di Giuseppe Magno *
In un mio precedente articolo su questo Notiziario (vedi ISP notizie n. 1, 2, 3/2008) sostenevo che la questione del cognome del figlio, introdotta inizialmente da esigui gruppi di parlamentari francesi ed europei per motivazioni ambigue – non risultava, e non risulta tuttora, che l’argomento sia proposto o sostenuto da grossi partiti, da importanti movimenti d’opinione o da masse popolari –, era stata poi inserita di soppiatto e, oserei dire, d’ufficio, nel grande capitolo della lotta sacrosanta alla discriminazione fra i sessi.
L’operazione è stata condotta, sul piano giuridico, sovrapponendo la nozione giuridica di nom de famille a quella di cognome paterno (gentilizio); nozioni coincidenti solo in parte e divergenti fra loro in un punto essenziale.
Il nom de famille (family name), contemplato dagli strumenti internazionali ed europei che sanciscono la parità nel rapporto fra coniugi, è il cognome che assumono entrambi gli sposi al momento del matrimonio, e che si applicherà poi anche ai figli. Poiché, di regola, tale cognome era quello dello sposo, si poneva giustamente il problema della disparità di trattamento fra uomo e donna, giacché questa era costretta a chiamarsi come il marito, ed era inammissibile il contrario.
La soluzione di tale problema fu cercata, in ambito internazionale, imponendo convenzionalmente (1979) agli Stati Parti di “prendere tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione contro le donne in tutte le questioni relative al matrimonio e ai rapporti familiari”, in modo da assicurare, in particolare, “gli stessi diritti personali in quanto marito e moglie, compresi quelli relativi alla scelta del cognome” [1]. In campo europeo, fu stabilito (1984) che “I coniugi godono dell’uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra di essi e nelle relazioni con i loro figli” [2].
Con le nuove disposizioni, miranti ad evitare ogni diseguaglianza fra coniugi anche in ordine al loro cognome, attualmente nei paesi in cui è in uso il sistema del nom de famille gli sposi lo scelgono al momento del matrimonio (uno dei due alternativamente o entrambi cumulativamente). La scelta incide indirettamente sui futuri figli, che porteranno ovviamente il cognome di famiglia.
Nel sistema giuridico italiano, la questione della parità fra coniugi, per quanto riguarda il cognome della moglie, non si pone affatto. Da noi, almeno a partire dal 1975, epoca cui risale la riforma del diritto di famiglia [3], la moglie non ha alcun obbligo di assumere il cognome del marito, ma conserva il proprio anche da sposata. In Italia, dunque, questo particolare aspetto del problema era stato eliminato ben prima dell’entrata in vigore degli strumenti internazionali citati.
A noi rimane, però, il problema del cognome dei figli – se debba essere quello paterno o materno o altro –; e non possiamo risolverlo a partire dal cognome “di famiglia”, come hanno fatto gli altri. Potrebbe sembrare uno svantaggio; invece non lo è, se può servirci da stimolo per una riflessione meno superficiale (e meno preconcetta) sull’argomento. Sembra necessaria, a questo punto, una sommaria esposizione della vicenda giudiziaria che ha determinato – si direbbe, a scoppio ritardato – la nuova sistemazione provvisoria della materia; non per virtù di legge, ma grazie ad un repentino cambiamento di rotta nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Tale vicenda ebbe inizio alla fine del secolo scorso, allorché due coniugi, C.A. e F.L., chiesero concordemente all’ufficiale di stato civile di iscrivere all’anagrafe la loro figlioletta col solo cognome della madre, facendo presente che nessuna norma impone espressamente l’attribuzione del cognome paterno. Il funzionario non accolse la richiesta, quindi i coniugi si rivolsero al Tribunale competente per chiedere la modifica dell’atto di nascita nel senso da loro desiderato. Il Tribunale, e poi la Corte d’appello, rigettarono la domanda spiegando che, pur in mancanza di una norma scritta, una consuetudine saldamente radicata nella coscienza comune esige che il figlio nato nel matrimonio abbia il cognome del padre.
La Corte di cassazione, a sua volta investita dell’affare, giudicò (ordinanza n. 13298 del 26 febbraio 2004) che l’attribuzione obbligatoria del cognome paterno al figlio nato nel matrimonio non dipende da una consuetudine (insuscettibile di valutazione da parte della Corte costituzionale), bensì da una norma non scritta, immanente nel sistema e desumibile da varie altre disposizioni contenute nel codice e in alcune leggi; tutte passibili del vaglio di costituzionalità per lesione del principio di parità fra genitori, “nella parte in cui prevedono che il figlio legittimo acquisti automaticamente il cognome del padre anche quando vi sia in proposito una diversa volontà dei coniugi, legittimamente manifestata”. In quel caso, la condizione dell’accordo fra i genitori serviva a restringere il campo operatorio, per così dire, consentendo un’abrogazione parziale della norma incriminata, limitatamente al caso in cui le parti siano d’accordo per non applicarla.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 61 del 10 gennaio 2006, riconobbe “che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”; ma dichiarò inammissibile la questione, perché la scelta fra le varie soluzioni prospettabili poteva essere operata soltanto dal legislatore, ossia dal Parlamento. La Corte non ritenne, in buona sostanza, che l’accordo fra parti private potesse avere importanza in un campo riservato al diritto pubblico, regolato da leggi uguali per tutti, che solo il legislatore poteva dettare scegliendo fra diverse proposte, tutte rispettose del principio di parità.
I coniugi C.A./F.L. si rivolsero allora alla Corte europea dei diritti dell’Uomo che, decidendo il caso con sentenza in data 7 gennaio 2014, riconobbe che la legislazione italiana, o la prassi amministrativa (dell’ufficiale d’anagrafe), erano eccessivamente rigide e discriminanti nei confronti delle donne, ragion per cui dovevano essere modificate, al fine di renderle compatibili con le norme convenzionali.
Nel frattempo, la Corte d’appello di Genova, con ordinanza in data 28 novembre 2013, aveva sottoposto una questione analoga al giudizio della Corte costituzionale; la quale, con la sentenza n. 286/2016, mutando opinione (anche perché era stata frattanto pubblicata la sentenza dei giudici di Strasburgo), dichiarò illegittima la norma non scritta immanente nel sistema (ed altre norme attributive del cognome paterno) “nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno”. Accolse, cioè, le argomentazioni svolte dalla Corte di cassazione nell’ordinanza del 2004, che prima non aveva ammesso.
A questa sentenza ha fatto seguito quella n. 131/2022, sempre della Corte costituzionale che, accogliendo un’eccezione sollevata dal Tribunale di Bolzano e auto-investendosi di una questione più ampia con propria ordinanza n. 18/2021, ha perfezionato, per così dire, l’opera riformatrice, affermando di non potersi più esimere “dal rendere effettiva la ‘legalità costituzionale’”, dato che “delle numerose proposte di riforma legislativa, presentate a partire dalla VIII legislatura, nessuna è giunta a compimento”; pertanto, ritenendo non più “tollerabile” la presenza nell’ordinamento di norme esprimenti “il lascito di una visione discriminatoria”, ha stabilito che il figlio debba assumere automaticamente il cognome di entrambi i genitori “nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo [alla nascita, all’atto del riconoscimento o dell’adozione, secondo le diverse ipotesi: n.d.r.] per attribuire il cognome di uno di loro soltanto”.
Allo stato attuale delle cose, dunque, il figlio dovrebbe prendere il cognome di entrambi i genitori, nell’ordine da loro stessi stabilito, salvo un esplicito accordo per attribuirgli il solo cognome paterno o quello materno. Dovrebbe, perché l’epocale cambiamento non avviene in base ad una legge organica (tuttora inesistente) comprensiva di un buon numero di disposizioni più minute, fra cui la concessione di una congrua vacatio legis, e corredata di atti amministrativi indispensabili (circolari); bensì è attuato per sentenza, in modo assolutamente originale (difficile immaginare uno scenario simile in altri paesi).
Su queste premesse, proviamo quindi a riflettere ed a trarre qualche conclusione.
La Corte costituzionale, accogliendo un’opinione consolidata in dottrina e in giurisprudenza, riconosce che “il momento attributivo del cognome… è legato all’acquisizione dello status filiationis” [4]; il problema del cognome si pone, cioè, nel momento in cui uno nasce, quando appunto si tratta di sapere di chi è figlio per poi stabilire, secondo le regole passate e presenti, quale sarà il suo nome ed il suo cognome, connotati essenziali della sua identità personale.
Dunque, da una parte, la scelta del cognome – se questo non è più, per tutti, quello paterno – si deve fare, secondo la Corte, al momento della nascita (o del riconoscimento o dell’adozione, secondo i casi): non all’atto del matrimonio, quando il titolare del diritto al nome (il figlio) ancora non c’è e potrebbe non venire affatto; né abbiamo da scegliere, noi italiani, un “nome di famiglia”. D’altra parte, però, sussiste l’esigenza di evitare che fratelli e sorelle abbiano cognomi differenti (eventualità impensabile nei regimi impostati sul “nome di famiglia”); dunque il legislatore, regolando la materia, dovrebbe rendere vincolante la prima scelta per tutti i figli successivi della coppia, come puntualmente raccomanda la stessa Corte (sent. cit., punto 15.2).
Questa complicazione induce a riflettere – più di quanto non si faccia normalmente – su una circostanza essenziale, esposta ripetutamente in tutte le sentenze e mai esaminata nelle sue ineludibili conseguenze: il nome (prenome e cognome) di cui stiamo parlando è un diritto personalissimo di colui che deve portarlo, cioè del figlio. Non stiamo parlando del cognome proprio della donna, riguardo al quale si porrebbe (e si pose, in passato) una questione di parità di diritti, se fosse costretta a cambiarlo oppure a vederlo sminuito per l’aggiunta di un cognome altrui. Qui, invece, stiamo parlando del cognome di una terza persona, il figlio, e dell’accordo (o del litigio) fra i genitori per stabilire chi dei due, se non i due insieme, abbia il potere di dargli il cognome, come un sigillo.
Messa da parte la retorica, si tratta dunque, alla base, di una competizione fra adulti avente ad oggetto il cognome di un bambino. Non è neppure (come qualcuno ha insinuato) una battaglia necessariamente sessista perché, oggi come oggi, i genitori potrebbero anche essere dello stesso sesso; e non si tratta di rispetto dei diritti del figlio – come quello, affisso ripetutamente, al pieno recepimento nel nome della duplice origine biologica –: non solo, e non tanto, per il fatto che non tutte le persone hanno origine bi-genitoriale nota, quanto perché non si tiene conto delle priorità, stabilite anche convenzionalmente, per cui il diritto personalissimo al nome, “nucleo dell’identità giuridica e sociale della persona” [5], corrisponde ad un interesse che è superiore ad altri interessi, non negoziabile mediante accordi privati fra soggetti terzi, portatori di interessi loro propri, siano pure ispirati a nobili criteri come quello della parità di genere.
Come recita l’articolo 6 del codice civile, “Ogni persona ha diritto al nome per legge attribuito. Nel nome si comprendono il prenome e il cognome”. Attribuito “per legge” significa che nessuno ha diritto di inventare il nome di un altro; più specificamente, la legge [6] delega ai genitori (con alcune limitazioni) il compito di “imporre” il prenome al figlio, ma non fa analoga concessione riguardo al cognome che, peraltro, “non si trasmette dal padre al figlio, ma si estende ipso iure da quello a questo” [7]. In parole povere, ognuno è padrone del proprio nome, fin dalla nascita (o dal riconoscimento o dall’adozione). I genitori hanno diritto di scegliere il prenome, ma non hanno alcun potere d’interferire sul cognome che la persona del figlio dovrà portare: e, in questo, la posizione del padre e quella della madre sono perfettamente pari.
Sembra utile chiarire, in proposito, che l’articolo 6 del codice civile (attribuzione del nome per legge), e gli articoli 29 e 35 dell’Ordinamento di stato civile in combinato diposto, sono norme non dichiarate costituzionalmente illegittime, quindi tuttora vincolanti, le quali escludono la validità di un accordo contrario alla “norma immanente nel sistema” che impone il cognome paterno. E questo, finché il Parlamento non deciderà diversamente.
Si spera tuttavia che il legislatore, se vorrà stabilire nuove regole, sempre rispettose del criterio della parità fra genitori, non voglia affidare la confezione del cognome alla trattativa privata, sia pure nell’intento di scardinare l’attuale “visione discriminatoria, che attraverso il cognome si riverbera sull’identità di ciascuno” [8]: intento lodevole che, infatti, può ben essere perseguito senza privatizzare la materia lasciandola interamente all’accordo delle parti.
La Corte costituzionale giudica – già con la sentenza n.286/2016, ma in modo più esplicito nella sentenza n. 131/2022 – che, in proposito, l’inerzia del Legislatore “non è più tollerabile” [9]; e lo invita, non solo a rompere gli indugi, ma pure a regolare la materia secondo canoni che la sentenza stessa suggerisce: suggerimenti indispensabili – bisogna ammettere – quando, abrogata la norma non scritta che privilegia il cognome paterno, e stabilito che il cognome del figlio debba dipendere dall’accordo dei genitori, si apre un periodo di profonda incertezza, in mancanza di direttive chiare per i responsabili dell’anagrafe, dal Ministro dell’interno all’Ufficiale dello stato civile, passando per Sindaci e Procuratori della Repubblica.
Ora, lasciando da parte un discorso lungo, e forse fuorviante, sui poteri degli organismi giudiziari in uno Stato democratico e di diritto, in cui la sovranità appartiene al popolo che la esercita attraverso organi elettivi (eventualmente disinteressati all’argomento, ma responsabili di ciò solo di fronte all’elettorato), sembra preferibile formulare alcune osservazioni con intenti costruttivi, a partire dai fatti.
Innanzitutto non è vero, per fortuna, che il criterio d’identità del bambino, e quello di parità fra coniugi, possano essere rispettati solo cedendo la gestione del cognome alle parti private, sia con riguardo alla scelta fra il doppio cognome (assunto comunque per default) e quello di uno dei genitori, sia con riferimento alla precedenza di uno dei due. Non è esatto, in altri termini, che “Il mero paradigma della parità conduce… all’ordine concordato dai genitori” [10], che non si possa rispettare i princìpi in altro modo, se non consegnando ai genitori il potere di decidere fra loro il cognome dei figli: tale conseguenza sarebbe obbligata – o, comunque, non da escludere – solo nei regimi che conoscono il “nome di famiglia”, applicabile ai coniugi (dunque concordabile fra loro) e, solo di riflesso, ai figli. Cosicché il verdetto citato della Corte EDU, che in modo evidente considera (soltanto) tali regimi, sarebbe ugualmente soddisfatto se la parità fra genitori fosse ottenuta mediante regole legali, uniformi e politicamente corrette.
Negli ordinamenti come il nostro, fondati sul criterio del “gentilizio”, di antica tradizione romanistica, in cui cioè non si tratta di modificare il cognome dei genitori, ciascuno dei quali conserva il proprio, bensì soltanto di individuare quello del figlio, la questione si pone quindi in modo completamente diverso: sia per i motivi di ordine pubblicistico esposti sia per l’ulteriore assorbente ragione – di ordine privatistico, nell’ipotesi di futura abrogazione dell’articolo 6, cod. civ. – che l’accordo dei genitori circa il cognome del figlio è un contratto, il quale ha efficacia soltanto fra le parti stipulanti, e produce effetti rispetto ai terzi (il figlio) solo se previsti dalla legge (articolo 1372, cod. civ.); effetti che la legge prevede per il prenome, ma non (finora) per il cognome.
In termini più espliciti, dove la Corte EDU afferma che la regola del cognome paterno è “eccessivamente rigida e discriminatoria nei confronti delle donne” [11], e da ciò deduce la necessità di adeguate riforme della legislazione o della prassi [12], dice cose accettabili [13]. Non altrettanto può dirsi dell’ affermazione (stessa sentenza, punto 56) secondo cui “le choix du prénom de l’enfant par ses parents entre dans la sphère privée de ces derniers… Il en va de même en ce qui concerne le nom de famille” [14]: conclusione sicuramente erronea, giacché la scelta del cognome conserverebbe, a differenza del nome, ed anche quando si facesse dipendere dalla volontà dei genitori, forti connotazioni di diritto pubblico, e non sarebbe mai libera come la scelta del nome, ma sarebbe limitata (il cognome di lui, quello di lei o entrambi, non uno di fantasia) per evidenti ragioni attinenti alla diversa funzione sociale [15].
Dunque, volendo adeguare l’ordinamento allo standard internazionale della parità di genere ed al verdetto specifico della Corte europea, non è affatto necessario assegnare ai genitori il compito di confezionare il cognome dei figli: compito arduo, giuridicamente parlando, per l’ostacolo rappresentato sia dall’articolo 6 sia dall’articolo 1372 del codice civile.
Certamente la legge, abrogando o modificando alcune delle norme citate, potrebbe “privatizzare” la materia del nome. Anche in tal caso, però, non potrebbe ignorare che “Il cognome, insieme con il prenome, rappresenta il nucleo dell’identità giuridica e sociale della persona” [16], quale contenuto di un diritto personalissimo; quindi, nel rilasciare ai genitori il potere di negoziarlo, dovrebbe aver presente che, in campo prettamente privatistico, nessun accordo può essere stipulato validamente senza l’intervento e l’accettazione dell’interessato minorenne, titolare del diritto ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione di NY del 1989, ed i cui interessi prevalgono su quelli altrui (degli adulti) per disposizione del precedente articolo 3.
A parte il discorso giuridico, l’esperienza insegna che non sempre le persone fanno buon uso dei poteri di cui dispongono; quindi, il sistema prospettato dalla Corte costituzionale, basato sull’accordo delle parti, non assicurerebbe in ogni caso il rispetto dei criteri di parità che l’hanno ispirato, e darebbe luogo, prevedibilmente, ad un forte aumento del contenzioso.
In conclusione, dopo l’ultima decisione della Corte costituzionale (la sentenza n. 131/2022, più volte citata), l’intervento del legislatore è divenuto davvero urgente: per mettere ordine nella materia, dettando regole rispettose della parità dei coniugi (ad esempio, introducendo il doppio cognome, stabilendo regole fisse per le precedenze e per la propagazione alle generazioni successive, e mantenendo le procedure per la sostituzione o la modifica di cognomi ridicoli o vergognosi), anche senza lasciare, auspicabilmente, alcun margine alla trattativa privata, ossia all’accordo fra le parti.
Solo il legislatore, riprendendosi per intero il campo d’azione che la Costituzione assegna solo a lui, può ancora evitare i danni sociali di un cognome “alla carta”, senza tema d’incorrere nella censura di violazione dei princìpi richiamati nelle sentenze citate, atteso che il rispetto di tali princìpi non esige l’accordo delle parti, ma può essere attuato direttamente dalla legge, uguale per tutti, mantenendo la materia del cognome nel quadro del diritto pubblico.
* Magistrato, già Direttore dell’ufficio minorile del Ministero della Giustizia
1 Articolo 16, lett. g), Convenzione ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW), del 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva dall’Italia con legge n. 132 del 14 marzo 1985.
[2] Articolo 5, Protocollo Addizionale n. 7 (1984) alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ratificato in Italia con legge n. 98 del 9 aprile 1990.
[3] Legge 19 maggio 1975, n. 151. Il nuovo articolo 143 bis inserito nel codice civile prevede – come riconosce la Corte costituzionale nella sentenza n. 131/2022, punto 7.1 – la mera facoltà, per la moglie, di aggiungere al proprio cognome quello del marito; quindi di poterlo usare legittimamente a sua discrezione, senza alcun obbligo e, soprattutto, senza cambiare il proprio.
[4] C. cost., sent. n 131/2022, già cit., punto 9.
[5] C. cost., sent. n 131/2022, cit., punto 9.
[6] Articoli 29 e 35, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile.
[7] Ordinanza n. n. 13298 del 26.2.2004, della Corte di cassazione, depositata il 17.7.2004.
[8] C. cost., sent. n 131/2022, cit., punto 10.1.
[9] Ibid.
[10] C. cost., sent. n. 131/2022, punto 11.3.
[11] Sentenza in data 7.1.2014, C. e F. c. Italia, cit. nel testo, punto 67.
[12] Ibid, punto 81.
[13] Anche se, in un regime legale, come il nostro, di attribuzione del cognome al figlio, la parità è in re ipsa, dato che la legge è uguale per tutti (la mancanza di potere della madre di dare il suo cognome è compensata dalla mancanza di potere del padre di negare il proprio). D’altra parte, in seno alla stessa Corte EDU il Giudice Popović dissentì dalla sentenza, e si preoccupò di mettere per iscritto la sua opinione, secondo la quale l’attribuzione del cognome del padre non viola i diritti dell’uomo, e gli Stati membri dovrebbero poter conservare le loro tradizioni, senza vederle sottoposte ad una armonizzazione forzosa a livello europeo.
[14] La scelta del nome del bambino da parte dei genitori appartiene alla sfera privata di questi… La stessa cosa si deve ritenere per quanto concerne il cognome.
[15] Funzione dipendente ab origine dalla considerazione che la madre è certa, a causa del parto (art. 269, 3* co., cod. civ.), mentre la paternità – da cui dipendono molteplici conseguenze di odine familiare e sociale – dev’essere acclarata mediante presunzioni o prove; che divengono superflue se il padre, dando al figlio il proprio cognome, implicitamente lo riconosce.
[16] C. cost., sent. n. 131/2022, cit., punto 9.