Di regola questo notiziario ospita solo articoli scritti da specialisti su temi inerenti la loro professione (o da giornalisti, possibilmente specializzati) né tantomeno prende in considerazione lavori di fantasia. Nel pubblicare il racconto seguente, scritto da un socio di vecchia data (la sua iscrizione risale al gennaio 1997) è stata fatta di buon grado un’eccezione.
di Roberto Isabella
All’inizio era il caos, il nostro eroe, Giovanni, era ormai allo stremo delle forze. Si opponeva come meglio poteva all’infuriare della tempesta. Gli agenti esterni, come il clima, i compagni di lavoro, i suoi superiori si assiepavano per aggredirlo. Giovanni era un ufficiale della Marina della Federazione degli Stati Interspaziali ed era stato inviato in missione per risolvere una questione delicata e controversa tra due civiltà aliene in conflitto tra loro. Purtroppo, le condizioni ambientali e le difficoltà incontrate si rivelarono questa volta superiori alle sue forze. Non diversamente dagli agenti esterni, gli agenti interiori – quelli del corpo e della mente – erano alleati a contrastarlo, a indebolirlo e ad abbatterlo.
Si sentiva come una superficie piatta bidimensionale di particelle sospese nello spazio profondo e squassata da ambo i lati, inerme al freddo dell’oscurità e al calore insopportabile dei mille soli di quella strana e lontana galassia: la galassia M100 situata nella Chioma di Berenice.
La sua eroina Lucia era lontana, troppo giovane e per raggiungerla era necessario superare prima la costellazione del gelo e poi quella desertica del calore insopportabile.
Sapeva bene che in quello stato, come superficie unimolecolare, non sarebbe potuto sopravvivere a lungo nello spazio freddo e profondo e si sarebbe presto disperso nel pulviscolo cosmico perdendo la sua unicità. Invece accadde che fu catturato dalla scia di una astronave di nomadi e pirati dello spazio. I pirati lo raccolsero e lo ricompattarono alla meglio in un corpo e da quella superficie mono molecolare fu possibile ricostruire un corpo tridimensionale, fu nutrito, scaldato e gli si diede in moglie la primogenita di una delle famiglie dei pirati, Ines. Da quella unione nacque subito una piccola dea che fu chiamata Deianira che possedeva l’intelligenza dell’eroe e l’astuzia dei pirati. L’unica figlia di questa coppia così particolare era bella, intelligente e straordinariamente legata al padre, ma la notte scese subito, improvvisa, piena di lampi e tuoni.
Secondo le regole tribali della famiglia dei pirati, il padre – l’eroe Giovanni – doveva prendersi cura della piccola per tutta la notte e durante l’oscurità su quel pianeta la riflessione ionosferica notturna permetteva che i raggi B arrivassero ad irradiare come una pioggia fosforescente la casa dove abitavano. Poiché i raggi B sono dolorosi e letali solo per i cuccioli di uomo, l’eroe dovette spendersi con arnesi, schermi, farmaci, sotterfugi e preghiere per evitare che la piccola potesse soffrirne tanto da rimanere uccisa. Tutta l’infanzia passò così e la piccola crebbe abbastanza per diventare finalmente immune ai raggi B.
Una volta cresciuta e arrivata all’età di 5 anni, anche il corpo e la mente di Giovanni si erano rinsaldati e
quindi chiese al Comando Supremo della Marina di poter essere inviato a sostenere l’esame di verifica della conoscenza della lingua universale dei segni che era compresa ovunque e permetteva di comunicare tra alieni e umani di tutti i sistemi solari della galassia M100. L’esame andò benissimo ma l’Ufficiale non fu subito inviato in missione, gli si propose invece di approfondire gli studi di una regione particolare della galassia sede di tumultuose ribellioni e sanguinose guerre civili. Gli studi durarono circa cinque anni che Deianira e Giovanni vissero insieme con grandissima felicità. Ogni giorno, nonostante gli studi da portare a termine, Giovanni si incantava con Deianira in giochi e scherzi di ogni tipo: quando non aveva ancora compiuto un anno di vita, Deianira – non prima di aver distrutto centinaia di torri di blocchetti di cubi che il papà le metteva davanti – scattò come per impulso e costruì una torre di almeno quattro o cinque blocchi. L’agente “costruttore” aveva prevalso sul preponderante “distruttore”, ben noto a tutti i genitori che vedono i bimbi anche molto piccoli gettare a terra gli oggetti per poi magicamente vederseli ricomparire davanti dopo che il papà o la mamma li hanno raccolti da terra (qualcuno con un po’ di stizza) …e ogni volta i bimbi sorridono!
Ines, la madre di Deianira sapeva cantare meravigliosamente e la bimba fu deliziata, fin dai primi giorni di vita, da note melodiose e ritmiche. Ben presto anche lei iniziò a cantare. Giovanni invece, pur amando moltissimo la musica, era stonato come una campana e saggiamente si tenne lontano dal canto.
Deianira di giorno in giorno diventava sempre più brava nei giochi di intelligenza e nel canto. La relazione col padre era idilliaca ma non altrettanto poteva dirsi della relazione tra Giovanni e sua moglie Ines. Erano diversi, distanti, d’altronde provenivano da mondi divergenti tra loro e quindi le comunicazioni ben presto raggiunsero una specie di vuoto cosmico.
Quando Deianira era ancora molto piccola, Giovanni le insegnò il gioco del “calcolo senza calcolo” che risale alla notte dei tempi ma che ha dato il nome alla matematica. I calcoli erano piccole palline di argilla che i pastori conservavano gelosamente all’interno di un sacchetto. Usatissimo dai pastori, il metodo permetteva di contare senza saper contare. Infatti, è sufficiente estrarre una pallina di argilla per ciascuna pecora o capra che esce dal recinto e si reca al pascolo e, al tramonto, per ogni animale che attraversa la porta d’ingresso, riporre nel sacchetto una pallina per ciascun animale rientrato. Se avanza qualche pallina vuol dire che una pecora o una capra, per esempio, si sono smarrite e non sono rientrate. L’uso è antichissimo e chissà se il pastore della famosa parabola non avesse anche lui un sacchetto con le palline di argilla che lo allertò sullo smarrimento di una pecorella! Il gioco si fa facilmente con i pupazzetti dei bambini, con le palline, un bicchiere e un recinto e vi assicuro – miei due o tre lettori – che i bimbi spalancano gli occhi quando si dimostra loro che un pupazzetto è smarrito e occorre trovarlo dove abilmente lo abbiamo nascosto.
Poco dopo la fine del corso di studi, l’Ufficiale fu inviato in missione in quella terra lontana sede di lotte fratricide e in condizioni disperate con la civiltà ridotta a livelli bassissimi. Mancava tutto, tranne la violenza, il degrado, la corruzione, la vendetta. Mancavano farmaci, attrezzature mediche, infrastrutture civili e ogni giorno era una emergenza. Giovanni tornava il più spesso che poteva nonostante la distanza per stare alcuni giorni insieme con sua figlia Deianira, ma il rapporto quotidiano, quella certezza di sapere che il padre le stava sempre accanto, si era spezzato. La stessa Deianira, una volta diventata grande, disse che una bambina non sa valutare quanto siano lunghi tre giorni, una settimana o un mese: potrebbero essere lunghi come decenni o secoli o come l’eternità e queste parole le sottolineò con grande tristezza e con un sospiro. Infatti, con la lontananza di suo padre Giovanni, Deianira si perdette nei meandri e nei tranelli della vita. Iniziò un percorso confuso con la scuola, con i suoi amici, con i suoi primi amori e il rapporto con la madre Ines divenne tumultuoso, conflittuale e peggiorò ancora di più quando la coppia genitoriale si separò, prima ancora che Deianira compisse dieci anni. Le missioni di Giovanni nei lontani teatri operativi durarono parecchi anni nonostante i frequenti rientri in patria e il tenace tentativo di
Giovanni di essere per sua figlia il rifugio paterno e gioioso che era sempre stato.
La rottura con sua figlia Deianira esplose con la massima violenza quando la ragazza aveva quattordici anni e impose al padre di non farsi vedere mai più. Vi risparmio la descrizione del dolore che questo evento produsse nel cuore di Giovanni. Egli, tuttavia, non si perse mai d’animo. Intervenne generosamente ogni volta che la madre ed ex moglie Ines chiedeva il suo supporto. E di momenti tristi e bui dove le tenebre regnarono fitte ce ne furono molti, ma mai gettarono Giovanni nella disperazione.
Ugualmente non avvenne mai che l’Ufficiale dovette pentirsi di tutto il bene profuso in quella terra tumultuosa dove ora, anche grazie alle sue missioni di pace, regnano prosperità e sviluppo e anche il tasso di violenza e sopraffazione sono decisamente diminuiti a favore di una convivenza civile e ordinata.
Per molti anni l’agente “distruttore” prevalse nella vita di Deianira e solo all’improvviso, per una motivazione imperscrutabile, non dissimile da quel precoce impulso dell’agente “costruttore” che da piccolissima le permise di costruire una torre di blocchetti di legno, Deianira si riappropriò di suo padre Giovanni e di conseguenza della sua vita che ora scorre nel canto e nella facoltà universitaria cha ha scelto, senza ostacoli e con grande profitto…! Come mai?
Il perché non è facile a spiegarsi. Posso soltanto dirvi, conoscendo molto bene Giovanni, che egli non si stancò mai di aspettare, di pregare, di sperare. Per fortuna non si bruciò gli occhi come il padre misericordioso del dipinto di Rembrandt, ma posso confermare che il dettaglio del famoso dipinto che raffigura il padre con una mano maschile e una femminile corrisponde alla vastità della accoglienza che Giovanni manifestò sempre nei confronti di sua figlia. Grande l’intuizione del pittore fiammingo nel mostrare così la duplice grandezza dell’amore divino: materno e paterno.
Ringraziamenti:
1) I testi evangelici.
2) Philip K. Dick e tutti i suoi racconti.
3) La NASA per il telescopio Hubble.
4) John D. Barrow. La luna nel pozzo cosmico. Adelphi, 1994, per la storia del “contare senza saper contare”.
5) Marvin Minsky. La società della mente. Adelphi, 1989, per il gioco della costruzione delle torri di blocchetti di legno e gli agenti “costruttore” e “distruttore”.
6) Rembrandt Harmenszoon van Rijn per la sua opera: “Il ritorno del figliuol prodigo” detto anche “Il padre misericordioso”, 1668