Editore: HarperCollins, Milano
Anno: 2021
Prezzo: €17
Pagine: 219
Ormai non si contano più i romanzi, le biografie – o autobiografie – i saggi che ruotano attorno al tema del padre. E’ bello che sia così, è una novità storica che va di pari passo con la “scoperta” della paternità e del suo (a lungo trascurato) valore. E dunque ben venga anche questo libro di Giulio Perrone, fondatore della omonima casa editrice, che sul filo dei ricordi parla di sé e di suo padre: un rapporto dove non tutto andava liscio, ché le critiche (paterne), la voglia di libertà (del figlio), i silenzi, le incomprensioni non mancavano. Le idee sul futuro del figlio (il tipo di donna, lo studio, la professione…) non coincidono con quelle del ragazzo, come quasi mai accade (“ha trasposto su di me i suoi sogni, l’aspettativa frustrata”); e quel ragazzo, come quasi sempre accade, un po’ vi soggiace e un po’ combatte il “fascino segreto e pericoloso che si annida nella necessità di un figlio di rendere fiero il padre”.
Ora però il padre muore, e non lo sa, divorato da un tumore a 56 anni. E il rapporto diventa ancora più difficile, perché amore, pena, rabbia, rimorso, senso di colpa ed anche rancore e insofferenza sono un mix micidiale condito nei ricordi. Ricordi particolari, quelli che si vivono nei confronti di un genitore (e ancor più di un genitore che muore). Perché il ricordo di un amico, che puoi insultare, o anche picchiare, “prima o poi sfuma”. “Ma con un padre non funziona così, l’ho capito negli anni. Ogni dettaglio si cristallizza, rimane nell’aria per poi riaccendersi quando respiri anche solo un briciolo di quel ricordo”. E allora è – per esempio – il ricordo di un Natale organizzato sapendo che sarà l’ultimo insieme a lui, che sembra allegro, con il pensiero di che regalo fare a un uomo che perde le forze ogni giorno ed è tornato un bambino, un uomo-bambino nel quale il figlio non riconosce più il padre; con la rabbia dolorosa (rabbia e dolore in certe circostanze vanno spesso insieme) nei confronti della madre che, pur laureata in medicina, specializzata in chirurgia, “sembrava disposta a credere anche a Wanna Marchi, pur di salvarlo”. Oppure il ricordo della “banda” di amici del padre: Godzilla, il Verme, Karate, America (quello del titolo)… Amici con i quali si vive tutto: le partite di pallone, il tifo, l’iniziazione sessuale con Nella, i film al Rialto (i meno giovani lo ricordano bene, quel cinema tra Piazza Venezia e Via Nazionale, dove se stavi in Galleria non vedevi nulla per il denso fumo di sigarette che saliva dalla platea), le gare alla guida del “Cinquino”: dallo stadio Olimpico su verso Monte Mario fino a Piazzale Clodio e poi a tutta birra per il Lungotevere, verso il traguardo.
Due strade parallele e insieme sovrapposte: capitoli in carattere tondo quelli della vita del figlio, in corsivo quelli che ricostruiscono la vita di Giampiero, il padre. E sullo sfondo degli anni ’60 e ’70 l’eterno confronto fra padre e figlio (quel confronto che oggi è così appiattito e appannato), che è – o era – una tappa importante del proprio sviluppo. Perché “non c’è niente di più stimolante che combattere una battaglia, difficile o persa in partenza, con qualcuno che non è lì per colpirti ma per aiutarti. Qualcuno che non smonta le tue idee per odio o per sadico piacere, ma perché vuole il tuo bene”.
Un libro straziante e mai lamentoso, un mezzo per fare pace con il passato, con il non detto che sempre rimane come strascico alla morte del padre. Era “un’ossessione” – ha confessato l’autore in una intervista – che si portava dietro da anni. Poche cose come lo scriverne aiuta a fare pace con se stesso, visto che “non esiste via di fuga dalla propria vita”.