Alice Ceresa,
Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile
nottetempo, Milano 2020,
pp. 173, € 15,00
Alice Ceresa,
La figlia prodiga,
La Tartaruga, Milano 2023,
pp. 231, € 20,00
Alice Ceresa: di lei mi sono occupato nello scorso numero di ISP notizie, con il libro La morte del padre, che assieme a La figlia prodiga e Bambine costituisce una trilogia legata ai temi della donna, del patriarcato (tema quantomai attuale) e, diciamo pure, del femminismo. Come ho già scritto, si attende la ristampa di Bambine. Qui, intanto, diciamo qualcosa su La figlia prodiga e nell’attesa aggiungiamo questo Piccolo dizionario.
Dunque La figlia prodiga. Incuriosisce già il titolo, che rimanda a un topos schiettamente maschile che nessuno si sognerebbe di declinare al femminile (sebbene Ceresa, già nelle prime righe – e con prima provocazione – affermi che pensare auna figlia prodiga “non solo non stupisce ma appare addirittura come scontato. Essendovi infatti stato un figliol prodigo, non si vede a prima vista perché non dovrebbe esservi pure una figliola prodiga”). E infatti incuriosì al momento della pubblicazione, nel 1967, quando il libro uscì nelle librerie con una copertina rossa fiammante insolita anch’essa. Si comincia a leggerlo e subito si resta sconcertati: a capo e spazi seguono un andamento del tutto impercorribile (e veniamo a sapere che resero assai incerte e laboriose le bozze quando le prime 63 pagine dell’opera furono pubblicate sulla rivista Il menabò, curata fino a quel momento da Vittorini e Calvino), la punteggiatura segue un ritmo tutto suo.
La prosa di Ceresa è a sua volta particolarissima, indefinibile, come ho già scritto a proposito de La morte del padre. “Sconclusionata” è la prima parola che viene a mente per definirla. Occorre, diciamo così, farci l’abitudine. E superare un primo sconcerto (e magari una prima irritazione) per accedere poi agli ironici, taglienti, acuti contenuti. Come in una stanza buia occorre abituarsi all’oscurità, così nelle pagine di Ceresa bisogna aspettare un poco prima di azzardare movimenti.
Ma chi è, in conclusione (o in premessa) la “figlia prodiga”? E’, per usare le parole di Laura Fortini nella Prefazione, “figura della disubbidienza, dell’estraneità, dell’abbandono dell’ordine costituito”, una figlia deviante, che, tanto per cominciare, manca del cosiddetto istinto filiale (Ceresa precorre i tempi e ritiene che l’amore “naturale” per i genitori non sia diverso da quello che si può provare per chiunque accudisca con amore un bambino). A proposito di “naturale”, altra “naturalità” nel mirino acre dell’autrice quella presunta della famiglia. La famiglia, almeno quella patriarcale, è qui, come in altri scritti di Ceresa, sinonimo di imperfezione, con la sua “permeabilità insita nella strutturazione delle famiglie e soggetta all’infiltrazione di elementi estranei e per natura stessa disgregatori”. Essa “cerca di mantenere unito ciò che è fatto per disperdersi”. Dunque in una famiglia siffatta nasce la figlia prodiga, “sfuggente e per nulla ovvia né a loro appartenente e con loro identificabile cosa”. Nasce con una sua sensibilità “normale” rispetto ad altri bambini, in una famiglia “normale” rispetto ad altre famiglie. Eppure comincia presto a mostrare strane anomalie, come quella di non amare i suoi genitori, o perlomeno di non amarli come ci si aspetta che un bambino ami i suoi genitori, contraddicendo a quella legge di “affetto familiare” che è “il più autosufficiente e inevitabile degli affetti”.
Muovendosi sempre su due piani, quello reale e quello letterario, Ceresa continua a tessere l’immagine della figlia prodiga collocando piccole tessere, come di un puzzle, e traendone spunti innumerevoli per riflettere sulla diversità della simulazione (ammissibile e in qualche modo “naturale” nei bambini) e della dissimulazione (quest’ultima più grave e propria della figlia prodiga), sulla infanzia e sul rapporto fra questa e l’età adulta, sulla insondabilità e complessità e inafferrabilità dell’essere umano. Senonché il puzzle non si concluderà mai e il lettore non conoscerà mai nulla della figlia prodiga, se non le poche, scarne notizie che l’autrice va centellinando. Mai emerge una figura in carne ed ossa, ma sempre abbiamo a che fare con una sagoma evanescente disegnata su uno sfondo nebuloso, personaggio “senza gesti e senza voce”.
La figlia prodiga fu pubblicato la prima volta nel 1967 e vinse il Premio Viareggio Opera Prima. Rimane un libro difficile da definire. E probabilmente anche da leggere, potendo risultare stupefacente e affascinante (Giorgio Manganelli lo definì, appunto, “un libro affascinante, per certi versi unico”) ma anche estremamente irritante.
Se definire La figlia prodiga non è facile e non è stato facile per molti critici (un romanzo? Un saggio? Un racconto?) il Piccolo dizionario non smentisce il suo titolo: di dizionario si tratta, con voci ordinatamente disposti in ordine alfabetico. Da “aborto” a “vita”. Sono una quarantina di voci, più un’appendice con le voci che avevano la dicitura “eliminabili”, che costituiscono un inedito. Infatti il Dizionario, avviato nei primi anni ’70 del secolo scorso non venne mai dato alle stampe e la sua pubblicazione è stata resa possibile dalla raccolta di carte dell’autrice conservate presso l’Archivio svizzero di letteratura di Berna. “Ironia” è la parola-chiave che guida i lemmi di Dizionario. Fin dalla voce “Anima”, che in quanto “alloggiata esclusivamente nella specie umana”, induce Ceresa ad alcune considerazioni, con l’esempio di un cane, che la portano a concludere che “l’anima è un organismo non soltanto invisibile, inodore, asonoro, impalpabile e insipido, ma anche razzista”. Se si è letto La figlia prodiga non stupisce quanto è scritto alla voce “Famiglia”: una “estrema cellula amministrativa mono-, bi- e poligamica dell’organizzazione sociale patriarcale”, “con delega direttamente trasmessa dallo stato all’amministratore unico della cellula ovvero capo-famiglia”. “La famiglia non ubbidisce a nessuna legge naturale e questo spiega perché si disgreghi non appena ne sia allentata la coercizione e pertanto la credibilità”.
Ma andiamo sfogliando qua e là. Alla voce “Femminile”: “… sono femminili tutte le devianze dal maschile”; “sarà femminile pertanto qualsiasi distinzione, innata o appresa, o anche semplicemente risultante da una iniziale preferenziazione che comprensibilmente l’uomo ha attribuito a se stesso, essendo in grado di compiere la prima scelta”. Nell’ambito dello stesso lemma – e poi in quello “Maschile – si osserva “la soppressione grammaticale del femminile in favore del predominio dell’articolo maschile” (oggi qualcosa è cambiato e in grammatica il femminile ha guadagnato terreno, anche se a volte sempre a ricasco del maschile). Alla voce “Figli”: “La vita non ha prezzo. Questa è anche la ragione per cui le donne per figliare non vengono pagate”.
Alla voce “Ovvio”: “Ciò che sembra ovvio non è dunque mai ovvio se non relativamente (…) non è ovvio ciò che sembra ovvio ma soltanto ciò che piace”.
Alla voce “Sessi (guerra dei)”: “La guerra dei sessi (…) deriva dalle differenze biologiche tra i due sessi. Logico sarebbe pensare che, poiché le differenze biologiche regolano naturalmente e senza spargimenti di sangue e possibili rivalità tra i due contraenti la riproduzione della specie, l’unica guerra che non dovrebbe naturalmente esistere sarebbe proprio quella dei sessi… (…) Poiché però indubbiamente la guerra dei sessi esiste essa va pertanto attribuita a leggi innaturali ovvero sovrastrutture indotte da abitudini e norme dettate dalla specie alla specie”.
Alla voce “Vita” una riflessione che sembra dettata dalla attuale situazione mondiale: “L’attività primordiale della vita, ovvero quella del sopravvivere, genera guerre cruente o incruente per il fatto che si trova sempre chi ritiene che la propria sopravvivenza sia più preziosa di quella degli altri”.
Altre voci dell’Appendice meriterebbero di essere citate, da “Aborto” a “Religione”, ma preferisco fermarmi qui, con una considerazione valida in ogni tempo e per ogni conflitto o tensione.