Maddalena Cannito,
Fare spazio alla paternità
Il Mulino, Bologna 2022,
254, € 21,00
“Uno sguardo d’insieme e una riflessione critica sul tema della paternità italiana – e dei modelli di genere e delle politiche ad essa connessi – in un momento cruciale di incontro fra mutamento e tradizione, a cui si accompagna una crescente presenza dei padri nella sfera privata”. Così, nella Introduzione, viene sintetizzato l’oggetto di questo libro, che combina studi di genere e sulla famiglia con quelli sui mutamenti del welfare e del lavoro retribuito.
L’autrice, assegnista di ricerca nel Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, muove il suo studio su tre livelli: macro (del welfare), meso (delle aziende e degli ambienti di lavoro), micro (delle relazioni di genere). Sul primo punto Cannito sottolinea “il ruolo marginale che le politiche pubbliche ritagliano per i padri e, al tempo stesso, l’uso altrettanto marginale che i padri fanno di questo strumento di policy”. Dal 2000, quando l’Italia vara la sua prima legge sui congedi parentali, “le politiche sociali italiane si sono (…) caratterizzate per una sostanziale assenza delle famiglie e dei genitori come soggetti destinatari di specifici interventi”. Altre frasi severe di questo capitolo, una “cornice culturale che non incorpora il diritto alla cura – anche maschile – come centrale”, congedi parentali e di paternità che non spingono “per un effettivo coinvolgimento paterno ritagliando, invece, agli uomini un ruolo secondario, al massimo di aiutanti delle madri”. A ulteriore conferma di ciò, l’Autrice fa notare come, oltre all’evidente sbilanciamento fra congedo obbligatorio di maternità e di paternità, non sia prevista alcuna sanzione né per il padre che non intende usufruire dei giorni di congedo obbligatorio né per le aziende che non li concedano, a differenza del congedo di maternità per la cui astensione è prevista una sanzione penale.
Quanto al punto due, il livello meso, rileva l’osservazione che le politiche di welfare aziendale mirate alla conciliazione (s’intende, sempre coerenti con lo status di organizzazione for profit) hanno una impostazione implicitamente “femminilizzata”. Le richieste delle donne sono sempre ritenute più legittime. Inoltre, dalle numerose interviste sul campo risulta che “promuovere il cambiamento culturale e il coinvolgimento degli uomini nella cura” non appare considerato come una responsabilità delle aziende, ma “un fatto privato, che ogni uomo individualmente decide di intraprendere o meno”. Ma c’è di più. Lo studio mette in risalto che la scelta del congedo parentale “è tollerata nella misura in cui porta un vantaggio o non turba la normale attività produttiva” e che sono frequenti resistenze e pressioni da parte di molte aziende, quando non vero e proprio mobbing e ostruzionismo, che anche nelle aziende family friendly la valutazione del lavoratore passa ancora attraverso il presenzialismo e la permanenza sul posto di lavoro ben oltre l’orario previsto (una pessima abitudine, posso dire, tipicamente italiana), che c’è la propensione a ritenere che se un padre chiede un congedo parentale o di paternità lo fa per ritagliarsi spazi per sé con la scusa dei figli. Infine, l’atteggiamento dei colleghi spesso si sposa con quello aziendale e indulge all’ironia o al sarcasmo individuando nel padre che si assenta per i figli la ridicola figura del “mammo”. Ce n’è abbastanza per sentirsi pessimisti, pensando a quanto scrivevo una ventina e oltre di anni fa sullo stesso argomento, dopo aver partecipato ad alcuni convegni sul tema e aver parlato con alcuni capi del personale di aziende del NordEst italiano. Davvero poche le differenze.
Ma andiamo oltre. A livello “micro”, le numerose interviste dell’autrice hanno messo in luce alcuni punti comuni: la mancanza di modelli ai quali ispirarsi. Ne abbiamo scritto tante volte su questo notiziario: carenza inevitabile – vista la novità storica di certi comportamenti – alla quale molti padri pongono rimedio ispirandosi, più o meno coscientemente, alla propria madre o alla madre dei propri figli. Non è la strada giusta (spesso conduce al “mammo”) ma è difficile costruire un modello nuovo di padre senza alcun riferimento. Al proprio padre è più difficile ispirarsi perché è frequente una presa di distanza dal modello paterno o comunque una consapevolezza che il modello di paternità attuale è ben diverso da quello del proprio genitore.
Ulteriore elemento la mancanza di confronti con altri uomini sul tema della paternità, per cui la paternità appare come “un processo di costruzione solitaria”. Anche questo è un aspetto di cui l’Istituto si è occupato in tempi passati (e l’incontro organizzato a Firenze fra quanti promuovevano incontri fra padri fu una iniziativa anticipatrice). E ancora: la serenità familiare vista da tutti gli intervistati come condizione necessaria per poter esercitare al meglio la genitorialità; l’importanza che i padri attribuiscono all’essere presenti, pur nel solito diverso atteggiamento verso “quantità” e “qualità” del tempo.
Alla fine della lettura il lettore si chiederà inevitabilmente quale sia il giudizio finale della studiosa sul fenomeno dei “nuovi padri”. E’ questa un’espressione che Cannito giudica avvolta da una certa retorica e alla quale, a suo avviso, non corrisponde necessariamente un riscontro concreto nelle pratiche di cura. Dubbio che mi ricorda le affermazioni della sociologa Marina Piazza, la quale – era l’anno 2000 – affermava che “il nuovo padre è ancora una figura estranea, solo in teoria disponibile ma di fatto assente”. In realtà Cannito sembra incerta fra il riconoscimento di una indubbia, percepibile trasformazione e la constatazione di carenze tuttora esistenti; o meglio rileva entrambe queste realtà. Segnala infatti un probabile “mutamento in atto” dagli anni Novanta (io direi anche da prima), un “quadro in evoluzione” (per esempio per quanto attiene ai congedi parentali e di paternità), un “lento ma progressivo avvicinamento dei ruoli di genere interni alla famiglia”. Riconosce ai padri intervistati “l’elevata competenza nel soddisfare e la puntuale conoscenza dei bisogni dei propri figli” e “la creazione di un rapporto stretto con i figli”, a volte non mediato da quello della madre. E tuttavia non può non rilevare “lo scollamento che in alcuni casi si verifica fra pratiche discorsive e pratiche concrete di cura messe in atto” (il gap fra il dire e il fare a cui alludeva Marina Piazza) e, in definitiva, parla di “rivoluzione di genere incompiuta e, addirittura in stallo”.
Ho dedicato uno spazio più ampio del solito a questo libro, ma era giusto perché da un po’ di tempo mancavano testi che facessero il punto sul tema della paternità in modo specialistico e non divulgativo. Questo di Cannito, denso di dati, riferimenti bibliografici, citazioni di studi e ricerche ma ricco anche per il sostrato empirico delle interviste, sarà un prezioso strumento per gli addetti ai lavori, ricercatori di ogni disciplina avvezzi al linguaggio statistico Non sarà una lettura distensiva per il lettore ordinario, che rischia di perdersi tra cifre, grafici e tabelle.