Editore: Feltrinelli, Milano
Anno: 2014
Prezzo: €12
Pagine: 175
Ci sono ancora i bambini, ma non c’è più l’infanzia. Del resto, quelli sono sempre esistiti, questa no. Con questo assunto molto intriguing Marina D’Amato affronta uno dei temi più scottanti della odierna pedagogia (e sociologia, psicologia, storia…): quello di un’infanzia costretta a adultizzarsi da adulti che si sono abbondantemente infantilizzati. Dopo aver percorso rapidamente le tappe storiche di un’infanzia anticamente assente o, al più, vagamente definita fino al Rinascimento, e poi nell’età moderna, fino ad arrivare al puerocentrismo dell’Ottocento e di buona parte del Novecento, D’amato prende in esame una lunga serie di tratti che caratterizzano i genitori post-moderni, soprattutto una evidente “mancata assunzione di responsabilità”. Delega “emotiva” al sociale, profusione di beni di consumo – abbigliamento, meglio se griffato, mobilio, giocattoli, gadget elettronici… – importanza negata alla durata del tempo da trascorrere con i figli in nome della “qualità” del tempo stesso sono alcuni dei segni che connotano il finire di un’epoca (quella della “subcultura puerocentrica dell’infanzia”) e l’aprirsi di nuove prospettive quantomai complesse e ambigue.
Per D’amato sembra ormai che sia il figlio a dare “senso e stabilità alla coppia” sempre più fragile. Questo comporta inevitabili conseguenze nello stile educativo: “il genitore di oggi appare non tanto interessato a educare, cioè a tirare fuori (ex-ducere) dal bambino le sue potenzialità, ma piuttosto a sedurre”. Altra conseguenza, il rallentamento del processo di distacco dalla famiglia. Un breve paragrafo sui “nuovi” padri rileva la “confusione dei confini e delle differenze tra padre e madre” e l’emergere di nuove figure di genitori: padri che “sanno assolvere con naturalezza le funzioni materne che la cura di un bimbo prevede sin dalle prime fasi di vita”, madri che da un lato ripercorrono il mito della Grande Madre mediterranea – quella che “coglie ogni moto del ‘bambino’, comprende tutto, perdona tutto, sopporta tutto” – dall’altro presenta la grande novità della condivisione. Dubbi, consigli, timori per la prole non trovano più eco in mamme, nonne e zie, bensì nel partner, negli “esperti” (pediatra e psicologo) e soprattutto nella Rete, dove decine di siti e di blog orientati sul materno sono pronti ad ascoltare, suggerire, indirizzare, correggere.
Avvalendosi anche di dati statistici e con lo stesso piglio ed entusiasmo [vivacità] con i quali tiene i corsi di sociologia all’Università Roma Tre, Dipartimento di Scienze della formazione, D’Amato analizza luci e ombre del rapporto tra bambini, media e social network, distante tanto dagli “apocalittici” (tutto ciò che è di negativo nei nostri bambini e ragazzi è da attribuirsi ai media) quanto dagli “integrati” (i media offrono stimoli per elaborare le proprie opinioni, consentono di conoscere il mondo e sentirsi partecipi di una comunità più vasta).
L’ultimo capitolo sviluppa un’osservazione quantomai appropriata: “Ancor prima che di attenzione, il bambino è oggetto di preoccupazione”. Del resto, “essere preoccupati è molto più facile che essere attenti”. Scrive D’Amato: “Se la ragione per cui non abbiamo insegnato ai bambini la capacità di crescere senza perdere l’orientamento è da ricercarsi nella dimensione del possesso materno che tanto caratterizza la nostra cultura, è anche vero che siamo stati capaci di inventare un modello educativo in cui la preoccupazione è diventata l’alibi dell’attenzione”. Per le madri e per i padri.