Editore: L’orma editore, Roma
Anno: 2019
Prezzo: € 18
Pagine: 155
Un titolo che suona come un ossimoro, una contraddizione in termini, un paradosso: autobiografia scritta da qualcun altro. E’ l’audace operazione letteraria compiuta da un figlio – intellettuale francese morto nel 2016 – nei confronti del padre. In qualche modo, un monumento al genitore, la cui morte ha prodotto nel figlio “un dolore molto intenso, fisico e morale, ma soprattutto fisico”, lasciando in lui “radici più profonde di quanto credessi, radici oscure”. Pachet, come osserva nella postfazione Lisa Ginzburg, non si mette “nei panni” del padre, si mette nella sua mente, “secondo uno spostamento che implica un lasciarsi guidare dai contenuti da quella stessa mente riversati nella sua”. Un processo dunque non di simbiosi, bensì di osmosi, che a sua volta genera “una qualità sottile e particolarissima di empatia”.
Così Simkha Opatchevsky, ebreo russo emigrato in Francia, dove cambierà il suo cognome, racconta se stesso per bocca del figlio, racconta una vita segnata dalla fuga, dall’avvento del nazismo (che lo costringe a nascondere la sua qualità di ebreo e ad approfittare della accoglienza offerta ai figli da un collegio cattolico), dal sorgere dello stato ebraico, dall’impegno – socialista, pacifico e idealista – di Simkha nel sionismo che lo va realizzando. E poi l’università, il lavoro di medico (con scrupoloso impegno e pari sfiducia nella medicina) il lento, penoso decadimento fisico e mentale descritto con acribia “dall’interno”: mente paterna che guarda se stessa con la mente del figlio.
Nello stile sobrio di Pachet, sintetici giudizi e riflessioni paterni illuminano situazioni familiari e sociali con grande efficacia: come il rapporto con la figlia, difficile per incomprensione generazionale. O come i discorsi di Hitler (“quintessenza dell’emozione primitiva”), il cui fascino l’ebreo Opatchevsky-Pachet spiega mirabilmente in poche righe.
Un libro che Elena Stancanelli, su D, ha definito, forse con un pizzico di enfasi, “150 pagine di assoluta perfezione letteraria” e che, per tornare alle parole di Ginzburg, è chiaramente “un unicum dal punto di vista letterario”. Cosa ha reso possibile questa operazione? L’indubbia capacità di cogliere l’essenziale attorno a sé e tradurlo in linguaggio appropriato, ma soprattutto il grande amore riconoscente di un figlio che voleva capire che cosa la morte del genitore gli aveva strappato. Lui stesso lo spiega nelle prime pagine del libro, con efficacissima similitudine: “Quando mio padre è morto (…) Mi sentivo come chi si sveglia dall’anestesia totale dopo un’operazione, quando il dolore emerge poco a poco insieme alla domanda a cui nessuno dei presenti vuole rispondere: che cosa ho perso, che cosa mi hanno asportato? Per amore della vita decisi di cercare cos’era”.