di Maurizio Quilici *
“Mi compri una rosa…?”. La voce era quella di una bambina, calda e tranquilla. Alzai gli occhi dal piatto – mi ero preso la solita pausa pranzo dal lavoro di giornalista – e la guardai: era una piccola zingara, doveva avere undici o dodici anni, anche se il suo corpo ne dimostrava di più. Aveva un viso bellissimo, la pelle liscia di un colore ambrato, due occhi grandi e dolci, capelli lisci, lunghissimi, scuri. L’abito grazioso, a colori vivaci, ne faceva una sorta di bambola. Cominciò così la nostra “amicizia”. Mi disse di chiamarsi Monica, di avere dodici anni. Io le risposi che avevo una figlia poco più grande. “Come si chiama?” mi chiese? “Elisa”. Era il 1987. Da quel giorno cominciarono incontri frequenti, a pranzo o a cena. Entrava e appena mi vedeva mi sorrideva. Veniva dritto verso di me, trascurando il suo “lavoro”. “Ciao”. “Ciao”, rispondevo. Posava il mazzo di rose sul tavolo e mi chiedeva: “Mi parli di tua figlia?”. Per un paio di volte ancora pronunciò la solita frase, “Mi compri una rosa”? Anzi: “Mi compri una rrosa…?”. Infatti arrotava la “r” e la raddoppiava, in un modo buffo. Sempre con lo stesso tono di voce basso e caldo. Poi smise. Io le dissi: “Non prendo ogni volta una rosa, ogni tanto però ti do i soldi”. Ma l’accordo durò poco. E presto lei rifiutò il denaro. Non voleva che le comprassi un fiore e non voleva che le dessi soldi. Voleva parlare, voleva ascoltarmi. Io non insistetti. Quando arrivava smettevo di mangiare e le raccontavo di Elisa, la scuola, quello che avevamo fatto insieme… Cercavo di evitare fatti, descrizioni, che potessero far sentire l’abisso di vita che separava le due bambine, cercavo di regalarle, riflesso, un po’ di calore che forse le mancava.
Anch’io le rivolgevo qualche domanda, della sua vita, della sua famiglia, ma per quanto era avida di avere notizie di come viveva mia figlia così era poco propensa a parlare di sé. E io non chiedevo di più. Parlava sempre in modo molto riflessivo, mostrava una maturità decisamente superiore alla sua età, evidentemente acquisita nella durezza della vita di strada o di quella – che potevo immaginare – di un campo nomadi.
Durò così per alcuni mesi. Ormai eravamo amici. E io mi ero un po’ innamorato di questa bambina, come un padre può essere innamorato di una figlia che vede crescere bella e riflessiva e che già immagina, orgogliosamente, come la splendida ragazza e poi la donna che sarà. A volte pensavo che sarebbe stato bello farle conoscere mia figlia, far incontrare due mondi così distanti, ma che pure potevano avere delle cose da dirsi. Ma sarebbe stato bene? O la realtà avrebbe guastato le fantasie di Monica? E Elisa cosa avrebbe pensato? Forse per lei sarebbe stata una lezione di vita, ma in nessun modo volevo che questo accadesse a spese di un’altra bambina. E poi come fare? Avrei potuto dire a Monica: “Vieni domanisera, ti faccio conoscere Elisa”. Ma in quegli anni stavo vivendo una separazione non facile e non potevo decidere a mio piacimento i tempi nei quali stare con mia figlia.
Così continuavo a incontrare la bimba nelle mie frettolose pause di lavoro, a pranzo o a cena, a due passi da Fontana di Trevi. Poi, d’improvviso, non venne più. Mi chiesi cosa fosse successo, sperai nulla di serio, mi mancò quel sorriso e il suono basso di quella voce: “Mi compri una rrosa…?”. Passarono alcuni mesi, fino al giorno in cui, mentre alla mia scrivania dell’ANSA mi aggiornavo sulle notizie del giorno, sul video, all’ennesimo “scrolling”, apparve il titolo “Strangolata a Roma ragazza nomade”. Dire che ebbi una sorta di presentimento suonerebbe retorico; mi affrettai a leggere: era lei! L’aveva uccisa, la notte precedente, un francese di 46 anni, George Rouach, con il quale – sembra – Monica aveva una relazione (i parenti di lei smentiranno più svolte sdegnosamente). L’uomo l’aveva strangolata con un foulard, pare per motivi di gelosia, poi aveva chiamato la polizia dicendo di aver agito sotto l’effetto dell’alcool. Gli agenti trovarono Monica composta sul letto, l’abito in ordine, le mani sul petto. E restarono stupiti: la brutalità di quella morte non aveva guastato la dolcezza del suo visino.
Continuai a leggere con un senso di disorientamento, apprendendo particolari sulla vita di Monica, quella vita che lei aveva tenuto accuratamente nascosta nelle nostre brevi conversazioni. Era nata a Bagni di Tivoli, prima di quattro sorelle, in un campo di nomadi provenienti dalla Jugoslavia, la famiglia si era poi trasferita in altri campi, fino a quello di Via Collatina vecchia. Come le sorelle e altre bambine del campo, vendeva fiori nella zona di Piazza Navona e Fontana di Trevi. I nomadi, per la sua bellezza, la paragonavano all’attrice Ornella Muti, con la quale aveva effettivamente una forte somigllianza.
Nella cronaca scritta dalla mia collega, lessi dell’omicida: anni prima era stato arrestato dalla Squadra Mobile per aver impiegato minorenni nell’accattonaggio. Oltre all’attività di sfuttare minori, aveva fatto il “mangiafuoco” in Piazza Navona e aiutava gli zingari con un furgone. O almeno li aveva aiutati, fino a quando un cugino di Monica lo aveva picchiato duramente per essersi preso delle libertà con una piccola Rom. Da quel momento il campo era stato off-limits per lui, ma questo, evidentemente, non era bastato. In un comunicato emesso dall’Opera Nomadi lessi che i genitori di Monica smentivano “categoricamente” che la bambina avesse avuto rapporti sentimentali o sessuali con l’omicida.
Quella sera andai a casa con un grave peso addosso. Non so, mi sentivo come se fossi stato in qualche modo responsabile. Continuavo a chiedermi se avrei potuto fare qualcosa, forse interessarmi di più, chiedere l’intervento dei servizi sociali (ma quanti bambini, a Roma, vendono fiori e chiedono l’elemosina?). Sarebbe bastato a salvarle la vita?
Quattro giorni dopo ci furono i funerali ed io, leggendo le cronache, scoprii altri particolari, che accrebbero il mio malessere. Monica avrebbe dovuto sposarsi tre mesi dopo con un ragazzo di 14 anni (mi venne inevitabile chiedermi se lo aveva scelto lei o se – cosa ben più probabile – le era stato imposto). Per questo il suo corpo era stato vestito con l’abito bianco da sposa. Molti zingari vennero a renderle omaggio portando fiori, poi, dopo la tumulazione della salma, al campo i genitori offrirono a tutti da mangiare e furono suonate musiche popolari in omaggio alla piccola morta. Si ballò e si cantò, secondo un antico rituale zingaro, e sulla bara fu posta una focaccia di grano duro: la “panaia”, un pane santo che sarebbe servito a Monica “per nutrirsi in Cielo e farlo assaggiare a Dio”. “Tu sei la più bella rosa del nostro giardino, sfiorita per sempre”: così la ricordò un parente.
Io non andai a trovare la piccola Monica, non ricordo perché, probabilmente perché il lavoro non me lo permetteva, o forse perché non mi parve il caso, ma anche di questo provo un po’ di rimorso. E’ vero che i nostri incontri erano stati brevi e forse superficiali. Eppure io avevo sentito che lei mi era affezionata e io le volevo bene. Forse lei se lo sarebbe aspettato.
Dopo circa un anno ci fu la sentenza di condanna per l’assassino: 24 anni di reclusione. La Corte d’Assise non riconobbe l’efferatezza del delitto, sostenuta dal Pubblico Ministero, che aveva sollecitato la condanna all’ergastolo. Non avrebbe fatto molta differenza se la Corte avesse accolto le richieste del PM, perché meno di un mese dopo Rouach si impiccò ad un lenzuolo annodato alla grata della cella.
Passarono alcune settimane. Io tornavo nella trattoria vicina all’ANSA a consumare rapidi pasti. Pensavo spesso a Monica e alle sue rose. Una sera alzai gli occhi e ebbi un tuffo al cuore: con un mazzo di rose fra le braccia stava entrando una bambina. Era un po’ più grande di come ricordavo Monica, ma nel suo viso c’era una indiscutibile somiglianza. La chiamai, le chiesi se aveva conosciuto una bambina di nome Monica… “Sono suo cugina”, mi rispose.
Finisce qui la storia di Monica, storia triste che mi ha solo sfiorato eppure mi ha lasciato dentro amarezza e rimpianto. Perché la “paternità”, nel suo senso più esteso e più ricco, non è solo quella che provi per i tuoi figli, ma quella che provi per tutti, tutti i bambini che incontri.
* presidente dell’ISP