di Maurizio Quilici *
Il mio intervento in un convegno sulla violenza contro le donne e le quasi contemporanee dichiarazioni del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, mi spingono a tornare su un tema – quello del patriarcato – che ho già affrontato su ISP notizie. Il ministro, intervenendo alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, ha sostenuto che il patriarcato è scomparso nel 1975, con la legge 19 maggio di quell’anno, la n. 151 che riforma il Diritto di famiglia, e che attaccare il patriarcato è un atto “ideologico”. Ha citato anche gli immigrati clandestini come corresponsabili dei fatti di violenza sessuale sulle donne (sorvolo su quest’ultimo punto, non per negare che anche gli immigrati delinquano, ma perché non sono certo loro la causa prima del fenomeno. Nel 2023 le donne uccise da un uomo sono state per il 94,3% vittime di un italiano. Fonte ISTAT).
In questi giorni si parla molto, come causa principale della violenza contro le donne, di mentalità patriarcale, di “patriarcato”. Ormai tutto il male è addebitato al “patriarcato” e non passa giorno che ad esso non si muovano nuove accuse. Giorni addietro la ministra per la famiglia, Eugenia Roccella, ha affermato che anche pratiche come il cosiddetto utero in affitto sono da considerare “nuove forme di patriarcato”.
Forse, però, dovremmo interrogarci, prima di esprimerci, e fare tutti un po’ di chiarezza su questo termine, che ha più di un significato:
1) etimologico e semantico, che rinvia inevitabilmente alla figura del padre, dell’uomo in quanto padre. Come conferma la maggior parte dei dizionari della lingua italiana: “Organizzazione familiare e sociale fondata sull’autorità assoluta del padre” (Gabrielli); “Organizzazione della famiglia basata sull’autorità paterna” (Zingarelli). Una estensione si trova invece nel Dizionario Treccani: “Controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo”.
2) giuridico, legato alle leggi e ai codici (a quello si riferiva Valditara quando citava la legge del 1975 sulla riforma del Diritto di famiglia).
3) storico, con una evoluzione e poi una involuzione del termine. In questo senso esso ha conosciuto, nella storia del nostro Paese, epoche in cui si è espresso con una forza inimmaginabile (il paterfamilias degli antichi Romani, con il suo ius vitae et necis, diritto di vita e di morte), ma nel corso dei secoli si è fortunatamente molto stemperato e indebolito. E’ questo un punto che merita particolare attenzione. Il patriarcato ha perso gran parte della sua virulenza. Io parlerei oggi di patriarcato non come una connotazione generale e diffusa del nostro Paese ma come una forma residuale di esso, sintomo non tanto di potere quanto di debolezza, di fragilità emotiva, di immaturità (mi dispiace usare lo stesso termine usato dal ministro): proprio la debolezza di chi vede attorno a sé una società che è cambiata e non consente più certe forme di dominio dell’uomo sulla donna. Sono i residui di una cultura ancestrale, retrograda, primitiva, colpi di coda di un patriarcato in via di estinzione. L’ultimo colpo al patriarcato lo ha dato il ’68, provocando una “crisi irreversibile”, come la chiama lo psicoanalista Massimo Recalcati, il quale vede nel maschilismo di oggi un “maschilismo residuale, post-patriarcale”. (si veda anche il recentissimo studio dell’antropologa Sarah Blaffer Hrdy recensito in questo numero, nel quale l’autrice parla del “vacillare del patriarcato”).
4) sociale, che si rifà non alle leggi o alla storia, ma ai contenuti sottesi, ai contenuti ideologici, ossia di idee e princìpi. Per intenderci, come diciamo che non esiste più, né potrebbe esistere, un fascismo come quello del ventennio mussoliniano, ma può esistere in ogni tempo un fascismo fatto degli stessi princìpi ideologici, valori di riferimento, simboli e credenze, un neo-fascismo. In questo senso lo storico e filologo Luciano Canfora può scrivere: “Il fascismo non è mai morto”.
A mio avviso, dovremmo parlare di “patriarcato” e “patriarcale” solo in quest’ultimo significato, ritenendo che certi stereotipi di genere, certi “valori” di superiorità e dominio di un genere sull’altro che erano del patriarcato siano filtrati nella storia come residui, scorie, dando vita a un fenomeno che oggi preferirei chiamare “maschilismo”, perché ha a che vedere con il maschio e non più con il padre, anche se in esso si mescolano elementi del vecchio patriarcato.
Il patriarcato, se non è del tutto morto, è agonizzante, sopravvive in sacche limitate di sottocultura o di rapporti caratterialmente disturbati. Come si fa a parlare di “patriarcato” in un’epoca in cui i “nuovi padri” hanno attuato da più di mezzo secolo una vera e propria “rivoluzione paterna”, scoprendo nei confronti dei figli l’accudimento, l’empatia, la tenerezza e la dolcezza con qualche eccesso che va persino in direzione opposta, vedi il fenomeno del “mammo”? Quello – purtroppo – che è vivo e vegeto è il maschilismo, ossia il potere del maschio non in quanto padre ma, appunto, in quanto maschio. Non è un gioco di parole. Maschilismo è lo sfruttamento del corpo della donna a fini commerciali, è il doppio registro nei rapporti di lavoro, è indurre la donna a preferire il suo ruolo domestico di madre e donna di casa piuttosto che guadagnarsi con il lavoro la propria, importantissima, autonomia economica. Maschilismo è ritenere la donna inferiore e comportarsi di conseguenza. Maschilismo è persino il linguaggio che, inconsapevoli, usiamo: una lingua che, come si sa, nonostante i molti aggiustamenti consacrati dall’uso e accolti dalla Crusca, nasce decisamente al maschile.
Non so esattamente a quale di queste quattro accezioni si riferisse il ministro Valditara quando ha fatto le sue infelici dichiarazioni (infelici comunque, date le circostanze), Ma visto che ha parlato di “ideologia” devo pensare che alludesse all’ultima. E allora mi dispiace che la mia opinione possa sembrare un assist alle parole di un ministro del quale non ho condiviso quasi nulla da quando si è insediato, però penso anch’io che il patriarcato, almeno quel patriarcato, sia morto o morente, sopravviva solo in un senso ideologico e che bene sarebbe chiamarlo in altro modo.
A distanza di una settimana dallo svolgimento del convegno, ho letto con piacere sul venerdì di Repubblica (29 novembre 2024) la risposta di Michele Serra ad un lettore che trovava improprio parlare oggi di patriarcato e faceva l’esempio – quello sì calzante – di Saman Abbas, la ragazza pachistana di Novellara, nel Reggiano, uccisa dai parenti perché non voleva sposare l’uomo scelto dal padre. Ebbene, Serra – che notoriamente ha idee politiche altre rispetto al ministro – risponde affermando di ritenere il termine “maschilismo” più efficace e meno specifico di “patriarcato”, che gli sembra “parola di altri secoli e di altri assetti familiari”.
Si discosta in senso stretto dal tema che ho preso in esame, tuttavia lasciate che accenni ai possibili rimedi che tutti noi – uomini e donne – dovremmo ricercare e attuare per sconfiggere la violenza, sulla donna e non solo.
Sono sempre stato convintissimo che si tratti di un problema di cultura, di educazione. Valditara ha detto: “E’ anche un problema culturale”. La Presidente del Consiglio Meloni ha ribadito: “Credo che ci siano anche ragioni culturali”. No! E’ soprattutto un problema culturale: E come tale, andrebbe affrontato a cominciare dalle aule scolastiche, fin dai primissimi anni, quelli dell’asilo. Con la formazione degli insegnanti, con l’intervento degli psicologi nelle aule. Insegnando a bambini e ragazzi (che saranno poi genitori e avvieranno un circolo virtuoso con i propri figli) il rispetto per la donna, certo, ma soprattutto il rispetto per l’altro. Per la persona di qualunque sesso, colore, religione, credo politico… Insegnando a cancellare gli stereotipi di ruolo che ancora pesano sul maschile e sul femminile.
Oggi che la Costituzione italiana, con l’art. 9, ha preso in considerazione anche gli animali (“esseri senzienti” per il Trattato di Lisbona del 2009) vorrei addirittura allargare il campo: rispetto per ogni essere vivente! Da questo punto di vista la politica ha un grande compito da affrontare e deve trovare molte risorse da utilizzare. Ho visto finora uno sforzo che si esprime con l’introduzione di nuove figure di reato, con l’inasprimento delle pene, con tempi più rapidi ed efficaci per proteggere le potenziali vittime… Tutto bene. Ma non vedo un pari sforzo nel campo dell’educazione. O si pensa che la generica reintroduzione della Educazione Civica possa davvero educare i futuri uomini? Punire è giusto, prevenire è fondamentale. Solo così, a mio avviso, potremo educare le persone di domani a rispettare gli altri. Un rispetto da interiorizzare come sacro, facendo proprie le parole di Gino Cecchettin, il padre di Giulia: “l’odio non porta a nulla, anzi: annichilisce noi stessi”.
- Presidente dell’I.S.P.