di Cristiano Camera *
Se ne stanno stesi sul divano, col telefonino in mano o con il tablet, a ciattare e, se li interrompi, rispondono al massimo con dei monosillabi. Sono con se stessi, ciascuno per conto proprio, anziché con gli altri. Preferiscono inviarti un sms anche se ti trovi nella stanza affianco, invece di venirti a parlare di persona. Prendo spunto da Gli sdraiati, il libro autobiografico di Michele Serra che non ho ancora letto e che mi è stato segnalato, per scrivere a mia volta qualche nota autobiografica sul rapporto fra padri e figli adolescenti. Ma prima di iniziare vorrei fare un avvertimento o una premessa per così dire “propedeutica” al racconto della mia esperienza.
Come dice Serra, è la rarefazione – sempre più marcata a causa delle nuove tecnologie – dei rapporti interpersonali alla base del dialogo “inesistente” fra generazioni diverse. Ma la mancanza di comunicazione fra padri e figli non è dovuta al silenzio degli uni o degli altri, come sostiene lo psicoanalista Massimo Recalcati, o al fatto che i padri oggigiorno non solo non sono più autorevoli ma addirittura inesistenti e che la figura paterna è “evaporata”, ma al problema che, nel comunicare, ciascuno si serve di un “canale” su cui l’altro non è sintonizzato. A causa dell’età e della distanza generazionale e culturale oppure, a volte, per un’ottusa presa di posizione riguardo il ruolo da incarnare rigidamente e sintetizzabile nella distinzione netta: io sono il padre e tu sei il figlio. Già il rimarcare questa differenza, delle figure e delle funzioni, è una distanza notevole – da accettare o da non prendere in considerazione – che sarebbe tale anche se non esistesse quella inevitabilmente generazionale. A meno che, per silenzio, non si intenda la parola pronunciata ma inascoltata (come se, dunque, non fosse mai stata detta), i canali nei quali manca la comunicazione sono dovuti anzitutto a un’assenza di elasticità che impedisce a genitori e figli di incontrarsi su di un terreno comune, nella condivisone di un qualsivoglia argomento, problema o interesse.
Ciò premesso e non potendo raccontare del mio rapporto di papà con i miei figli, che ancora sono bambini, posso dire della mia relazione di figlio adolescente col mio genitore. Posso inoltre parlare del mio breve e fallimentare ruolo di “padre” del mio fratello minore, a cui mi sono adattato, naturalmente e senza essere chiamato da alcuno a farlo, subito dopo la morte prematura di mio padre. Queste due brevi storie parlano appunto di dialogo e di canali, nel primo caso di un successo, nel secondo, come preannunciato, di un insuccesso.
Con mio padre non ho mai avuto veri scontri (forse non abbiamo avuto tempo perché ce ne capitassero, dato che l’ho perso quando avevo appena diciassette anni) ed eravamo abituati a parlare di tutto. Era un tipo intuitivo e molto comunicativo, che lasciava spesso intendere molto di più di ciò che affermava e che aveva l’abitudine di approfondire ogni questione riguardasse i figli. Era un uomo autorevole ed io e mio fratello ci fidavamo ciecamente di lui, partendo dall’assunto, ai nostri occhi incontestabile e dimostrato – così ci pareva – nelle varie difficoltà incontrate nella vita, che “ci voleva bene”. Partire dal “bene”, dal presupposto che tutto è fatto per il “bene” dei figli, come ci avevano insegnato in famiglia, significava anche lasciare poco spazio alle discussioni. Col tempo ho scoperto che il termine “bene” non ha un significato univoco, e che per gli uni può essere una cosa e per gli altri un’altra. Ma il canale, il terreno comune sul quale ci incontravamo allora era questa parola magica: “il bene”.
Con mio fratello il canale non poteva più essere il bene: che poteva saperne, per lui, del bene, un fratello maggiore di soli due anni? Eppure, così come avevo fatto precedentemente e come si usa fare con un fratello più piccolo, avevo sempre cercato di proteggerlo nella situazioni nelle quali si era trovato in difficoltà: ricordo perfettamente un litigio con dei ragazzi, in vacanza, durante il quale presi le sue difese e un’altra volta, da bambini, quando lo feci dormire assieme a me nel mio letto, dopo che lui aveva bagnato il suo. Ma questa volta le cose erano cambiate e la mia pretesa, spontanea ma ingiustificata, era quella di sostituire nostro padre. Non ne avevo né l’autorevolezza e né la credibilità, di certo nessun diritto. Eravamo vicini d’età, mio fratello e io, ma ciascuno di noi parlava una propria lingua: lui la sua e io l’imitazione di quella di mio padre. Forse non potevo neanche essere da esempio per lui ovvero non potevo essere così esemplare da diventare una figura di riferimento. E così, mio fratello, ad appena quindici anni, prese la sua strada e io la mia, molto più sicura della sua e prestampata da mio padre. Un tragitto fatto di responsabilità verso la mia coscienza e nei confronti della sua memoria. Una strada che ho percorso per intero fino a oggi ma che, se non avessi avuto sempre presente il ricordo di mio padre e la sua eredità culturale, probabilmente avrebbe preso direzioni differenti. Un canale e un dialogo che sono continuati fino a oggi e che cerco in tutti i modi di lasciare aperti, anche nel rapporto con i miei figli.
* Giornalista. Roma