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Trasformare l’esclusione in una risorsa

di Monica Aitanga Leva e Gabriella Merenda *

In questi ultimi anni molto si è parlato della solitudine maschile e, in particolare, di quella dei padri. Numerosi miti sono stati sfatati sulla pretesa “prevalenza” della relazione madre-bambino su quella paterna e le più moderne e illuminate teorie sull’attaccamento hanno restituito ai padri un ruolo di estrema importanza nella crescita affettiva e sociale dei figli.

Si può certamente definire superata la freudiana visione dell’uomo quale semplice osservatore esterno della diade madre-bambino nella prima fase di vita del piccolo, che interviene soltanto quando quest’ultimo comincia a essere in grado di rapportarsi col resto del mondo, affermazione che indica e amplifica l’idea che, alla nascita, il bambino viva solo in funzione della madre.

Le ricerche più recenti rivalutano il ruolo paterno sin dalla gestazione, per non dimenticare poi l’aspetto del sogno e del desiderio di famiglia che nasce e si struttura in due!

Il padre influenza il clima familiare e incide sul benessere psicologico della madre, in una sorta di circolo virtuoso che si riflette su tutte le relazioni familiari per l’intero corso della vita.

Non riconoscere pienamente il padre, è come riguardare le foto di famiglia in bianco e nero delle prime Kodak: non lo si vedeva mai, perché era, spesso, proprio lui a scattarle!

Trovandosi dalla parte dell’””obbiettivo”, il papà ha il vantaggio di poter mantenere una “visione panoramica” di quel che accade. Può osservare la mamma e il rapporto fra mamma e bambino, cogliendo contemporaneamente dove si rivolgono i loro sguardi. Come scrive lo psicoanalista Paolo Roccato, può, così, «essere di sostegno non solo “dall’interno” (dal punto di vista del bambino, della mamma, o del loro rapporto), ma anche “dall’esterno” (dal punto di vista della realtà) e “verso l’esterno” (verso la realtà)».

Nella nostra esperienza clinica molte sono le donne che “si perdono” dietro l’accudimento quotidiano del piccolo re, tralasciando frequentemente se stesse e il proprio compagno. Il padre può favorire il ritorno della mamma a una dimensione di vita più ampia, contemporaneamente ridimensionando il monopolio del bambino a favore dell’apprendimento delle “regole” relazionali, secondo le sue competenze in crescita.

Purtroppo, molti padri non riescono a mantenere il senso di sé all’interno della coppia e spesso si arrendono all’antico modello che li vedeva “fuori dalla stanza”, limitandosi semplicemente ad ascoltare ciò che accade da un’altra parte. Questo sentirsi fuori costituisce, purtroppo, una barriera alla creazione di quel senso di appartenenza familiare che va ben oltre la dimensione biologica.

Un tempo, la donna aveva il compito di “mettere al mondo” il figlio e il padre quello di metterlo “nel mondo”, di insegnargli a vivere nella società.

In questa scena topica gli attori protagonisti erano entrambi soli: la mamma a confronto con i suoi intimi timori di inadeguatezza e il padre con la fantasia del figlio già e finalmente cresciuto.

Quello che gli spettatori non vedono, sono tutte le risorse negate, sia dal femminile che non si concede di chiedere aiuto, sia dal maschile che offre un semplice sostegno pratico, escludendo il proprio punto di vista, frustrazioni comprese.

Del resto, non ci possiamo scordare che siamo nel 2016 e che i padri di oggi, dai 40 in su, sono i figli di ieri, di un tempo in cui il mondo delle emozioni, dell’accudimento e del riconoscimento di sé, stava nella casa gestito dall’universo femminile. Il padre tornava alla sera e non doveva essere disturbato. Evidente la difficoltà attuale! Il padre affettuoso e accudente è un’invenzione moderna. Mancano modelli di riferimento e nel sentirsi emarginati è facile perdersi e non sapere cosa fare quando si sente di non contare abbastanza.

E’ così che i padri strutturano nuove strategie difensive dal senso di smarrimento, difficili da cogliere al di fuori del contesto intimo e protettivo del setting psicoterapeutico, proprio perchè si trovano del tutto soli ad affrontare le trasformazioni che la loro nuova situazione comporta. Nel loro ambiente non sono facilmente riconosciuti né appoggiati. Anche nel racconto dei momenti trascorsi con i figli, traspaiono situazioni di solitudine. A questo proposito, si osserva sempre più una richiesta d’aiuto da parte dei padri separati che, nel nuovo ruolo, non hanno neppure lo specchio della loro immagine a fianco di una donna. Le loro madri, diventate nonne, continuano a fare le mamme, mentre loro, non più mariti, non vogliono fare solo i figli, ma anche vivere la loro condizione di padri, quantunque separati.

In questa odissea di stili paterni, poche sono le ricerche che fotografano ciò che sta avvenendo nel nostro Paese. Tra queste, Taurino, nel 2003, [Taurino 2003, 186 s.].propone 5 “modelli culturali” della soggettività maschile, che qui riassumiamo brevemente:

Ci sembra stimolante tentare il collegamento tra questi dati sulla mascolinità italiana e quelli emersi da un’altra ricerca del 2012 sulla paternità (State of Mind, 2012, Ronald Rohner e Abdul Khaleq), in cui sono stati coinvolti più di 10.000 soggetti provenienti da tutto il mondo, dai quali emerge un quadro interessante sugli effetti di un atteggiamento distanziante e rifiutante dei padri verso i figli: i bambini, in risposta al rifiuto paterno, non solo tendono a sentirsi più ansiosi e insicuri, ma risultano anche più ostili e aggressivi nei confronti degli altri. Il dolore del rifiuto tende a ripresentarsi in età adulta, rendendo più difficile instaurare relazioni sicure e fiduciose con i loro partner.

Del resto, tutta la nostra cultura è intrisa del riconoscimento paterno, la nostra stessa identità deriva dal cognome del padre e, dunque, l’idea di noi stessi nella società si struttura e si rinforza nello sguardo paterno.

Quando questo è rivolto altrove: verso il proprio dolore, la nuova situazione di solitudine, la rabbia nei confronti dell’ex compagna o verso un nuovo amore – come nelle situazioni di separazione – si troveranno corrispondenze con i  modelli culturali sopra descritti.

In  molti anni di esperienza nel lavoro clinico, la maggior parte di richieste di aiuto ci sono giunte da uomini con caratteristiche simili a quelli catalogati come pater familias,  destrutturati o in crisi professionale.

Sembrerebbe che i bisogni dei padri inizino a prendere voce,  sebbene in un contesto privilegiato e protetto, in direzione di una maggior consapevolezza del proprio ruolo e come espressione di una rinnovata volontà di essere protagonisti nella vita dei figli. Il padre separato non vuole più essere un “padre solo”, ma neppure colui che fa “ciò che dice mamma” e da questo nasce l’esigenza del confronto. Nella stanza di psicoterapia arrivano dolore e fragilità che si trasformano in risorse e punti di forza; si acquisiscono nuove competenze che verranno utilizzate nella vita di tutti i giorni.

* Psicologhe e psicoterapeute

Bibliografia, oltre che quella citata in articolo: WWW.MENTEPSICHE.IT [1], Paolo Roccato, Padri soli.