di Arnaldo Spallacci*
E’ improvvisamente riemerso poco più di una ventina di anni fa; era un termine poco comune, appartenente al lessico delle scienze socio-umanistiche; appariva talvolta nei dialoghi “colti”, assai raramente nella stampa quotidiana e in quello che si definisce oggi “discorso pubblico”.
Alcune definizioni di base.
Il nostro ragionamento sullo stereotipo ha carattere solo introduttivo, ci limitiamo innanzitutto ad alcune definizioni, per circoscrivere l’oggetto della trattazione. Considerando inoltre che lo “stereotipo” è in realtà un termine (ed un concetto) complesso, in questa sede più che sugli aspetti filologici e linguistici, ci soffermeremo preferibilmente sulla sua diffusione, sull’uso che ne viene fatto (talvolta eccessivo), sui significati che ha assunto via via a livello anche politico.
E’ comunque utile iniziare con alcuni cenni al significato generalmente attribuito alla parola in questione. A tale proposito si deve ricorrere alla origine filologica: il termine stereotipo – dal greco “stereos” (duro, solido, rigido) e “typos” (impronta, immagine, gruppo), quindi una “immagine rigida” che nasce in ambito tipografico, per indicare un metodo di duplicazione delle composizioni tipografiche e dei cliché .
Nell’ambito delle scienze socio-umanistiche, il termine ha avuto rilievo anzitutto in psicologia, a significare qualsiasi opinione rigidamente precostituita e generalizzata, cioè non acquisita sulla base di un’esperienza diretta e che prescinde dalla valutazione dei singoli casi, su persone o gruppi sociali. In tale accezione, lo stereotipo si collega al termine di “pregiudizio”o “preconcetto”, ovvero “anticipazione acritica di un giudizio” (U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, Utet,).
Più complesse altre definizioni, secondo cui lo stereotipo configura una opinione precostituita su persone o gruppi, frutto di un antecedente processo d’ipergeneralizzazione e ipersemplificazione, e impermeabilità all’esperienza. Si presenta, dunque, come strumento di pensiero “pseudo-logico”. La cosiddetta erroneità o falsità degli stereotipi è stata analizzata sia con riferimento al processo che porta alla loro formazione (errori formali), sia con riferimento al loro contenuto (errori di fatto o osservazioni non conformi al vero). Quando si parla di stereotipo in genere si fa riferimento agli stereotipi sociali, ossia a credenze condivise da più persone. Ad esempio il caso diffuso di membri di un gruppo che sono d’accordo nell’attribuzione di “etichette” ai membri di un altro gruppo (eterostereotipo) o ai membri del proprio gruppo (autostereotipo). È dalla dinamica dei rapporti interpersonali che emerge più chiaramente la funzionalità degli stereotipi, ovvero risparmio di energia psichica, funzione d’integrazione dell’individuo nel gruppo, funzione egodifensiva. (Enciclopedia On Line Treccani)
Altra definizione più semplice ma esauriente e corretta, parla di “percezione o concetto relativamente rigido ed eccessivamente semplificato o distorto di un aspetto della realtà, in particolare di persone o di gruppi “sociali” (Il Nuovo Zingarelli, Zanichelli editore).
I sinonimi della parola stereotipo ne consentono una ulteriore comprensione e valutazione di significato; fra i sinonimi si segnalano: convenzionale, grigio, immutabile, monotono, uniforme, standard, usuale; fra i contrari dell’aggettivo derivato, stereotipizzato, si ricordano: vario, variabile, cangiante, mutevole, vivace
Dall’insieme dei concetti sovraesposti è difficile sfuggire all’idea che il sostantivo “stereotipo” e l’aggettivo che ne deriva “stereotipato” siano infine indici di caratteri alquanto negativi e sfavorevoli, specie nei termini della convenzionalità, fissità, usualità, ecc. Sebbene lo storico George Mosse, autore di uno studio fondamentale sullo stereotipo maschile (il maschio è uno dei soggetti sociali più frequentemente oggetto di stereotipizzazioni), riconosca all’uomo europeo fra fine ‘700 e ‘900 la presenza di stereotipi sia negativi che positivi (George Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna. Einaudi ).
Stereotipi e modelli.
E’ importante, per approfondire il nostro discorso, focalizzare la distinzione fra stereotipo e modello, due termini usati spesso come sinonimi, ma tuttavia separati da una fondamentale distinzione. Se infatti da una parte lo stereotipo si costruisce secondo un processo “non logico”, è frutto di semplificazione e generalizzazione eccessive, non viene valutato il suo potere esplicativo, interpretativo e predittivo della realtà sociale, non si fonda sullo studio-osservazione diretta e indiretta dell’oggetto di studio, il modello al contrario è frutto di una razionale costruzione tecnico-scientifica, è mirato a neutralizzare l’effetto di pregiudizi e generalizzazioni, e destinato infine ad essere valutato per verificarne la congruità come strumento di analisi sociale.
Se quindi volessimo costruire ad esempio una “modellistica” dei padri italiani nell’ultimo mezzo secolo, ovvero un sistema (una classificazione) che contenga al suo interno i principali “tipi” paterni presenti od emersi nelle famiglie italiane (secondo alcuni fattori: valori, comportamenti, atteggiamenti …), sarebbe opportuno tenersi lontano il più possibile dagli stereotipi emersi sui padri, ma non completamente in verità perché un riferimento”controllato” agli stereotipi può essere utile, ed inoltre probabilmente inevitabile, in quanto può prodursi inconsapevolmente nei nostri pensieri.
Perché, infine, è utile per il nostro discorso precisare che negli stereotipi sono presenti “noccioli di verità”, non derivanti da indagini, conoscenze, valutazioni sistematiche della realtà (data anche la assenza di strumenti e metodologie scientifiche per la individuazione e descrizione di stereotipi), ma per l’ammissione che lo stereotipo non ha origine dal nulla, bensì da fenomeni effettivamente presenti nella realtà, ma problematizzati e rappresentati con i limiti sopra descritti.
Negli ultimi decenni, nell’ambito in specie della sociologia, della psicologia, e di altre scienze (antropologia, etnologia…) il termine stereotipo (e derivati: stereotipico, stereotipizzato …) ha ripreso vigore, fino a sconfinare frequentemente in ambito socio-politico. Dove sta l’origine di ciò? Si può rinvenire, almeno in parte, nell’emergere all’interno dell’indagine sociologica delle differenze etniche e sessuali quali categorie progressivamente centrali specie nelle analisi volte ad identificare, commisurare, valutare (sia a livello individuale che collettivo) da un lato le dimensioni del potere, del dominio, del controllo, dall’altro quelle della discriminazione, della emarginazione, della esclusione.
Il largo uso di stereotipi (o del termine: “stereotipo”).
Si potrebbe dire che in ogni formazione sociale, dal micro al macro, è presente qualche figura “stereotipizzata”. Un esempio facile e immediato, specie italiano, è stato identificato nel “latin lover”, una icona assai diffusa non solo nei nostri confini, in quanto anche a livello internazionale ha rappresentato nella mente e nelle fantasie di donne e uomini, il prototipo più puro del maschio italiano. Bello, cortese, seduttivo, elegante, mondano, sempre in guardia per lanciarsi alla conquista (in modo soft ma deciso) della “preda”, il latin lover potrebbe rientrare nella più generale categoria dello “stereotipo maschile tradizionale italiano”. E’ importante qui sottolineare i diversi termini; “maschile,” quindi riferito alla categoria del sesso-genere, una fra le più ricche, e a volte fuorvianti categorizzazioni (stereotipizzate) delle persone; il secondo termine da tenere sotto la lente è “tradizionale”, che sta a significare che nella stereotipizzazione possono apparire, sul lato opposto della tradizione, figure “moderne”, “innovative”, anticonformiste. Il terzo termine importante è “italiano”, che riprende la fondamentale dimensione nazionale, linguistica, geografica diffusissima fra gli stereotipi più comuni, in sintesi quella etnica.
Le categorie più presenti nel dibattito pubblico, con frequenti sconfinamenti nel terreno culturale e politico, sono quelle dei temi “sensibili”, che, si è detto qui più volte, fanno riferimento alle tematiche sessuali (oggi si dice “di genere”) ed etniche (oggi non si può più dire “razziali”). Si può stare nelle dimensioni più macro, ed identificare lo stereotipo dell’italiano (in generale), ma anche dell’italiano del Sud e di quello del Nord (e qui entra il gioco la dimensione geo-territoriale). Quella di genere, dove si scatenano le contraddizioni e i dibattiti più aspri: il maschio italiano, la femmina italiana. Nella famiglia, dove specie per i padri si sono dipinte figure innumerevoli, dal padre severo, autoritario, insensibile (il “patriarca”, frequentemente richiamato nei tempi recenti), ma comunque “guida” sicura della comunità famigliare, fino alla figura del “nuovo padre”, attento, premuroso, partecipe, dialogante, sensibile; una figura apprezzata e veicolata soprattutto a livello mediatico (nella pubblicità, nella stampa, ma anche nel cinema), divenuta in breve un nuovo stereotipo paterno. E su queste due figure (che accuratamente studiate e classificate possono transitare al piano nobile dei modelli) si può accendere il dibattito politico e culturale, quello delicatissimo dei ruoli famigliari, e in specifico della divisione del lavoro domestico, fra cui il lavoro di cura dei piccoli, e della collegata “asimmetria” ancora perdurante dell’impegno materno rispetto a quello paterno.
Nella scuola gli stereotipi hanno dominato: da una parte lo studente maschio, in genere disattento, disimpegnato, qualche volta un po’ discolo, ma capace comunque alle fine di cavarsela, perché in fondo intelligente e soprattutto “sveglio”; dall’altra le femmine, coscienziose e attente, più disciplinate ed anche più mature, che però inciampano in qualche ostacolo (tipicamente la matematica, che non pare sempre un fatto così grave). Ed il Preside, anch’esso figura maschile nella stereotipizzazione ottocentesca e novecentesca, vero “padre” (“patriarca”?) dell’istituto scolastico, riservato, accigliato, colto (specie in discipline letterarie e umanistiche), dispensatore di massime morali e sanzioni disciplinari, ma che dietro la barba e i baffi (un cliché sempre presente) nasconde un animo equilibrato e generoso.
Ma esiste ancora questa figura? Che pure potrebbe essere, nella fissità tipica dello stereotipo, ancora ben innestata nella nostra mente. Ma la realtà spesso marcia contro gli stereotipi; il Preside (o la Preside) non è più tale, bensì è divenuto un “Dirigente scolastico”, termine che rimanda più alla tecnocrazia e all’efficienza che alle massime filosofiche e pedagogiche. Inoltre oggi in Italia circa l’80% dei dirigenti scolastici è donna. E i presidi maschi e femmine per anni denominati “presidi manager”, sono già un nuovo stereotipo. Così come le studentesse da alcune decine di anni, dismesse le severe uniformi in nero, hanno abbandonato lo stereotipo (appunto) della disciplina imposta e subita, dello studio pressante, perché anzi da anni costituiscono la punta di eccellenza della scolarizzazione, con alti tassi di diploma, di laurea, e ridotta dispersione scolastica .
Raccomandazioni per l’uso
Quindi il mondo rema contro la fissità dello stereotipo. E fin qui nulla di male, perché le società, come la natura, si evolvono, cambiano, forse non nel senso auspicato, ma di certo non costituiscono apparati immobili. Il problema è che non altrettanto frequentemente cambiano le coordinate culturali, i criteri analitici, lo sfondo valoriale di chi degli stereotipi parla, ne scrive e li utilizza nella propria attività (i giornalisti, il ceto politico, i partecipanti ai talk-show, gli esperti e maitre a penser …. ); un gruppo variegato intellettuale e professionale che degli stereotipi ne raccoglie spesso gli elementi interni, anche quelli di “verità”, ma senza afferrarne poi il mutamento. E quindi consegna a noi la visione di un mondo (di una società) sostanzialmente immobile.
Quindi gli stereotipi sono probabilmente inevitabili, e talvolta utili per cogliere elementi semplificati, ma al contempo stratificati e solidificati, quindi importanti, della realtà sociale. Probabilmente non si può vivere senza di essi, che ci piaccia o meno. Ma non si può farne un elemento di base di analisi sociale, o come capita, un obiettivo politico, che sempre più frequentemente si sente pronunciare: “lottiamo contro gli stereotipi”, uno slogan che solo trenta anni fa sarebbe apparso, così come oggi volgarizzato e appiattito, semplicemente surreale. Se ne deve invece fare un uso come si raccomanda per i medicinali; quantità minima indispensabile, controllo degli effetti, e adoperarne diversi tipi per evitare assuefazione. Elementare, ma assai difficile da praticare.
• Sociologo. ISP Bologna