anno dal 2015, ma le parole del Dott. Buffone, Giudice Relatore nella fattispecie sottoposta alla attenzione del Tribunale, sembrano tanto illuminanti ed emblematiche, quanto incisive e graffianti su quel sentiero che hanno sicuramente contribuito a tracciare: “… giova ricordare come la genitorialità si apprende facendo i genitori e, dunque, solo esercitando il ruolo genitoriale una figura matura e affina le proprie competenze genitoriali; il fatto che, al cospetto di una bimba di due anni, un padre non sarebbe in grado di occuparsene è una conclusione fondata su un pregiudizio che confina alla diversità (e alla mancanza di uguaglianza) il rapporto che sussiste fra i genitori”. Tale provvedimento disciplinava il diritto di visita e di frequentazione dei figli in maniera esemplare, poiché prevedeva l’affidamento della piccola (di appena due anni) ad entrambi i genitori, la sua permanenza con il padre almeno un giorno infrasettimanale e il pernottamento con quest’ultimo a week end alterni, oltre che naturalmente un’equa alternanza dei periodi di feste natalizie e pasquali e delle vacanze estive.

Nel nostro ordinamento esiste, allora, un’unica bussola che deve orientare il Giudice che si approccia ad una separazione di due genitori che confliggono anche rispetto ai tempi di gestione e di frequentazione dei figli, non solo in tenera età, ed è, come richiamato nel nostro incipit, il dettato normativo di cui all’art. 337 ter cod. civ. Il Giudice, dopo aver verificato seriamente l’insussistenza di ragioni di pregiudizio per i figli ed aver elaborato una calendarizzazione improntata alla reale alternanza genitoriale, dovrà anche assicurarsi che, nel concreto, né il figlio, né il genitore subiscano una violazione del diritto all’effettiva reciproca frequentazione.

I principi desunti dalle sentenze della giurisprudenza europea della Corte di Strasburgo e della giurisprudenza nazionale, di legittimità e di merito, affermano l’incontestabile dovere di ciascuno Stato dell’Unione di adottare – in presenza di conflitti fra i genitori – ogni misura più opportuna idonea a riunire genitore e figli non più conviventi, essendo necessario che lo Stato adotti, in concreto, tutte le misure propedeutiche al conseguimento dello scopo.

L’orientamento dei Giudici di legittimità sembra aver oggi gradatamente sposato una interpretazione più “moderna”, più “ampia”, meno “ingessata” da rigidi e immotivati retaggi sociali del passato (e, sicuramente, più “corretta”) del principio di bigenitorialità e, quindi, della problematica relativa al pernottamento del figlio minore presso il padre genitore non collocatario. Certo, non può sottacersi che, in tale contesto, la cooperazione responsabile di tutti i soggetti interessati costituisce un prodromico fattore imprescindibile e decisivo, in assenza del quale il diritto del minore, ancora una volta, non potrà trovare alcuna affermazione e resterà, come spesso accade, il triste egoistico trofeo del genitore in quella dolorosa contesa chiamata separazione.

* Avvocato. ISP Bari