Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo uno stralcio del libro Essere padre. Essere madre. Storia di un’avventura, della psicologa Letizia Ciancio. L’opera è pubblicata dall’Editore Armando di Roma (pp. 140, € 15,00) con una Prefazione di Maurizio Quilici, presidente dell’I.S.P.
Danzare la complessità: il tempo del cambiamento
Nel lungo viaggio alla ricerca delle origini del maschile e del femminile, del paterno e del materno, del padre e della madre, abbiamo ripercorso la storia, riletto il mito e la fiaba, analizzato le teorie psicologiche, interrogato biologia e siamo giunti ad alcune conclusioni che proverò a sintetizzare. La dimensione identitaria dell’uomo è molto più instabile di quella della donna e necessita di continui aggiustamenti in relazione alle contingenze storiche e culturali. Il dato biologico, che vuole il maschio istintivamente fecondatore e inconsapevole del proprio contributo nel processo generativo, resta sullo sfondo anche dopo le conquiste della scienza e della civiltà. Permane infatti nell’uomo un intimo inconfessabile conflitto tra un inconscio pulsionale, orientato al soddisfacimento immediato dei bisogni, e una coscienza razionale, sviluppata a seguito della conquista della capacità simbolica, orientata al differimento e alla sublimazione degli impulsi. L’identità della donna viceversa poggia su un dato biologico incontrovertibile: “Mater semper certa est. Pater numquam”. Si sa sempre chi è la madre, non il padre; ma anche (volendo), la madre è sempre sicura (di ciò che è), il padre no… Sullo sfondo della sua psiche giace quindi l’intima consapevolezza della sua funzione procreativa, sia che ella decida di metterla in atto sia che non lo faccia. La sua identità rimane dunque stabile nel corso dei millenni, fondamentalmente eretta intorno alla funzione generatrice. Questa stabilità esistenziale ha tuttavia imprigionato la donna nella gabbia della maternità, asservita per secoli agli uomini, intenti dal canto loro a verificare la certezza della loro paternità, quando non a dimostrare il primato del seme maschile. Dalla lettura attenta del mito e delle fiabe, emergono elementi costanti nelle dimensioni paterna e materna, tali da far supporre l’esistenza di veri e propri archetipi, quasi eidòs platoniche, sedimentatisi nei millenni antecedenti la scrittura e risultato delle rudimentali spiegazioni che i gruppi sociali diedero nel tempo ai mutamenti naturali. Il femminile, associato all’eternità, alla dimensione circolare della vita che continuamente si rigenera; il maschile, associato alla temporalità, alla dimensione lineare degli eventi che iniziano e finiscono, come le stagioni. La madre è l’archetipo della legge di natura, che genera, nutre e uccide; il padre è l’archetipo della legge civile, che definisce intenzionalmente limiti e confini delle leggi naturali. In psicoanalisi, la madre rappresenterà la soddisfazione immediata dei bisogni, l’illusione fusionale e onnipotente; il padre la limitazione del godimento in relazione alle norme, il senso di realtà.
Maschile e femminile, paterno e materno sono dunque sin dalle origini, espressioni assolutamente speculari e complementari della visione del mondo degli esseri umani. Quest’antitetica complementarietà ha alimentato tutti i miti delle origini e le cosmogonie, con l’idea di una armoniosa totalità indifferenziata iniziale, da cui poi sarebbero “esplosi”, come in un autentico big bang, tutti gli elementi polari intrinseci alla vita sulla terra: sole e luna, giorno e notte, bene e male, vita e morte, ecc. Tutti indistintamente ascrivibili agli archetipi originari, ossia i due poli maschile e femminile, ahimé troppo spesso connotati di giudizio: sommariamente positivo il primo e negativo il secondo. Del resto tra due poli, qualcuno doveva pur essere quello “negativo”, e se fosse stato il maschile, probabilmente la storia non sarebbe stata diversa; semplicemente sarebbe stata rovesciata a danno degli uomini e vantaggio delle donne.
Sul piano storico quindi, la divisione dei ruoli tra uomini e donne è evidente sin dalle origini, per gli antropologi addirittura nel passaggio dagli ominidi all’uomo: la conquista della posizione eretta infatti, liberando le mani dalla deambulazione, aveva consentito ai maschi di costruire ed utilizzare attrezzi; le femmine viceversa, che prima portavano i cuccioli sul dorso, si trovarono le mani nuovamente occupate nel sorreggere i piccoli, dovendo così delegare la ricerca di cibo e la difesa del gruppo, interamente ai maschi[1]. Analogamente, è vecchio come il mondo il controllo del grembo materno da parte dell’uomo che, sempre incerto sulla propria paternità, costringe la donna a nozze monogamiche relegandola entro le mura domestiche. Lo stesso vale per l’invidia nei confronti della sua incredibile capacità di generare la vita, che lo porterà fino a simulare le doglie nel rito della couvade, oggi divenuta sindrome per la moderna psicologia clinica. Ogni volta però che le donne, fondamentalmente per necessità, hanno potuto prendere iniziativa “invadendo” territori maschili, i ruoli si sono avvicinati determinando una “crisi” nell’equilibrio del sistema, che il mito racconta come periodi di amazzonismo. La necessità di nuove conquiste territoriali prima, poi il commercio, il lavoro in fabbrica e le guerre, hanno ripetutamente allontanato i padri dal focolare domestico, lasciando in mano alle madri la gestione dei figli e della casa, l’economia famigliare e le attività produttive. Progressivamente, attraverso corsi e ricorsi storici, oscillazioni tra fasi di “patriarcato” e “matriarcato”, i poli si sono gradualmente avvicinati, nella ricerca – per tentativi ed errori – di una posizione di equilibrio tra istanze maschili/paterne e istanze femminili/materne.
Partendo da questi presupposti storico evolutivi comuni, ormai introiettati come archetipi dell’inconscio collettivo, le differenti teorie psicologiche hanno indagato ruoli e funzioni del padre e della madre in relazione alla crescita del bambino, per trarne una teoria universale sullo sviluppo dell’individuo. Nel dipanarsi dei vari approcci metodologici e nella pur grande diversità dei punti di vista, possiamo cogliere importanti elementi condivisi, tali per cui nell’insieme le varie teorie risultino tra loro coerenti. Potremmo definire questi elementi come quei “limiti invarianti” di cui parla la teoria sistemica, che tracciano il perimetro della psiche umana, diversificandola da ogni altra specie animale.
Dal punto di vista oggettuale, la madre è un punto di riferimento essenziale per lo stabilirsi di un legame di attaccamento sicuro, in base a cui costruire modelli di relazione stabili nel futuro. Essa può essere scelta in esclusiva (monotropismo), o in scala di priorità (modello gerarchico), o in relazione al contesto (modello dell’indipendenza) o in integrazione con altre figure (modello dell’integrazione) [2]. La sua specifica funzione interroga aspetti esistenziali dell’individuo, che hanno a che vedere con il sentimento di sicurezza e dell’essere amati incondizionatamente. Essendo il principio materno legato ad una domanda di “origine<” (da dove vengo?), la funzione materna sembra aver a che fare con la costruzione del Sé e dell’autostima (sentirsi amabili). Il padre è complementare alla madre ma è soprattutto “altro” da lei: completa la costruzione della realtà, rappresentando i limiti esterni del mondo, dove lei rappresenta l’interno totalizzante. Egli ha però soprattutto un’altra mente e un altro modo di rapportarsi alla vita; questa diversità di approcci e vissuti, entro una cornice di stabilità e coerenza, arricchiscono il bambino portandolo a sviluppare una maggior complessità interna, riflesso di una miglior capacità di gestire la complessità esterna. Essendo il principio paterno intenzionale e legato alla domanda di “direzione” (dove vado?), sembrerebbe che il padre, rappresentando ciò che è alternativo alla madre, abbia a che fare con la costruzione dell’Io e del senso di realtà, in ultima analisi del sentimento di autoefficacia (sentirsi capaci). L’identità (chi sono?) potrebbe essere intesa quindi come il personalissimo incontro, nel presente, di origine e mèta, materno e paterno. Madre e padre insieme, come sistema aperto, formano inoltre un terzo relazionale con cui il bambino si confronta: la funzione di questa entità cogenitoriale, è diversa dal quella che spetta ai singoli genitori in rapporto diadico con il figlio. Questa nuova dimensione sistemica nello studio dello sviluppo, apre a mio avviso ulteriori prospettive rispetto al “pericoloso” (per alcuni) avvicinamento dei due poli materno e paterno, tipico delle relazioni attuali. Il fatto che i genitori abbiano ruoli interscambiabili non comporta necessariamente confusione nel bambino, purché il sistema famiglia rispetti il principio dei limiti invarianti, ovvero purché sussista una cornice di solidità affettiva cogenitoriale entro la quale il piccolo, sin dall’inizio, impari a gestire la specifica e unica complessità della sua famiglia e la percepisca di conseguenza come base sicura. Se vogliamo uscire dalla dicotomia dei ruoli e delle funzioni prestabilite per ognuno dei genitori, dobbiamo ripensare tutto in termini triadici, ovvero ponendo al centro la diade cogenitoriale nell’interazione con il figlio. Dobbiamo osservare il quadro da una certa distanza, per scorgere le forme nella molteplicità dei punti di colore…
Ma anche nella triade dobbiamo considerare gli specifici microsistemi individuali, i vissuti dei singoli e le loro uniche personalità, frutto a loro volta di complesse intersezioni di genetica, storia passata e attualità. Il “padre” come concetto, è un’invenzione relativamente recente, ed è una conquista razionale della civiltà, prodotto del superamento di una biologia compulsivamente riproduttiva. Nel fondo della psiche maschile alberga dunque ancora un conflitto tra istintualità e razionalità, tra sentirsi uomo virile/potente e volersi compagno stabile/rassicurante. Tra un ideale archetipico di forza e un vissuto psichico di fragilità che la paternità fa emergere. Tra un ruolo autorevole/autoritario sedimentato nei secoli, e l’impossibilità attuale di farvi riferimento, a causa del continuo mutamento dei parametri a cui la liquidità del postmoderno costringe. La “madre” viceversa è un concetto che esiste da che esiste il mondo, è un dato naturale intrinseco alla vita stessa. Nel fondo della psiche materna quindi non abita tanto un conflitto esistenziale, quanto una sorta di sentimento di potenza, derivato dal fatto che ella tiene in mano la vita di un altro individuo. Reprimere con la forza della superiorità fisica tale intima convinzione, sembra risvegliare in lei un desiderio di rivincita che, nei vari corsi e ricorsi storici, ha caratterizzato periodi di relativo protagonismo delle donne. Il conflitto che vive la madre è dunque su un altro piano, ovvero sul consenso razionale a lasciare andare il figlio, liberandolo dall’abbraccio avvolgente che a lungo andare diventa mortifero. Dovrà lottare contro l’impulso a proteggere ma anche a “divorare”, a reincorporare a sé il figlio. Tenderà quindi, in un primo tempo, ad annullarsi nella maternità, faticando a liberare una parte del suo amore totalizzante per il figlio, per ritrovare quello un tempo totale per il compagno. Tenderà ad eclissare il lato seduttivo della sua femminilità, rinforzata peraltro dall’ambiente circostante che, nella madre, vede un essere “angelicato” e intoccabile. A mano a mano che il figlio si renderà autonomo, ritroverà il desiderio di piacersi e piacere come donna, ma in una fase in cui talvolta il compagno ha viceversa trovato un suo equilibrio psichico come maschio e padre. Nel complesso vediamo dunque come entrambi i partner vivano la dimensione genitoriale con sentimenti ambivalenti, ma con caratteristiche e tempi diversi, come dire “sfasati”.
Il postmoderno è del resto, un’epoca assai difficile da vivere: essere uomini e donne, padri e madri, figli e figlie oggi è molto più complesso di quanto non sia stato in passato. Oggi gli individui sono chiamati a gestire una complessità senza punti di riferimento: i rituali sono spariti, Dio è quasi morto, la scienza fa acqua, tutto è relativo, pure i genitori e la famiglia. Si può essere madri in affitto e genitori non biologici grazie alle magie della tecnica; grazie alla cultura, si può essere “madri” pur essendo uomini o “padri” pur essendo donne; vi sono famiglie “allargate” con doppioni di genitori e fratelli. Non è facile per una giovane mente in formazione, gestire una mole di dati, così contraddittori, tra l’altro in un contesto affettivo spesso instabile e con ritmi accelerati! Come possiamo stupirci dunque, se oggi molti bambini presentano disturbi evolutivi? Come possiamo stupirci se questi stessi bambini, confusi e in difficoltà mettono a loro volta in crisi coppie che già a fatica si tengono per mano? Visto così il quadro sembra apocalittico ma, come ho avuto occasione di dire, l’entità della crisi è, a mio avviso, direttamente proporzionale non solo alla paura, ma anche all’entità dell’occasione da cogliere. Il cambiamento è un dato di fatto, ma la direzione è nelle nostre mani. Anche chiudersi su sé stessi rappresenta infatti un cambiamento, seppur in termini regressivi: in un mondo che continua ad avanzare, chi si ferma non fa che retrocedere rispetto agli altri. La stasi è un’illusione, è morte, perché ogni minima cellula della realtà cambia continuamente. Aggrapparsi a modelli statici o peggio ancora regredire a modelli del passato è anacronistico e non “sfrutta” la complessità orientandola verso un cambiamento creativo e positivo della realtà.
Alla complessità non c’è ritorno. Quello che dobbiamo fare, forse, più che continuare a sviscerarne i meccanismi nel tentativo di controllarla, è “danzarci”. Nella danza la conoscenza tecnica è fondamentale, e presuppone anni e anni di esercizio… ma quando giunge l’ora di esibirsi, quando si entra in scena, allora si dimentica la tecnica e ci si lascia avvolgere dalla musica danzando all’unisono con il partner. Le gambe si muovono da sole, forti della costanza di anni di studio, e si diventa tutt’uno con l’universo della rappresentazione. Quando i due partner volteggiano in sincronia, la fatica si annulla nel godimento del ballo; ma tale sincronia presuppone una conoscenza intima, viscerale, interiorizzata, che solo l’esercizio a due può dare. Solo la relazione ripetuta nel tempo può condurre ad una conoscenza tale, da riuscire a prevedere il movimento dell’altro un istante prima che si compia e con questo sincronizzarsi, con un ritmo cadenzato secondo uno spartito che solo quella coppia danzerà in quel modo.
La complessità richiama ognuno alle proprie responsabilità, in ogni singolo istante di vita, finanche nei propri pensieri, perché corpo e comportamenti rispecchiano i pensieri, e questi a loro volta li rimodellano, in una dinamica circolare che è l’anima stessa della complessità. Siamo chiamati ad essere “testimoni”, madri e padri, di un nuovo modo di vivere la vita e di interpretarne le difficoltà. Siamo chiamati a dare un senso a tutto ciò nel rispetto del partner e dei figli. Siamo chiamati a cercare il nostro unico e preziosissimo modo di danzare la vita, conoscendo e sviscerando l’ignoto, ma poi dimenticandolo. Esiste un momento in cui, alla compulsiva necessità di continuare a ingurgitare conoscenza, dobbiamo necessariamente alternare il tempo di digerirla, per poi trasformarla in energia creativa, altrimenti rischiamo di vomitare tutto…
La complessità va accettata come si dovrebbe accettare un compagno/a: non certo rassegnandoci passivamente, ma – dopo una conoscenza “sufficientemente buona” – cercando di orientarla in base alle reciproche dinamiche ed intenzioni. Fuor di metafora, credo che oggi ne sappiamo a sufficienza su come, teoricamente, far funzionare una coppia o su come crescere figli psicologicamente sani… però misuriamo un continuo aumento dei divorzi e dei disturbi dell’età evolutiva. Come mai? Una risposta richiederebbe ben altri strumenti e non mi propongo certo di darla, ma voglio tentare qualche suggestione. Immagino che dovremmo iniziare a capitalizzare le conquiste fatte, prima di ingerirne di nuove, dandoci il tempo di assimilarle ed utilizzarle. IL TEMPO, questo si che è il grande assente! Dov’è finito il tempo dell’attesa, la pazienza della conquista, la tolleranza del ritardo? Forse è proprio questa la dimensione da interrogare tutti con più forza oggi: ognuno nel proprio, quanto tempo ci diamo per ottenere qualcosa? Quanto per cambiare? Quanto tempo dedichiamo a cercare il cuore dell’altro, quanto ad ascoltare la nostra vita? Alle volte ho l’impressione che gli stessi padri e madri siano a turno oggetto di proiezione delle inquietudini collettive. Del resto qualcuno dovrà pur essere responsabile di questo sfacelo no? Quindi tanto vale risalire all’origine della vita… Ma in un’ottica sistemica non esiste inizio e non esiste fine; esiste il cerchio, l’insieme, la totalità. Quando ho affermato che l’epoca postmoderna sembra un giovane adulto alla ricerca dell’intimità, in realtà interrogavo proprio questo aspetto: l’intimità è la ricerca della totalità uroborica originaria, forse illusoria, ma che ci guida sempre più avanti, tra perdite e recuperi di equilibrio, sempre in bilico al margine del caos. L’intimità è sicuramente il ballo più difficile da danzare, perché non ha una coreografia prestabilita ma è un’improvvisazione a due, che presuppone una conoscenza ormai introiettata dell’altro.
Continuo quindi a vedere in questa fase storica, al di là delle oggettive difficoltà ai vari livelli del vivere, un’enorme occasione per madri e padri (e per la collettività), di giungere ad una piena maturità. Si tratterà forse di renderci realmente consapevoli di essere ognuno testimone di qualcosa rispetto all’altro, e di rimettere al centro dell’attenzione non tanto le categorie (madre, padre, figlio) ma le persone e soprattutto il tempo. Probabilmente è utopistico pensare di poter rallentare il ritmo frenetico e ossessivo del pianeta, ma possiamo tentare perlomeno di rallentare i nostri pensieri: darci il tempo per comprendere, la realtà, i fatti, le persone; darci il tempo per cambiare. Possiamo tentare la nostra speciale alchimia di coppia affettiva e genitoriale, finalmente liberi da ruoli e funzioni stabilite. È difficile, certamente molto più difficile di quanto non sarebbe indossare l’abito già usato, ma a me pare l’unica strada per riuscire a vivere la complessità senza disintegrarsi: come un gorgo che ci travolge, è inutile opporvisi affannosamente, quanto meglio è lasciarvisi andare, perché conoscendone il funzionamento, siamo fiduciosi che alla fine del vortice troveremo la quiete e potremo riemergere, probabilmente più forti e sicuri.
[1] Zoja L., Il gesto di Ettore, Op. cit.
[2] De Carli L., Dalla diade alla famiglia, Op. cit.