di Maurizio Quilici *
Nella “liquida” società di cui parla Zigmunt Baumann sono diventati “liqdi” anche i rapporti padre-figli. Nebulosi i confini, poco chiari i rapporti, solitamente orientati ad un cedevole permissivismo, mutevoli i ruoli. Il padre – è constatazione comune – ha perso gran parte di quelle funzioni normative che costituivano proprio l’essenza della sua paternità, per acquistare in compenso una dimensione empatica, affettiva ed emozionale che gli era sconosciuta nella Storia. Sull’enorme guadagno che ne è derivato sotto quest’ultimo profilo non si discute, ma la perdita di autorevolezza e quindi di capacità normativa non può che essere valutato in termini negativi. Sarebbe lungo cercare le cause – molteplici ma individuabili – di questo appannamento, effetto fra l’altro di una società per molti versi matricentrica (senza alcun rimpianto, si badi, per società inversamente orientate sul versante maschilista) e per un collettivo e diffuso svilimento della figura paterna (e basti per questo l’usuale squilibrio che si realizza quotidianamente nelle aule di Tribunale in occasione di separazioni e affidamento figli).
Questo padre “evanescente” – per usare un’espressione amata dagli psicologi della famiglia – poco incisivo nello stabilire confini e regole, incline a delegare e a ritrarsi quando non, addirittura, a calarsi nei panni del “mammo”, potrà cavarsela con i figli in tenera età, ma inevitabilmente dovrà fare i conti con un momento al quale nessun genitore può sottrarsi: l’adolescenza dei figli. In questa fase di passaggio cruciale il ragazzo e la ragazza sono attratti da nuove esperienze, ma ancora necessitano di un ambiente protettivo in cui rifugiarsi (lasciare l’infanzia per avventurarsi altrove è emozionante, ma anche motivo di apprensione e disorientamento), vivono una trasformazione, non solo fisica, che li tiene in uno stato di nuove e sconosciute tensioni. Tensioni che potranno manifestarsi come un perenne stato di eccitazione e attivismo o viceversa come uno stato di abulia (gli “sdraiati” di Michele Serra), ma che comunque pone i genitori in uno stato di imbarazzante incertezza sul da farsi. E’ in questa fase che i giovani, naturalmente utilizzando materiale pregresso, costruiscono i primi mattoni della loro identità di adulto, passando da un “senso del sé” (ovvero la rappresentazione, la percezione del proprio essere) a un più complesso sentimento di identità. L’aspetto fisico anzitutto, ma anche le performance atletiche, la resa scolastica, l’accettazione sociale da parte del gruppo dei pari, i turbamenti dello sviluppo sessuale… sono tutti elementi che assumono grande rilievo. Il tipico egocentrismo dell’adolescente, che comprende quel pericoloso senso di unicità e invincibilità che tanto spaventa i genitori e che in effetti è alla base di tanti comportamenti a rischio tra gli adolescenti, si associa talvolta a una diminuzione dell’autostima, specialmente nelle ragazze. Costruzione di identità, dunque, assolutamente non semplice, spesso penosa e altalenante, che avrebbe bisogno di genitori particolarmente attenti e sensibili (ed anche corazzati…), pronti a compensare, frenare, gratificare, rinforzare… e che invece spesso ha a che fare con genitori distratti dal lavoro o dai problemi personali. Anche quando i genitori “ci sono”, il confronto non è facile: l’adolescente spinge verso l’autonomia, mette alla prova madre e padre, esplora quanto il limite che è concesso alle sue richieste sia elastico; il padre (di solito è a lui che si guarda come alla “legge” in famiglia) è combattuto: da un lato capisce che deve dare dei limiti, porre (che è diverso da imporre) dei “no”, dall’altro teme che lo scontro che può seguirne peggiori il clima familiare, allontani il figlio da lui, crei tensioni dure da sostenere. Il figlio è irritante, indolente, sgarbato, trasandato, sfuggente, perennemente polemico. Cerca ogni occasione, sembra, per provocare i genitori. Che sono “vecchi”, che non lo capiscono, che non sanno nulla di come va il mondo. A volte sembra che il ragazzo o la ragazza odi padre e madre e la sua rabbia sconcerta e addolora, eppure bisognerebbe sapere, come ha scritto lo psicologo Pietropolli-Charmet, che “dietro la rabbia adolescenziale c’è sempre la voglia di padre”. E che – questa volta le parole sono di uno scrittore, il praghese Franz Werfel – “un figlio adolescente è sempre la caricatura di un padre”. E tuttavia la figura di adolescente che ho appena descritto non è più un modello universale.
Un tempo – diciamo, generalizzando, fino a cinquant’anni fa – lo “scontro generazionale” era un topos dell’adolescenza e poteva raggiungere forme di notevole tensione. Se alla base del rapporto c’era comunque amore, stima, fiducia e alle spalle una infanzia serena, un “attaccamento sicuro”, per usare la famosa terminologia di Mary Answorth, lo scontro si traduceva solitamente in un successivo incontro padre-figlio. Ma erano, appunto, altri tempi. Nel padre poteva mancare l’autorevolezza, ma l’autorità era indiscussa, un minimo di rispetto da parte dei figli pure. Oggi molti padri sfuggono, evitano lo scontro. Per debolezza, per quieto vivere, perché sono stati troppo permissivi fino a quel momento. In molti casi lo scontro generazionale non esiste più. E se invece il padre vuole far sentire la sua voce, perché lo ritiene uno dei suoi imprescindibili compiti? Oggi che il rapporto orizzontale – quello, a mio avviso nefasto, del padre-amico o padre-compagno, per intenderci – ha sostituito quello gerarchico verticale, come farsi ascoltare, rispettare, ubbidire dai figli? Certamente controproducente sarebbe la durezza impositiva, il “pugno sul tavolo” di una volta, il “è così perché lo dico io”. Il dialogo rimane la forma migliore di educazione, ma naturalmente per dialogare bisogna essere in due e a volte l’adolescente vuole essere cieco e sordo. Formule magiche per affrontare l’adolescenza dei figli non ce ne sono, se non quelle dettate dal buon senso e da adottare, elasticamente, caso per caso e circostanza per circostanza. Diciamo però che quell’età di transizione è il pettine al quale arrivano inevitabilmente i nodi degli anni precedenti, come ho accennato, nel quale si godono i benefici – o si paga lo scotto – degli errori passati. Un padre (e una madre, naturalmente) che abbia sempre lasciato correre, per pigrizia o assenza, che non abbia mai dato regole e insegnato princìpi (da quelli dell’educazione a quelli della socialità, da quelli del rispetto a quelli del vivere quotidiano) che abbia fatto sempre e solo il compagno di giochi non potrà pretendere alcuna funzione di margine alle intemperanze di un figlio adolescente. Questo è anche il momento in cui più a proposito verrebbe quella che gli anglosassoni chiamano co-parenting, ovvero la co-genitorialità (cosa diversa dalla tanto affermata bi-genitorialità). Per co-genitorialità si intende una collaborazione fra i genitori nell’affrontare i compiti educativi: un supporto reciproco, una solidarietà e univocità di atteggiamenti, una capacità di essere “genitori insieme”, dove quel suffisso “co-“ (che a me piace assai di più del suffisso “bi-”) allude alla capacità, mai così necessaria come nel momento della adolescenza, di coordinarsi reciprocamente. Perche la co-genitorialità sia possibile è necessario, naturalmente, la reciproca stima, il buon accordo e una fondamentale unità di vedute da parte dei genitori. Requisiti che non sembrano alloggiare in molte famiglie.
Oggi molti psicologi infantili sono giustamente preoccupati della assenza di limiti che caratterizza i bambini e – di conseguenza, come si è visto – gli adolescenti. E guardano al padre, come possibile risolutore. Ma il padre, quel padre, non c’è più: lo ha cancellato la voglia di essere alla pari con i figli, giovane come loro; l’aggressione di una società matricentrica che ritiene di poter fare a meno del padre (andatevi a leggere il pensiero dello psicoanalista Giuseppe Maiolo nella rubrica “Così la pensano”); la svalutazione costante da parte delle istituzioni, delle leggi, dei media. Oggi, lo sappiamo, i padri sono infinitamente più vicini ai figli di quanto non lo fossero i padri dei secoli scorsi. Hanno rigettato la figura del padre autoritario sullo sfondo (il “padre ombra” se posso citare il titolo di un libro da me scritto tanti anni fa) e questo è stato un bene. Ma non hanno ancora trovato una figura che sia in equilibrio fra il “padre padrone” e il “mammo”. E in questo vuoto i figli adolescenti troppo spesso cercano invano una figura di riferimento.