Miriam Toews,
Swing Low,
marcos y marcos, Milano 2021,
272, € 18,00
(Traduttrice Maurizia Balmelli)
Entrare nei panni di un padre che non c’è più e parlare con la sua voce. Nutrire i suoi pensieri, muovere i suoi arti, formulare le sue parole, ricostruire i meandri della sua mente… Richiede coraggio, introspezione, pazienza. E tanto, tanto amore. Un tenero pegno di amore per il padre è questo libro della scrittrice canadese Miriam Toews, scritto nel 2000 e solo ora pubblicato in Italia. Non un padre con una vita normale. E nemmeno con una morte “normale”.
Quell’uomo, Mel, è nato in una chiusa comunità rurale mennonita: profughi giunti dalla Russia nel 1874 e stabilitisi in Manitoba, provincia del Canada occidentale. Cresce, negli anni Quaranta del secolo scorso, con una madre alcolizzata e un padre inevitabilmente triste e distratto dai problemi della moglie. C’è un fratello minore, ma questo non aiuta perché a lui, che ha in qualche modo “sostituito” una sorellina morta neonata, vanno tutte le attenzioni dei genitori. E soprattutto della madre, che “stravedeva per lui”. Figura essenziale, questa materna. Mel – la voce della figlia per lui – non insiste troppo sul vuoto che lei gli ha procurato, ma a poche pagine della fine del libro e della sua vita confesserà: “Ho sessantadue anni e desidero ancora che mia madre mi prenda una sola volta tra le braccia e mi dica che mi vuol bene”.
Presto Mel manifesta i sintomi di un disturbo bipolare e a 17 anni gli viene diagnosticata una grave psicosi maniaco-depressiva con seguito di psichiatri e dosi massicce di farmaci. Eppure egli riesce a costruirsi una vita: sposa Elvira, la ragazza amata, vulcanica e ribelle, diviene un maestro elementare apprezzato e rispettato, gentile, esuberante, “divertente, energico, schietto”. Ha due figlie, Miriam e Marjorie, che ama ma con le quali, a volte, il rapporto svanisce nei lunghi silenzi della depressione che si alterna a fasi maniacali (mania e depressione: due eserciti “che si sporgevano oltre il grande spartiacque della mia mente devastata e si stringevano la mano”).
Mel ama il suo lavoro e i suoi allievi, cerca continuamente di migliorare la sua istruzione e la sua posizione (si specializza in pedagogia, gli viene proposto un incarico di Preside) e vuole smetterla con lo psichiatra e con il passato. Ma poi c’è l’infarto, ci sono le ischemie cerebrali, la confusione nebulosa della mente, aggravata dalla depressione e dalla paranoia. Dopo un periodo di ricovero nel quale la sua mente segue percorsi oscuri e tortuosi (fra l’altro è convinto di aver ammazzato sua moglie) un giorno esce dall’ospedale e si uccide gettandosi sotto un treno.
Alla figlia Miriam l’immane compito, “l’ossessione di dover scoprire tutto quello che potevo sulla sua vita” nel tentativo di capire il perché di quella morte. Una morte che purtroppo “ha una sola risposta ed è la depressione, un termine clinico, del tutto inadeguato per designare la disperazione profonda”.
Il viaggio di Miriam ripercorre la vita del padre, dall’infanzia fino a quella morte dolorosa. E’ un percorso di una dolcezza struggente e malinconica, soffuso di una vena di comicità e di ironia (si veda il viaggio in Sudamerica) che stempera, con lo stralunato umorismo del malato, il dramma di una vita segnata ma anche tenacemente combattuta e infine persa. Perché “nella buia casa della depressione non ci sono finestre da dove vedere gli altri, solo specchi”.
Giovanni Catelli,
Parigi, un padre
Inschibbolet Edizioni, Roma 2020,
125, € 10,00
Ancora un libro – quanti ne abbiamo letti! – di un figlio che cerca il padre che non c’è più. Lo cerca nella memoria, nei luoghi, nel tempo che è stato. Questa storia è sovrastata, intessuta, impregnata dal senso del tempo, “la futile catena che condanna ogni cosa all’avvenire”, “la linea del tempo tracciata nel perpetuo presente”. E poi “il dominio del tempo”, “le sabbie del tempo”, “il fantasma del tempo”, “il passo impercettibile del tempo”… Tempo che trova nelle fotografie la sua dolorosa testimonianza: osservarle provoca “la desolazione di chi osservi i resti di un naufragio”. Tempo che si restringe e si dilata in modo misterioso e incomprensibile: segreto e incalcolabile se sei con una donna in un taxi che corre verso la stazione ferroviaria e la città attorno rallenta e accelera e le pulsazioni del traffico ritmano i pensieri. Anche i treni sono lì a testimoniare il tempo: quello degli orari, che scandisce il loro viaggiare, quello che si avventano ad affrontare e quello che resta dietro di loro, “nella rete minuziosa del tempo, nella vasta cronologia che ci sfugge, che destina ogni gesto, lo sorregge, e lo cancella”. E poi, naturalmente, gli oggetti di chi non c’è più, che “appaiono, a tratti, attraverso le porte del tempo, superstiti, o visioni, messaggeri silenziosi, vani dell’invisibile, dita remote o segni, custodi delle soglie”: uno stetoscopio, un camice, un paio di forbici chirurgiche.
Il tempo è l’ossessione dello scrittore: “Non posso rassegnarmi alla distruzione, all’oblio, al vuoto delle linee dietro di me”. Tutto il libro è una ricerca – dichiarata – del padre, tutto il libro è l’avversione per il tempo che su ogni cosa incombe, che tutto stravolge, che forse ha lasciato spazi troppo brevi per quel padre e quel figlio e che ora si erge ad ostacolare la paziente ricerca. Un padre imprevedibile, che appare e scompare, preso dal suo lavoro, dall’amore per la medicina, ma anche da un “inesausto cercare”. Un dono inatteso, dopo una settimana di assenza senza notizie, scatena “il significato improvviso e definitivo di quell’attesa e di quella mancanza, la riconciliazione con i silenzi e le dimenticanze, con il mistero dell’assenza, e delle tante domande prive di risposta”.
Catelli ripercorre strade e boulevard, ponti e periferie, stazioni ferroviari e bistrot seguendo i passaggi del padre come un cane che si è perso e cerca zigzagando la traccia dell’amato padrone. E lo fa con un linguaggio ricco e corposo, che spesso si trasfigura e assume la vocalità e i ritmi scanditi della poesia.
Ricerca estenuante, quella del libro, e tenace, dolceamara, inseguendo una certezza antica che è – o dovrebbe essere – di ogni bambino nei confronti del padre. Quella che l’Autore ricorda quando il padre lo portava con sé “nel vasto mondo, all’ignoto estuario dei giorni”: “la certezza che mai, con lui, mi sarei perduto”.