di Silvana Bisogni *
Di recente, su alcuni giornali italiani, sono stati pubblicati commenti ad un articolo apparso sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, dedicato ai risultati di una indagine di EUROSTAT (Young people leaving their parental home, 2022), pubblicata nel settembre 2023, sui comportamenti dei giovani europei. In poche parole i giovani italiani si confermerebbero “bamboccioni”, la gioventù italiana è definita come la peggior “mammona” d’Europa.
Ma non è una novità. Il termine “bamboccioni” è stato coniato in Italia, nel lontano 2007, dal ministro dell’Economia e delle Finanze Tommaso Padoa-Schioppa (governo Prodi), secondo il quale i giovani italiani sono troppo pigri e legati alla famiglia di origine, incapaci di uscire dalla casa dei genitori. Poi, ad usare la parola, in più occasioni. furono Mario Monti (premier), il viceministro del Lavoro Michel Martone ed Elsa Fornero, che etichettò i giovani come choosy, troppo esigenti e schizzinosi. Il Ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri dichiarò che i giovani italiani considerano che “il posto fisso debba essere accanto a mamma e papà”.
Molti anni dopo, il giornale tedesco ha evidenziato, in modo molto critico (venato da un certo pregiudizio anti italiano), la tendenza dei giovani italiani a rimanere a lungo in famiglia, per godere degli agi e delle comodità della casa genitoriale, in numero maggiore rispetto ai coetanei degli altri Paesi UE. La polemica ha dato origine ad una serie di interpretazioni e confronti sui dati dell’EURISTAT e sono stati evidenziati elementi interessanti di valutazione.
E’ vero che i giovani italiani tendono a lasciare la casa di famiglia intorno ai 30 anni, ma in un corretto confronto con i coetanei europei, non sono i soli, anzi. Sono in buona compagnia con i giovani spagnoli, maltesi e bulgari, tutti vanno via da casa intorno ai 30 anni. Ma sono rilevabili anche situazioni più problematiche: i giovani croati lo fanno a 33,4 anni, gli slovacchi a 30,8, i greci a 30,7. E’ pur vero che nei Paesi nordici i dati Eurostat hanno registrato le età medie più basse in cui si lascia casa, tutte sotto i 23 anni, in Finlandia (21,3 anni), Svezia (21,4), Danimarca (21,7) ed Estonia (22,7). Sempre secondo i dati EUROSTAT, nell’arco di 10 anni, l’età media dei giovani che lasciano la casa dei genitori è aumentata in 14 Paesi dell’UE, in particolare in Croazia (+1,8 anni), Grecia (+1,7) e Spagna (+1,6).
Va evidenziata una differenza di genere in questa scelta: le donne lasciano casa prima degli uomini. L’Istituto statistico europeo ha registrato un divario di genere abbastanza netto: in media, gli uomini lasciano la casa dei genitori quasi due anni più tardi delle donne. Nessun Paese europeo fa eccezione a questo divario: durante lo scorso anno le donne hanno lasciato casa prima degli uomini in tutti i 27 Stati membri. In Italia il gap rispecchia le proporzioni europee: le donne si trasferiscono a 29 anni, gli uomini a 30,9, come peraltro avviene anche in nove Paesi: Croazia, Bulgaria, Grecia, Slovacchia, Spagna, Italia, Malta, Slovenia e Portogallo.
Ma c’è anche un altro fenomeno giovanile, demografico e sociale segnalato da EUROSTAT: i cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training), secondo l’acronimo creato in uno studio della Social Exclusion Unit, un dipartimento del governo del Regno Unito, con cui si definiscono quei giovani under 35 che non studiano né lavorano, né stanno seguendo corsi formativi. E, secondo i dati statistici, i giovani italiani sono i più numerosi: il 23,9% rispetto ai coetanei europei, superando di ben 13 punti la media europea, con livelli inquietanti in Sicilia (30,2%) in Calabria e Campania oltre il 27%. Quasi un italiano/a su quattro tra i 15 e i 29 anni non lavora, né studia, né si sta formando. Gli altri Paesi con percentuali più alte sono Romania, Bulgaria, Slovacchia, Ungheria, Croazia, Polonia. Nel resto d’Europa il fenomeno è molto più contenuto, persino nei paesi mediterranei, il 18,7% in Grecia, il 17,3% in Spagna, l’11% in Portogallo. I Paesi del centro-nord hanno invece tutti percentuali inferiori al 10%, con le eccezioni di Irlanda e Francia (14%), Belgio (12%), Finlandia e Danimarca (poco sopra il 10%).
E’ interessante, a questo punto, il confronto con i giovani statunitensi, sulla base dei dati pubblicati da Pew Research Center, relativi al grado di autonomia rispetto alla vita familiare. Anche negli USA nel 2020 è risultato che il 52% di giovani vive ancora in casa con i genitori, il valore più alto nei 120 anni censiti. Sorpassato il minimo storico negli anni ’60 con appena il 29%, gradualmente negli anni la percentuale si è poi tramutata in una crescita costante: 32% negli anni ’80, 38% del 2000, 44% del 2010, fino alla percentuale attuale.
Negli USA, tra le altre, sono valutate come concause di questa situazione, in primis, la crisi finanziaria del 2008 che ha notevolmente ridotto le possibilità economiche su scala mondiale, con un impatto negativo sulla indipendenza di giovani che si apprestavano a rendersi autonomi rispetto alla dipendenza finanziaria dalla propria famiglia.
Altro motivo va riscontrato nella pandemia causata dal COVID 19, che ha comportato un impatto notevole soprattutto sulle scelte abitative dei giovani, in particolar modo per gli studenti universitari che, non potendo risiedere nei college per le misure precauzionali, sono stati costretti a rientrare in famiglia.
Ma torniamo ai giovani italiani: perché lasciano tardi la casa dei genitori? In un confronto nell’ultimo decennio, dal 2010 l’età del trasferimento è passato dai 25 anni, a quota 30 nel 2022. Le concause sono diverse. La causa economica è la più grave perché impedisce ai giovani italiani di trasferirsi e pagare un affitto o un mutuo, mentre il boom immobiliare (secondo punto) non accenna ad arrestarsi. Secondo gli ultimi dati resi disponibile dall’Agenzia delle Entrate sui contratti stipulati nel 2021, i canoni medi per tutte le tipologie di contratto di locazione sono aumentati del 5,8% rispetto al 2020 e del 5,2% rispetto al 2019. Analizzando dati più recenti, riportati dall’Osservatorio mensile di Immobiliare.it Insights, i canoni sono aumentati dell’1,3% da marzo ad aprile 2023 e di quasi il 6% rispetto al 2022. In un anno sono cresciuti del 4,9% a Roma, del 10,8% a Milano, 5,4% a Napoli, del 10,6% a Torino, del 5,9% a Palermo, del 5% a Genova, del 17,8% a Bologna, del 20,2% Firenze, del 14,1% a Venezia.
Ma vi sono anche altre cause. Un elemento di valutazione risiede nelle scelte e nei risultati dell’istruzione. In Italia gli studi durano mediamente di più rispetto a quelli degli altri Paesi europei e, inevitabilmente, si ritarda l’ingresso nel mondo del lavoro e di conseguenza la possibilità di andare a vivere da soli.
E’ da considerare che vi è anche una matrice sociale che incide in una doppia direzione: secondo l’Istat, nel 2021 il 62,7% dei 25-64enni italiani ha almeno un titolo di studio secondario superiore in Italia, contro il 79,3% della media UE, l’84,8% della Germania e l’82,2% della Francia. Nella stessa fascia di età, chi ha un titolo di studio universitario (20%) rientra in un livello più basso della media europea (33,4%) ed anche rispetto alla Francia e alla Spagna (40,7% in entrambi i Paesi).
Tale differenza incide sui livelli occupazionali e anche sugli stipendi più bassi, anche perché in Italia il gap salariale spesso non premia sufficientemente chi ha studiato di più. Il sistema italiano non è abbastanza premiante rispetto ai partner europei, non solo in relazione agli stipendi, ma anche per la ricerca stessa del lavoro: in Italia i tassi di disoccupazione si attestano al 24,7% (ISTAT) tra i diplomati e al 15,6% tra i laureati, dati ben Superiori del 14% e del 6,8% rispetto alla media europea.
L’assenza di lavoro o un’occupazione poco retribuita sono certamente alla base del fenomeno per molti giovani. E che lo stato di vulnerabilità della loro condizione sia uno dei più gravi problemi attuali per l’Italia lo dimostra un dato, di cui non si parla molto ma che esiste e che rappresenta una prova inquietante di questa condizione: secondo i dati ISTAT tra il 2002 2 il 2021 i giovani italiani che hanno lasciato il paese sono stati 1,4 milioni in media 71.000 ogni anno (122.000 nel 2019).
Nel 2021 (ultimi dati a disposizione), la percentuale di italiani emigrati verso l’Europa è salita all’83%: nel Regno Unito il 24%, in Germania il 15%, in Francia il 12%, in Svizzera il 9%, in Spagna il 6% e negli Stati Uniti il 4%. Negli ultimi vent’anni il 52 % degli italiani espatriati ha un’età compresa tra i 18 e i 39 anni, il 24 % tra i 40 e i 64, il 18 % sono under 17, mentre il 6 % è over 65.
Gli italiani rientrati nel nostro Pese, nel corso degli ultimi 20 anni, sono stati 810.000, in media 40.000 l’anno. Il che significa che nel confronto con gli espatri, l’Italia ha perso circa 600.000 persone.
- Sociologa dell’educazione – ISP Roma