di Livia Cacialli *
L’autrice si è recentemente laureata in Psicologia all’Università di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La relazione incarcerata: rimanere padri dentro e oltre il carcere. Un tema poco trattato, ma di grande rilevanza umana e sociale, che meritava di trovare spazio nel nostro notiziario, tantopiù che ha coinciso con la ricerca “Paternità senza sbarre” che l’I.S.P. sta conducendo in alcune carceri italiane. Lo scritto che segue – per il quale ringraziamo la Dott.ssa Cacialli – sintetizza il contenuto della tesi.
Difficile parlare di paternità in psicologia, inusuale parlare di paternità detenuta, realtà “sconosciuta” e quindi troppo spesso “inesistente”. Eppure i padri detenuti esistono e, con loro, esistono le loro storie, fatte di parole, di relazioni, di sguardi mancati e di figli.
La ricerca svolta ha avuto la pretesa di mettere finalmente in luce i fattori di protezione e di rischio legati alla paternità vissuta in una condizione detentiva. L’ ipotesi di partenza si basa sulla convinzione che l’elemento fondamentale che permette ad un padre di rimanere padre anche all’interno dell’istituzione carceraria sia l’interiorizzazione di una forte identità paterna, frutto della propria storia individuale e familiare. La ricerca analizza quindi l’istituzione carceraria prendendo in esame i due temi ritenuti fortemente incidenti sulla relazione genitoriale e sulla responsabilità paterna all’ interno del carcere: il processo di infantilizzazione ed il processo di spoliazione dell’istituzione sul detenuto. Per infantilizzazione si intende il processo per cui, nel carcere, perdendo il proprio ruolo paterno, la propria responsabilità personale e genitoriale, il padre torna ad essere bambino, si riproietta in un sistema educativo in cui sono le regole a comandare ed in cui l’individualità è bandita. Il processo di spoliazione consiste invece, letteralmente, nell’ operazione da parte dell’istituzione carceraria di spogliare il detenuto della propria individualità, personalità, dei propri beni materiali.
Conoscendo e riconoscendo l’istituzione carceraria e le responsabilità ad essa legate, è fondamentale definire ed agire sui fattori di rischio e di protezione di una genitorialità detenuta. La ricerca analizza i fattori di rischio biunivocamente: da un lato il processo di idealizzazione che un genitore attua nei confronti del proprio figlio creandosi un’idea ed un’immagine di quest’ultimo che non corrisponde alla realtà, e dall’ altro la menzogna attuata e perpetuata rispetto alla realtà carceraria a cui consegue la perdita del riconoscimento, da parte del padre, della propria autenticità e quindi il mancato posizionamento nella sua storia come genitore.
L’analisi dei fattori di protezione occupa una ampia parte della ricerca che li individua ed analizza come i fattori di maggiore interesse incisivo. Tale individuazione avviene da un lato attraverso la definizione di una identità genitoriale, affinchè il ruolo di padre possa essere presente anche di fronte all’assenza fisica di quest’ultimo, dall’altro attraverso la necessaria consapevolezza che l’identità paterna si costruisca nella relazione e non esclusivamente nell’azione biologica. La definizione ed azione di tali fattori comporta, nella ricerca, un’ analisi fattiva del campo di possibilità di un padre detenuto. Tra le tante, la ricerca individua il ruolo della relazione di coppia come necessario elemento di supporto ed accompagnamento nel processo virtuoso di una relazione padre figlio all’interno del carcere. La madre è qui individuata come ponte tra il padre ed il figlio e, attraverso la narrazione della quotidianità familiare, creatrice di quelle basi necessarie per la definizione di un’ alleanza co-genitoriale che permetta al figlio di sentirsi parte di un progetto comune.
Ulteriore elemento di supporto di una paternità detenuta lo ritroviamo nel processo di definizione e creazione dell’identità paterna di un uomo detenuto, non più un’entità estranea al soggetto in questione, bensì una sua propria elaborazione del ruolo di figlio, quale sia stata la figura ed il ruolo di padre che l’individuo ha vissuto e fatti propri. Alla fase analitica la ricerca accompagna ed affianca una fase sperimentale, attraverso la conoscenza e l’analisi dettagliata di vissuti di padri detenuti in misura alternativa. Le narrazioni, raccolte attraverso interviste con domande strutturate, sono qui utilizzate come strumento metodologico, valutandole, all’interno di una ricerca, come utile e necessario per entrambe le parti attive. Da un lato per fornire la possibilità al soggetto intervistato di essere protagonista della propria storia, dall’altro per dare all’intervistatore la possibilità di raccogliere un ampio ventaglio d’informazioni. Il gruppo in questione è composto da 10 padri che, al momento del’intervista, si trovavano in misure alternative o condizione di libertà, che avevano vissuto l’esperienza della detenzione e con un età media di 55 anni. In sintesi la ricerca assume come elementi fondamentali tre temi:
-la relazione tra il detenuto ed il proprio padre, gli aspetti contrastanti e gli aspetti che ritornano nella relazione con il proprio figlio;
-la paternità detenuta. La responsabilità dell’istituzione nella rottura di alcuni spazi relazionali e la possibile ricostruzione di quest’ultimi al termine dell’ esperienza detentiva;
-il ruolo della madre/compagna come elemento di supporto della relazione tra il padre in condizione detentiva ed il bambino.
L’analisi della relazione degli intervistati con il proprio padre sottolinea un elemento comune: la mancanza di un ruolo affettivo, di presenza, di comprensione, vissuto all’interno della propria storia di figlio. Nella relazione successiva, instaurata con il proprio figlio, tutti gli intervistati riportano una definizione di sé distante, se non opposta, a quella vissuta, con particolare attenzione all’ambito dell’affettività e della comprensione, definendo la sfera emotiva come l’ambito principale della relazione con il proprio figlio.
Rispetto alla paternità detenuta il campione di intervistati definisce il carcere come elemento minatorio della relazione genitoriale soprattutto a causa di una sua propria definizione di luoghi, tempi, contatti fisici e senso di responsabilità imprigionati. La responsabilità che implica un controllo, il senso del possesso e la presenza sono alcuni degli elementi minati dal carcere nella relazione padre-figlio. La sezione sperimentale della ricerca tende anche a giungere ad una conclusione: tanto quanto il carcere come istituzione mina il rapporto genitoriale padre detenuto- figlio, allo stesso modo esso non riesce a minare l’identità paterna, l’essere più profondo dell’individuo che lo fa essere e sentire padre.
Il terzo ed ultimo tema, emerso dalla sintesi delle interviste, relativo al ruolo della moglie/compagna, è necessario per comprendere come quest’ultima divenga una fonte di energia per il padre detenuto necessaria al mantenimento dei fili relazionali con il figlio, un ponte per la condivisione della responsabilità genitoriale, di cui il soggetto in questione si vede privato.
Il progetto di ricerca, così strutturato, si propone non solo di mettere in luce ed analizzare con precisione quelle che sono le specifiche di una relazione genitoriale padre detenuto- figlio, ma definisce le possibilità concrete di superare i limiti presenti nel carcere per lo sviluppo di tale relazione e le sue forme di disagio, attraverso delle modalità alternative di vivere spazi e tempi dell’incontro con i propri figli in carcere.
* Dottore in psicologia