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Padre-figlia: un rapporto “unico”

di Maurizio Quilici *

Ne abbiamo parlato tante volte, tanti nostri soci lo hanno vissuto come padre o come figlia, eppure – quasi che fosse scontato o intoccabile – poco ne abbiamo scritto. Mi riferisco a quel particolare rapporto che lega un padre e una figlia: relazione unica e particolare (come è sempre “unico” e particolare il legame tra un genitore e il figlio di sesso opposto; così pure, ma in termini diversi, il legame madre-figlio).

Non è facile analizzare gli elementi che compongono questo misterioso intreccio di sentimenti, emozioni, sensazioni. Protezione da parte del padre, tenerezza, talora gelosia. In una successione di sfumature e gradazioni che possono andare dall’estremo della ritrosia, della timidezza scontrosa e dell’imbarazzo fisico fino alla pesante e inaccettabile dichiarazione di possesso. Non manca, lo sappiamo, una sfumatura di sessualità – d’altro canto diversi sono i generi dell’uno e dell’altra – che, opportunamente contenuta e sublimata, svolge anch’essa la sua funzione contribuendo a modellare la futura donna.

Shere Hite, nel famoso Rapporto sulla famiglia che tanto scalpore suscitò negli anni ’90 del secolo scorso, scriveva che “nei rapporti padre-figlia sono comuni la distanza, la rabbia, la delusione, l’incomprensione e l’ostilità”. Questa pessimistica visione era dovuta in buona parte, per Hite, al fantasma della sessualità che “rende quasi impossibile un rapporto spontaneo”. Essa poteva forse trovare riscontro nel campione di padri americani che la controversa studiosa di fatti sociali esaminò tra gli anni ’70 e ’80 (il 50% dei questionari inviati giunse dagli Stati Uniti; quelli ricevuti dall’Italia furono il 21%).

La psicoanalisi ha fatto buona luce sulla rilevanza di questo rapporto nei primi anni di vita e in quelli nei quali Freud individuò l’esistenza del complesso edipico (pur senza darne mai un’esposizione sistematica) vedendo in esso “l’elemento essenziale nel contenuto delle nevrosi” (Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905. Nota aggiunta nel 1920). Ma non è questa la sede per ricordare il lungo percorso che il “complesso” ha seguito da quando, nel 1910, comparve per la prima volta negli scritti di Freud e gli “aggiustamenti”, le precisazioni, contestazioni e contestualizzazioni (Freud sostenne l’universalità dell’Edipo) ai quali è stato sottoposto da parte degli stessi psicoanalisti – basti pensare a Lacan – e di molti antropologi, da Malinowski a Lévi-Strauss.

Il padre della psicoanalisi pose l’accento soprattutto sul versante del figlio maschio, ripercorrendo il mito di Laio, Edipo e Giocasta, ma ritenne che esso operasse esattamente nello stesso modo per la femmina. Come è noto, Jung coniò l’espressione “complesso di Elettra” per indicare il versante femminile del complesso edipico. Per la bambina l’attaccamento al padre interviene provvidenziale a interrompere il legame simbiotico pre-edipico con la madre (distacco più difficoltoso rispetto al maschio, per il quale l’oggetto di amore rimane identico) e a permetterle di acquisire una propria identità. Identità non solo personale e sociale, ma anche – come accennavo – sessuale. Il padre è infatti il primo modello maschile con il quale la figlia si relaziona. Da lui riceve le prime tenere conferme del suo essere donna, della sua femminilità e desiderabilità. Sono conferme importanti, che non debbono mancare.

Alcuni padri nella preadolescenza e adolescenza della figlia rifiutano il contatto fisico e assumono atteggiamenti di distacco. Lo fanno per un istintivo pudore, per timore inconscio della sessualità che sta sbocciando nella ragazza, per l’eterno e ferreo divieto dell’incesto. Tuttavia un atteggiamento freddo, o addirittura di rifiuto, non faciliterà il rapporto della figlia con le persone dell’altro sesso. Nel 1921, in Sogno e telepatia, Freud parlò di “un intenso legame emotivo fra padre e figlia, un legame emotivo tanto comune e tanto naturale che bisognerebbe smetterla di vergognarsene”. Come osserverà più di 40 anni dopo Erik Erikson, la figlia ha bisogno del tocco, della voce, della tenerezza e della forza del padre per sviluppare la fiducia di base e la sicurezza in un uomo e in se stessa in rapporto a un uomo. In età puberale la madre sarà il suo modello di donna (accettato o, più spesso, contestato), il padre sarà il modello che lei cercherà negli altri uomini. Naturalmente il rapporto padre-figlia assume connotati diversi nel corso del tempo: alla fusione con la madre del neonato segue la fase edipica di innamoramento, poi quella puberale e adolescenziale dello scontro di generazione (oggi praticamente scomparsa, annegata nell’acquiescenza materna e soprattutto paterna), quella adulta di bilancio e revisione continua del rapporto, infine quella della senilità paterna, spesso caratterizzata da un’inversione dei ruoli di assistenza e accudimento.

E’ ormai noto e acclarato da un’ampia letteratura scientifica che una padre assente o, peggio ancora, negativo può avere effetti gravi sui figli (anche se mai con un meccanico rapporto causa-effetto): insufficienza del giudizio morale (e quindi rischio di comportamenti asociali o criminosi. Un tempo più accentuato per i maschi, oggi questo rischio si è esteso anche alle ragazze, come dimostrano i frequenti episodi di bullismo femminile); scarso rendimento scolastico (più spiccato per i figli maschi, stando ad alcune ricerche); maggiore aggressività; disturbi psicopatologici – dalla schizofrenia alla depressione, alla tendenza al suicidio – e psicosomatici (dall’ulcera duodenale alla psoriasi); alcolismo; tossicodipendenze; minori livelli di autostima e superiori di ansia. Tutte queste manifestazioni possono essere attenuate o risolte da una madre equilibrata, comprensiva, autorevole, che sappia ovviare alla deprivazione paterna o, al contrario, accentuate da una madre algida e scostante (ma anche da una madre iperprotettiva). Una specifica conseguenza per le ragazze, come accennavo prima, può essere la difficoltà ad agire in modo appropriato con l’altro sesso. Una testimonianza letteraria fra tante è quella della scrittrice Karen Blixen, il cui amatissimo padre si uccise quando lei aveva dieci anni. La scrittrice ebbe sempre rapporti difficili con gli uomini, nei quali fu fortemente possessiva, ossessionata dal timore di essere abbandonata; una difficoltà della quale era perfettamente consapevole e che traspare nei suoi libri. (Sul rapporto padre-figlia in letteratura si veda il saggio di Serena Sapegno, Figlie del padre, recensito in ISP notizie n. 2/2019).

Molti autori indicano fra le conseguenze di una deprivazione paterna per le ragazze una precocità sessuale e un atteggiamento sfrontato verso gli uomini che nasconderebbe una insicurezza e una paura di fondo. Nel 2009 nove ricercatori americani hanno confermato l’esito di ricerche più antiche: l’assenza del padre fa sì che il primo rapporto sessuale sia precoce. In tempi passati alcuni autori hanno trovato un nesso fra assenza del padre e frigidità femminile (Muldworf, Lynn, Fisher…). Altri ancora ritengono che la mancanza di un padre possa facilitare l’omosessualità nella ragazza; ne è convinto, per esempio, Henry Biller: “Una figura paterna inadeguata e incapace” – scrive – “costituisce uno dei fattori principali nello sviluppo dell’omosessualità femminile”.

Oggi i ruoli maschile e femminile sono molto meno stereotipati anche solo rispetto a 50 anni fa. E dunque anche l’atteggiamento di un padre verso una figlia o un figlio conosce meno diversità educative e di comportamento. Tuttavia le differenze spesso permangono, magari a livello inconscio. In molte famiglie, anche se meno di un tempo, padre e madre assegnano ruoli precisi al bambino e alla bambina. Cose “da maschio” (aggiustare un oggetto, fare uno sport violento…) e cose “da femmina” (non più cucire, ma sparecchiare, pulire casa, cucinare…). Attribuiscono anche atteggiamenti emozionali e comportamentali diversi ai due sessi, pretendendo dolcezza e remissività per lei e assertività, energia, volitività per lui, perpetuando così una divisione e una schematizzazione che non ha quasi mai giustificazioni fisiologiche e psicologiche ma sociali e culturali. In molte manifestazioni deprecabili dei giovani maschi si possono intravedere i germi di una educazione “sessista” da parte dei genitori (con una buona parte di responsabilità materna).

Da Anna Freud a Tatiana e Aleksandra Tolstoj, la storia è ricca di esempi di figlie predilette che hanno dedicato la propria vita a organizzare i successi paterni (si potrebbe ben parafrasare un detto diffuso affermando che “dietro un grande uomo c’è sempre una grande figlia”) o a conservarne o perpetuarne le opere. O anche che hanno vissuto all’ombra del proprio padre, in trepida e innamorata ammirazione (spesso mal ripagate, come Virginia Galilei e Matilde Manzoni). Nel gennaio scorso Francesco Merlo, pubblicando su la Repubblica un articolo dal titolo Quelle figlie guardiane dallo sguardo un po’ miope ha suscitato un dibattito nel quale sono intervenute – con una lettera allo stesso quotidiano – Marina Berlusconi, figlia dell’ex premier Silvio, e Benedetta Craveri, nipote del filosofo Benedetto Croce. Non è il caso di spiegare estesamente il contenuto dell’articolo e le reazioni delle due donne. Dirò brevemente che Merlo le citava (assieme a Stefania Craxi, Giuseppina Crispi, Maria Romana De Gasperi, Laura Sciascia, Jeanne Modigliani) come esempio di figlie “custodi in vita” dei padri e, dopo la morte di questi, “guardiane della memoria”.

L’articolo di Merlo terminava con una nota critica: “le occhiute e cocciute figlie-guardiane” – scriveva l’autore – “rischiano infatti di impedire o solo di rallentare la verità storica su uomini che appartengono all’Italia e non a loro. Anche perché guardandoli troppo da vicino le figlie vedono male i padri per i quali stravedono”. Non importa sapere se concordo con Merlo o se lo giudico impietoso. Dico solo che le figlie difendono i padri (anche la figlia di Totò Riina lo fece, affermando pubblicamente che con lei il mafioso era stato un buon padre) ma possono essere anche delle terribili accusatrici, come Jane Chaplin, sesta degli otto figli che il grande attore-regista ebbe con Oona O’Neill e autrice del libro 17 minuti con mio padre: la durata dell’unica conversazione a tu per tu con suo padre che Jane riesce a ricordare. O come Sylvia Plath, la poetessa americana autrice della poesia Daddy, Papà, terribile atto di accusa denso di odio, di sensi di colpa, e di dolore nei confronti del padre. E gli esempi potrebbero continare.

Ci si potrebbe anche chiedere se la stessa tutela femminile della memoria paterna sia esercitata dai maschi nei confronti della madre. Mi viene in mente un solo esempio, quello del figlio di Maria Montessori, Mario, che pur essendo stato “nascosto” dalla madre fino alla adolescenza, ne divenne poi il più assiduo, ammirato collaboratore. Probabilmente potrei trovarne altri, ma, chissà perché, penso che sia più facile avere esempi del primo tipo. Forse anche questo è effetto di stereotipo: le donne più portate a compiti di cura, tutela, accudimento… O forse è solo perché si tratta di una relazione “unica e particolare”.

* Presidente dell’I.S.P.