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Recensioni 2/2021

[1]Harold Cobert,

Un inverno con Baudelaire
Elliott, Roma 2011,
pp. 247, € 16,00

 

Ecco un “ripescaggio”, di quelli che di tanto in tanto la nostra Rubrica compie, nella convinzione di fare un buon servizio ai soci e ai lettori indicando anche testi di pubblicazione non recente ma significativi per i temi che ci riguardano.

Questo romanzo è la storia emblematica di un divorzio. Storia di un padre, Philippe, che, oltre a perdere da un giorno all’altro il lavoro, perde anche sua moglie, Sandrine. Philippe e Sandrine hanno una figlia, Claire, e come avviene spesso in questi casi è su di lei che si concentrano le sofferenze e i problemi di Philippe, costretto a lasciare l’abitazione e a cercare un appartamento passando per camere di albergo: improbabili soluzioni a una vita che di colpo rischia di perdere ogni attrattiva.

Le notti passate a dormire in auto, la ricerca di un nuovo lavoro, le telefonate alla figlia (alla quale ha promesso di chiamarla ogni sera) regolarmente ostacolate da una moglie rancorosa e conflittuale, messaggi troppo spesso abbandonati ad una segreteria telefonica…

E’ uno scivolare verso il fondo, progressivo e costante: la lavanderia automatica, il centro di accoglienza e aiuto ai senzatetto, con il refettorio e i letti a castello numerati, le docce della stazione… fino a un vero e proprio barbonismo: bottiglie di pessimo vino, sonni grevi su una panchina o vicino a un condotto di areazione della metropolitana (un cartone come materasso), l’accattonaggio, una rissa con altri disperati di strada… E la figlia, l’amata Claire, sempre più difficile da raggiungere perché Sandrine ha tagliato tutti i ponti e quando da una cabina pubblica Philippe cerca di fare gli auguri alla figlia nel giorno del suo compleanno scopre che la ex moglie ha cambiato casa (senza comunicare il nuovo indirizzo) e che il nuovo numero di telefono è riservato.

Eppure anche in questo scenario di solitudine, abbandono e degrado, compare un barlume di speranza, uno spunto di fiducia. Non è un parente, non è un amico, non è una donna, è… un cane. Un randagio come lui che pian piano lo “adotta” e lo segue come un’ombra e che si chiamerà Baudelaire per via di una poesia del poeta, I buoni cani. Fra i due si stabilisce un rapporto di amore, di fiducia reciproca e di vicendevole aiuto. Grazie a questo incontro comincia la lenta risalita di Philippe. Il passaggio ad un ricovero più umano e meglio organizzato (il barcone Fleuron) il sostegno di un’assistente sociale e di un avvocato, entrambi volontari, che lo aiutano ad ottenere un sussidio di disoccupazione e soprattutto a intraprendere un percorso giudiziario per riaffermare i suoi diritti di padre, primo fra tutti quello di un diritto di visita per la piccola Claire.

Philippe ritrova Claire (“La mamma diceva che ci avevi abbandonate…”), che naturalmente diviene grande amica di Baudelaire. E riemerge lentamente ad una vita “normale”: un appartamentino (grazie a una ricca vedova comprensiva), finalmente un lavoro, una ragazza incontrata in un parco…

Baudelaire non vedrà tutto questo, portato via da un tumore in una calda giornata di giugno, dopo aver ridato al suo padrone la fiducia nella vita.

Una bella storia, che mescola la fantasia di certi personaggi alla realtà (per dire, il Fleuron Saint-Jean esiste davvero). Quanto alla spirale di abbrutimento attraversata da Philippe, assomiglia a quella di molti padri separati nostrani, che, almeno in una prima fase, trovano nella propria auto un ricovero per la notte e nella mensa della Caritas un pasto caldo.

 

[2]


Jan Balaban,

Chiedi a papà,
Miraggi Editore, Torino 2018,
pp. 188, € 17,00
(Traduzione di Alessandro De Vito)
 

Ultimo libro dello scrittore ceco, morto prematuramente nel 2010, all’età di 49 anni, Chiedi a papà è la storia di un post mortem ambiguo e doloroso. C’è un padre che muore. E’ stato un medico, un uomo religioso e all’apparenza buono, stimato nell’ambiente cristiano evangelico di cui fa parte ma… qualcosa, durante la degenza e dopo la sua morte, arriva a turbare la vedova e i tre figli del Dottor Nedoma (che in ceco suona come “senza casa”). Sono lettere, lettere di grande violenza che citano le Scritture, invocano una punizione divina per il morto, una condanna di cui la malattia è solo una parte, a cui deve seguire una condanna in eterno “per espiare forse il sangue sulle sue mani”. Non sono anonime, le scrive il signor Petr Wolf, un ex insegnante di lingue (ha perso il lavoro per la sua intransigenza morale che lo ha messo in urto con il regime comunista del Paese) che fu grande amico del medico e le cui figlie giocavano con i figli di Nedoma quando erano ragazzine. Ma quali sono le accuse rivolte con tanta violenza dal suo ex amico? Non ci sono fatti circostanziati, imputazioni precise. Si parla genericamente di “mano sporca di sangue”, “scandalo”, “opera di distruzione”, si disegna il ritratto di un carrierista che si è macchiato di corruzione, forse addirittura di assassinio, di certo complice del regime. Saranno verità o calunnia? Sarà il delirio di qualcuno a cui le traversie della vita hanno minato la ragione o ci sarà qualcosa di vero? Solo lui, il padre morto, potrebbe dire come stanno le cose. “Chiedi a papà” diventa perciò un doloroso, inutile, paradossale arrovellamento che turba i figli, ovviamente senza risposta.

Su una trama esile (il signor Wolf e le sue lettere restano sullo sfondo) Balaban costruisce una serie di “quadri”, o “scene” – così potremmo definirli – dalle tinte ora forti ora tenui. Una ragazza dal sorriso splendente, “quasi bambina ancora”, che si droga sotto un alto pioppo nero; Kateřina, la figlia del medico, nella Valle della Černá Ostravice, dove lui la portava da bambina; un altro figlio, Hans, che si sente “perso nella vita” ed è rapito dal ricordo della testa di un bambino sul cuscino, nella notte (“Avere un bambino, stare con lui, avere paura per lui”). E poi lo scontro di Hans con il figlio adolescente, “il suo amato figlio”, che ora gli mente, gli urla contro.

Qua e là, echi di un cupo regime comunista, “dove ‘il partito’ fruga nelle vite private e detta legge”, dove il 1° maggio è una kermesse fasulla, dove nelle scuole medie è obbligatorio imparare il russo, “per amore dell’Unione sovietica”. E dove un professore dissidente viene cacciato dall’Università e trasferito a pulire i gabinetti. E quando divorzia, incontra una giudice crudele che gli vieta assolutamente di incontrare la figlia.

Attorno alla morte del padre e alle misteriose lettere, un intreccio di monologhi interiori, di riflessioni, di domande sul senso della vita e su quello della morte.

 

 

[3]Bruno De Filippis,
Gian Ettore Gassani,
Cesare Rimini,
Mini enciclopedia del diritto
Della persona e della famiglia,
Baldini + Castoldi, Milano 2020,
pp. 298, € 18,00

 

C’è stato un tempo in cui il diritto di famiglia era considerato la Cenerentola del diritto. E in cui fra i “maestri” dell’avvocatura mai avreste potuto trovare uno Jemolo o un Carnelutti matrimonialista.

Poi la società è cambiata, sono cambiate le leggi, è arrivato il divorzio (e molto altro) e con esso una nuova attenzione e sensibilità verso i bisogni della persona, della famiglia, dei figli. Così il diritto di famiglia ha trovato il suo giusto posto nella grande categoria del diritto ed oggi nessuno si sognerebbe di negargli l’enorme importanza per la vita delle persone.

Una premessa necessaria, questa, prima di parlare della “mini enciclopedia” (che tanto “mini” non è) di De Filippis, Gassani e Rimini. Due parole sugli autori. De Filippis, Presidente di Sezione della Corte d’Appello di Salerno, è un noto esperto di diritto di famiglia; alcuni dei nostri soci ricorderanno una sua conferenza di molti anni fa nella sede dell’ISP. Gian Ettore Gassani, avvocato, è fondatore e Presidente dell’AMI (Associazione Matrimonialisti Italiani), di cui il Presidente dell’ISP è socio onorario. Cesare Rimini è l’esempio vivente del cambiamento al quale si accennava sopra: unanimemente considerato tra i “grandi” avvocati del diritto di famiglia. Tutti e tre sono autori di numerosi libri.

Questa enciclopedia si giova, naturalmente, della loro esperienza e della loro autorevolezza; tuttavia, il suo pregio consiste in una peculiare caratteristica: quella di essere… informale. In che senso?  Nel senso che il tono è quello di una conversazione, informale appunto, tra amici. Niente gergo, niente ampollosità, niente linguaggio accademico per addetti ai lavori. Léggi, procedure, prassi giudiziarie, articoli del Codice… Tutto è raccontato e spiegato con chiarezza e semplicità. Così sarà facile anche a chi non mastica troppo il linguaggio giuridico capire finalmente cosa sono i patti prematrimoniali di cui si fa un gran parlare (solo un parlare perché non ammessi dalla legge italiana), come funzionano le unioni civili, cosa si intende per “maternità surrogata” o per “testamento biologico”.

Al termine di alcuni macro-argomenti – come la separazione, il divorzio e l’affidamento dei figli –  “Domande e risposte” soddisfano le curiosità più frequenti. Dubbi e concetti sono chiariti anche nella parte intitolata “Approfondimenti e interviste”, con domande – più o meno le stesse – rivolte ai tre autori. Le ultime pagine (“Vademecum del riformista”) sono una curiosa sintesi de jure condendo: affiancati su due colonne troviamo alcuni articoli del Codice Civile attuale e di quello… del 2040, così come potrebbero essere sulla base degli orientamenti attuali della giurisprudenza, della evoluzione dei costumi, dell’indirizzo della nostra società. E forse dei desideri dei tre giuristi.