di Elisabetta Ruspini*
Nell’ospitare con molto piacere il contributo chiesto a Elisabetta Ruspini, apprezzata autrice di numerosi studi di genere e lettrice attenta del nostro notiziario, desidero fare alcune osservazioni. Condivido molte affermazioni di Ruspini (per esempio quella del simbolismo violento che caratterizza la socializzazione del maschio). Tuttavia, la violenza non ha un volto solo, quello maschile. Forme di violenza al femminile (come il bullismo delle ragazze, o forme “sommerse” ma preoccupanti di violenza all’infanzia) si vanno diffondendo, o rivelando più estese di quello che si pensava. Mi sembra giusto ricordarlo. E poi, non stanno cambiando solo le donne, cambiano gli uomini.
Anche in merito alle frequenti tragedie familiari in occasione di separazione e affidamento dei figli, a me sembra di potervi leggere – come ho scritto altre volte – piuttosto il segno di un disorientamento, di una fragilità che è ormai di genere, di incapacità a riposizionarsi con se stessi e con la vita che non il gesto di chi vuole “avere il controllo della situazione” o ripristinare “un potere che si sente scalzato”. Insomma, un gesto di disperazione e di resa piuttosto che di affermazione e di rivincita. (M.Q.)
La violenza in ambito familiare (spesso definita “domestica”) è uno scottante problema sociale. Con questo termine ci si riferisce generalmente ad un tipo di violenza perpetrata da una persona intima della vittima (spesso all’interno del rapporto di coppia) e che può assumere varie forme: dalla violenza sessuale (stupro, tentato stupro, molestie) a quella fisica (schiaffi, pugni, calci, morsi, ferite, omicidi); dalla violenza psicologica e verbale (minacce, ricatti, denigrazioni, svalutazioni) a quella economica (privazione di risorse monetarie; negazione dell’accesso alle risorse economiche della famiglia, anche se prodotte dalla donna).
Alcuni dati. Il Rapporto 2005 Eures-Ansa sull’omicidio in ambiente domestico e nella sfera affettiva (che si riferisce al biennio 2003-2004) mostra come il numero delle vittime annue si collochi tra 180 e 220, con una concentrazione maggiore al Nord (seguito da Sud e Centro). Le principali vittime degli omicidi domestici sono la/il coniuge (27,7%); molto elevato è il numero di ex coniugi/ex partner (8,9%), principalmente vittime degli omicidi a carattere “passionale”. Quando la vittima è il coniuge, si tratta prevalentemente di donne (36% rispetto al 15,9% degli uomini).
Per l’interpretazione di tali evidenze, la dimensione di genere pare assai rilevante. Il sessofemminile risulta certamente il più colpito: sono infatti le donne a presentare indici di rischio nettamente superiori a quelli degli uomini in tutte le fasce di età. E sono soprattutto uomini gli autori di omicidi in famiglia (144, pari all’80,4%). Come è stato più volte sottolineato, le connessioni tra maschilità e violenza (non solo domestica) sono molte e trasversali: da un lato, gli uomini sono i maggiori responsabili delle violenze e sono spesso conosciuti dalle vittime (si tratta di partner, parenti e amici). Dall’altro lato, si tratta di uomini che appartengono ad ogni livello di istruzione e classe sociale e solo in misura molto esigua si può parlare di persone con disagi psicologici.
Le ragioni alla base di tali tendenze sono diverse. La violenza domestica (ma non solo) è un problema che riguarda la costruzione sociale delle identità di genere, le relazioni di genere e la loro evoluzione nel tempo: ad esempio, la violenza verso le donne affonda le proprie radici nelle relazioni sociali patriarcali, basate su un sistema di dominio maschile e di subordinazione femminile. La violenza è in effetti un fenomeno strettamente legato all’idea di anti-femminilità, una manifestazione diretta della volontà di dominio di un sesso, quello maschile, nei confronti dell’altro, percepito come “inferiore”, “diverso” e “pericoloso”. Essa non è frutto di una patologia o di un’anormalità, ma legata, al contrario, alla quotidianità e alla “normalità” dei rapporti sociali.
Ciò porta alla luce la crucialità delle rappresentazioni sociali dei comportamenti femminili e maschili, il giudizio su di essi, i confini entro i quali tali comportamenti devono attenersi. Ad esempio, gli stereotipi di genere vogliono che l’uomo sia mosso da una sessualità prorompente, da incontenibili ed innati istinti erotici che talora, quando i freni inibitori vengono meno, si possono scatenare dando luogo ad episodi di violenza sessuale. In parallelo, alle donna è affidato il ruolo di “vittima”: molte donne, dopo secoli di pressioni e condizionamenti culturali, continuano a non riconoscere in uno schiaffo una forma di violenza, bensì ad intravedervi una dimostrazione, forse un po’ eccessiva, di affetto. Inoltre, è ancora forte lo stereotipo della donna “debole”, al pari di altri soggetti deboli, come i bambini e le bambine i quali, non a caso, sono anch’essi bersaglio delle diverse forme di violenza maschile.
Gli uomini sono effettivamente al centro di un simbolismo violento che attraversa tutto il processo di socializzazione: pensiamo, ad esempio, ai casi in cui i genitori rifiutano le dimostrazioni di affetto fisico dei figli maschi negando loro la possibilità di esprimere sentimenti di tenerezza; al rigetto dei sentimenti di paura o al timore di mostrarsi troppo “sensibili” (perché ciò rappresenta il “non maschile”); alla connessione tra maschilità, forza e potenza; all’addestramento militare. Come appena visto, è infatti nello scenario del pensare e dell’agire “normale” del genere maschile che si ritrovano le condizioni potenziali che possono produrre esiti relazionali violenti. Le relazioni tra generi stanno però velocemente mutando. Le donne studiano di più, lavorano di più, si sposano più tardi o non si sposano affatto, fanno meno figli, ricercano l’autonomia sessuale e una sessualità distaccata dai vincoli tradizionali che la legavano alle necessità riproduttive, accettano sempre meno relazioni “tradizionali” basate sul principio della “naturale” superiorità maschile e inferiorità femminile; interrompono con determinazione relazioni non più soddisfacenti.
Una delle possibili reazioni maschili al cambiamento sociale – e, in particolare, al profondo mutamento delle identità femminili – va spesso nella direzione di un “attaccamento a modelli di stereotipata virilità”, cioè dell’esasperazione del modello di maschilità che ripudia le caratteristiche femminili. L’abitudine a considerarsi “naturali” titolari di potere (in special modo rispetto alle donne) a causa della presunta “superiorità” del genere maschile, può innescare reazioni violente se tale convinzione viene messa in discussione (ad esempio a seguito di eventi quali un tradimento, una separazione o un divorzio). Tali reazioni hanno come probabile fine la sensazione di “avere il controllo della situazione” e il ripristinare e rilegittimare un potere che si sente scalzato. Possiamo prevenire la violenza domestica? Certamente sì. È innanzitutto, cruciale monitorare con costanza l’evoluzione nel tempo di tale fenomeno: in Italia, solo da pochi anni il tema della violenza in ambito familiare e sui minori è diventato oggetto di attenzione all’interno della ricerca sociale. Sia la Conferenza del Cairo su Popolazione e Sviluppo del 1994 che la Conferenza Mondiale sulle Donne (Pechino, 1995) hanno auspicato campagne di educazione alla non-violenza – condotte con la partecipazione dei genitori – nell’ambito delle quali si enfatizzino, tra l’altro, le responsabilità maschili. In questo ambito, ricordiamo l’Appello degli uomini contro la violenza lanciato nel web, che reca le firme di uomini provenienti da diversi percorsi politici, culturali, religiosi, sessuali.
Infine, sul versante dei processi di socializzazione, è fondamentale comunicare a bambini, ragazzi, uomini, che è possibile usare uno spettro più ampio delle proprie capacità emozionali e comunicative: mostrare, cioè, che esiste una varietà di modi di essere uomo, permettendo loro di fare esperienza diretta della propria specifica diversità.
* Professore associato di Sociologia. Università di Milano-Bicocca