di Maurizio Quilici *
Parlare e scrivere di separazioni, affidamenti, minori, tribunali e perizie, servizi sociali (e in particolare di alienazione parentale, ascolto del minore…) è un compito di estrema delicatezza. Perché la materia investe gli affetti più profondi, gli equilibri più delicati. E una perizia sbagliata, una sentenza “di parte”, una testimonianza insincera possono avere conseguenze dolorosissime su un genitore e su un figlio, segnando entrambi in modo talora irreversibile.
Per questo gli articoli su questo tema dovrebbero essere sempre improntati a grande serenità (uso proprio questo termine che può sembrare inappropriato, vista l’incandescente materia). Voglio dire che il giornalista, oltre ad avere una competenza specifica nel settore, dovrebbe attenersi ad alcune regole di puro giornalismo, alcune generali altre più specifiche. Non voglio fare la lezione a nessuno, per carità, ma accostarsi all’argomento trattato senza alcun pregiudizio ideologico dovrebbe essere il presupposto essenziale. Non è facile, lo so, spogliarsi degli stereotipi che ci affliggono e delle proprie convinzioni, specie se maturate con una lunga esperienza sul campo, e assumere un atteggiamento neutro e neutrale. Ma ci sono professioni – come quella del magistrato o, appunto, del giornalista che lo richiedono. Altrimenti uno non fa il giornalista ma il politico, o nel migliore dei casi il polemista.
Secondo requisito, che discende dal primo, imparzialità e oggettività. Esaminare i fatti approfondendoli, controllandoli e non limitarsi a riportare i comunicati, le dichiarazioni e le affermazioni dei soggetti coinvolti.
Terza buona regola, anche questa derivante dalla precedente, cercare, ove possibile, di riportare le due versioni di un fatto controverso. Ci sarebbero altri corollari, ma queste regole sono sufficienti.
Devo spiegare questo lungo preambolo. Ho fatto queste riflessioni leggendo un articolo pubblicato l’11 marzo 2022 da il venerdì di Repubblica supplemento settimanale del quotidiano la Repubblica, dal titolo “Non strappateci i nostri figli”. Lo scritto è firmato da Maria Novella De Luca, giornalista che da molti anni scrive di famiglia e minori e di questioni di genere, e affronta il doloroso tema dei minori che la magistratura toglie alle madri – al termine di procedimenti lunghi e costellati di perizie – perché considerate inadatte (o talvolta, con termine molto contestato nell’ambito della stessa magistratura, “alienanti”). Nell’articolo si afferma che questi minori sono costretti a frequentare padri abusanti e violenti nel tentativo di ricostruire il rapporto con il padre e talvolta addirittura affidati a questi ultimi, o trasferiti in case-famiglia.
L’argomento – lo ribadisco ancora una volta – è di grande delicatezza e richiederebbe pari delicatezza nel trattarlo. Che non tutto funzioni a dovere nelle aule dei Tribunali (e nella giustizia in generale) è un dato di fatto. Che debba essere messo in discussione il principio secondo il quale un uomo violento con la propria compagna – o comunque autore di reati – possa essere ugualmente un padre affettuoso è accettabile (tutto deve poter essere messo in discussione) e condivisibile. Che si discuta fra chi accoglie i principi della PAS (Parental Alienation Syndrome) e chi la nega sta bene. Su quest’ultimo punto si è scritto tanto in questo notiziario, sempre distinguendo fra terminologia e sostanza e senza porsi il dubbio della validità scientifica o meno della teoria (in altre parole auspicando che il giudice, a prescindere dalle teorie, accerti con opportune perizie se vi sono atteggiamenti miranti dolosamente a screditare la figura dell’altro genitore).
Il punto, tuttavia, non è tanto ciò che è scritto quanto come è scritto. Probabile che la lunga esperienza di giornalista di Agenzia abbia deformato il mio punto di vista professionale, legandolo ad una scrittura priva di giudizi, di aggettivi, di allusioni, di prese di posizione. Una scrittura che si attiene ai fatti (quelli dimostrati o dimostrabili) e che cerca di riportare il diverso punto di vista degli attori.
Cosa che non è nell’articolo che ho appena citato. Le storie di madri, come quella di Laura Massaro, di cui ci siamo occupati più volte nel nostro notiziario (e sulla cui vicenda vedi, in questo stesso numero, “Caso Massaro, si esprime la Cassazione”) vengono raccontate come “qualcosa di gravissimo che sta accadendo nei tribunali del nostro Paese”, descritte con “assalti di forze dell’ordine e servizi sociali decisi a portarle via il figlio”, con uno “stalking giudiziario oggi giunto in Cassazione”, con “dieci poliziotti che hanno malmenato e immobilizzato Laura”. Tutto questo è definito “una mostruosità giuridica”.
Ampio spazio è lasciato all’intervento di Valeria Valente, Presidente della Commissione d’inchiesta sui femminicidi e sulla violenza di genere del Senato, secondo la quale “la nostra Giustizia ritiene che un uomo violento con la propria compagna possa essere comunque un buon padre. E che la relazione padre-figli vada conservata sempre. Anche se quell’uomo è stato riconosciuto colpevole di abusi e reati. E’ il principio, mai superato, della ‘patria potestas’ al di sopra di tutto”. Afferma ancora Valente: “Un forte pregiudizio maschilista grava su molte sentenze”.
Si sarebbe tentati di osservare che se il nostro ordinamento giudiziario e la nostra Costituzione impongono la rieducazione e il recupero del condannato, foss’anche il più efferato omicida, a maggior ragione si dovrà cercare di ottenere il recupero del rapporto padre-figli anche nei riguardi di un padre violento (con tutti i distinguo, le cautele, le professionalità e le tecniche rieducative del caso).
Si potrebbe ancora riflettere (ho detto riflettere, non condividere) sulla mediazione penale, nell’ambito della cosiddetta “giustizia riparativa”: l’autore e la vittima di un reato trovano un punto di riesame comune. Pratica poco diffusa nel nostro Paese e giusto nell’ambito del Diritto minorile, o davanti al Giudice di pace, ancorché raccomandata dal Consiglio d’Europa, essa può apparire un assurdo e un abominio (si pensi all’autore di una violenza sessuale e alla sua vittima), eppure autorevoli giuristi ne evidenziano la grande portata psicologica e morale. Non intendo stabilire possibili analogie (per la mediazione penale occorre il libero consenso di entrambe le parti, cosa ovviamente non attuabile quando sia coinvolto un minorenne, specie se infradodicenne), ma solo accennare a un esempio di pratica extragiudiziaria che lavora su due soggetti apparentemente inconciliabili.
Si potrebbe ancora obiettare che la patria potestas nel nostro Paese ha perso (fortunatamente) molto terreno negli ultimi decenni e che in una società (purtroppo) ancora fortemente maschilista la maternal preference è tuttora un principio sacro, con una contraddizione – maschilismo e maternità “sacra” – che da sempre connota il nostro mediterraneo Paese. Un principio talmente radicato che il Tribunale di Milano, in un decreto del 19 ottobre 2016, ha ritenuto doveroso sconfessarlo esplicitamente. E che è stato il motivo di una decina di condanne inflitte all’Italia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ma questo ci porterebbe sul terreno della sostanza, e forse della polemica, mentre io vorrei restare su quello del linguaggio.
La PAS è definita da De Luca “teoria, impronunciabile ma radicatissima nei nostri tribunali (…) codificata dallo psichiatra americano accusato di pedofilia [particolare regolarmente messo in luce dai detrattori della teoria e ignorato dai sostenitori, n.d.r.] Richard Gardner”. Le madri che si sono unite alle manifestazioni di protesta di Laura Massaro sono definite nell’articolo “le nostre madri argentine di Plaza de Mayo”.
Ora, io capisco che su un settimanale il linguaggio del giornalista è infinitamente più libero rispetto a quello di un’agenzia e che (purtroppo?) la vecchia regola del giornalismo anglosassone – i commenti distinti dai fatti, in separati articoli – lascia il tempo che trova. E tuttavia mi chiedo: è giusto questo atteggiamento? Denunciare storture (e certamente ve ne sono che penalizzano le madri, come noi stessi possiamo testimoniare) è compito del giornalista, ma farlo su un solo verste non è un buon servizio per nessuno. Se nell’articolo in questione ci fosse stato l’intervento di uno dei giudici contestati (oggi i giudici non hanno remore a farsi intervistare), o di uno dei padri indicati come violenti, il “pezzo” sarebbe apparso meno sbilanciato. Così, purtroppo, suona proprio di parte.
In ultimo, devo dire che non conosco di persona la collega, e mi dispiace, perché volentieri avrei avuto con lei uno scambio di idee, in quell’ottica di civile confronto che ha sempre improntato il nostro Istituto. Anni fa, quando pubblicai il Manuale del papà separato, tentati inutilmente di contattarla per telefono, poi glie ne inviai una copia in Redazione, con una lettera nella quale esprimevo il desiderio di incontrarla, visto che lei molto si occupava, come me, di separazioni e affidamenti. Non ho mai avuto risposta. Spero che libro e lettera non le siano mai arrivati, persi nei meandri delle Poste o presi da qualcun altro…
* Presidente dell’I.S.P.