di Maurizio Quilici*
Una ampia inchiesta dell’Espresso su quanti perdono il lavoro in Italia (“Oggi vado a non lavorare”, L’Espresso, 26 maggio 2011, p. 76) comincia con una lunga serie di suicidi. C’è chi si è lanciato in mare con la propria vettura, dopo avere ben allacciato la cintura di sicurezza (e ha lasciato scritto “E’ meglio vivere poco ma bene, che a lungo e male”), chi si è gettato dal treno con il quale tornava a casa, in Puglia, dopo che al Nord aveva perso il posto faticosamente ottenuto in un call- center, e chi si è dato fuoco stringendo in mano la lettera di licenziamento.
Casi-limite, certo, pochi, per fortuna, rispetto alle 460 persone che in media ogni giorno, dall’aprile 2007, hanno perso il lavoro. Pochi, rispetto ai due milioni di italiani che con scarse possibilità cercano un nuovo impiego, ma sintomatici di un evento altamente drammatico, tale da mettere in crisi la propria identità. Di uomo, di maschio, in qualche caso di “capofamiglia” (termine obsoleto ed equivoco, pare). Ma anche di padre.
Ecco: la perdita del posto di lavoro innesca profonde ripercussioni psicologiche, alcune delle quali abbastanza intuibili. Come il rapporto con la propria moglie o compagna. Se questa ha un’occupazione, assumerà inevitabilmente una posizione di preminenza, o vissuto come tale, che potrà turbare l’equilibrio dei ruoli in famiglia; se non lavora, la gravità della situazione accrescerà l’angoscia e i sensi di colpa dell’uomo, privato della ancestrale funzione di sostegno economico della famiglia o, come oggi si ama dire, di breadwinner, ossia, letteralmente, “procacciatore di pane”. Un termine, quest’ultimo, in uso da anni nel mondo anglosassone (è già nel Dizionario Hazon del 1961: “chi guadagna il pane per tutta la famiglia”) ma che oggi trova specifici riferimenti al padre, come nel caso del Picchi, che riporta testualmente: usually the father is the main breadwinner, di solito il padre è il principale sostegno della famiglia (Fernando Picchi, Il grande inglese 2008, Hoepli 2007).
Sappiamo che oggi il padre ha già molte voci in passivo: ha perso da tempo immemorabile quella funzione di trasmissione del sapere (strumenti e tecniche) che era della società pre-industriale; e se prima – come ricorda Luigi Zoja – “la vita era un racconto patricentrico” (Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri 2000, p. 185) successivamente ebbe inizio quella che Mitscherlich definisce “l’invisibilità del padre” (già nel famoso Verso una società senza padre, Feltrinelli 1977, p. 176).
Il padre incontra sempre maggiori difficoltà nell’insegnamento di valori e princìpi, essendo spesso la famiglia surclassata da altre agenzie culturali tra le quali primeggiano TV e Internet, con i vari social network (l’altra grande agenzia, la scuola, non naviga in migliori acque). Si trova abbondantemente spiazzato nello svolgere il compito normativo che gli compete storicamente; questo accade un po’ per sua scelta, volendosi rifiutare ogni modello autoritario, e un po’ per l’onda “buonista” del ruolo paterno a cui lo spinge l’odierna società. Così, non sa più dire “no”, porre regole e limiti, affrontare il faticoso contrasto generazionale, sostenere le “prove” che il figlio – specie se adolescente – gli impone. Si muove confuso, attratto dal facile escamotage del “padre amico”.
La distanza generazionale delle conoscenze tecniche – si pensi a quelle informatiche – si è terribilmente accorciato, anzi spesso si è capovolto. E se un tempo l’intervento di papà poteva essere risolutivo per riparare la bicicletta o insegnare il montaggio del “Meccano”, oggi accade che il genitore debba chiedere aiuto al figlio che torna dalla scuola elementare per programmare il lettore DVD o scaricare un programma sul telefonino.
Persa tutta una serie di prerogative, al padre era rimasta tuttavia una chance, sia pure discutibile: il successo nel lavoro. L’identità del padre finiva col dipendere – identificandovisi – dal successo professionale e dal potere economico. Per citare ancora Zoja, “il figlio vuole un padre vincente, il padre vuole vincere la competizione universale, quella economica. I due atteggiamenti sono complementari e si incoraggiano a vicenda (Luigi Zoja, Op. cit., p. 279). E ancora: “Il padre maestro di valori non perdeva quasi mai il rispetto dei figli: rispondeva solo a Dio e solo Dio poteva ritirarglielo. Quello attuale risponde alla società e ai suoi criteri di misura, che anche gli adolescenti sanno applicare”. (Ivi, p. 280).
Che accade, dunque, quando un padre perde il lavoro e precipita in una condizione economica difficile per sé e per la sua famiglia? L’umiliazione, la preoccupazione, il senso di colpa è forte nei confronti della partner (“Sa cosa mi fa più male?”, confida un disoccupato nell’inchiesta giornalistica dell’Espresso, “Dovermi confrontare con mia moglie”). Ma può esserlo ancora di più nei confronti dei figli, la cui fragilità e dipendenza richiama in lui l’atavico “dovere” del procacciatore di cibo, in una sorta di regressione storica. La sua identità – in una società che nel successo, anche economico, identifica gran parte del valore di una persona – ne viene scossa e turbata. E facilmente sopraggiunge la depressione, il peggioramento dei rapporti familiari, a volte – con apparente paradosso – una presa di distanza dai figli Si dirà che oggi anche le donne assolvono spesso la funzione di breadwinner. Tuttavia, non credo che sia un caso se i suicidi citati dall’Espresso erano tutti al maschile. Una spiegazione si può trovare nelle parole di una madre trentacinquenne intervistata dal settimanale: “Ma qui [al Sud, ndr] le donne sono tra le più fortunate. Possono contare su altre identità, come quella di madre e donna di casa”.
E l’uomo? La società non gli riconosce (non ancora, almeno) una dignitosa “riconversione” tra le mura domestiche. Non gli resta che il senso di colpa, l’amarezza, la disperazione, la perdita di identità. Qualche volta il suicidio.
* presidente. ISP Roma