di Maurizio Quilici *
Un socio “storico” dell’I.S.P., Michele Suriano, ha scritto una breve lettera al nostro Notiziario – potete leggerla nella Rubrica “Lettere al giornale” – interrogandosi (e interrogando) sulle nuove forme di genitorialità e sulle domande che potrebbero porsi un giorno i bambini figli di due madri (o tre) o di due padri.
Il tema è, naturalmente, di pertinenza del nostro Istituto ed oltretutto in piena bufera mediatica, grazie alla legge sulle unioni civili, alla maternità surrogata (evitiamo, per piacere, l’espressione “utero in affitto”), alla step child adoption e, non per ultime, alle vicende familiari di Nicky Vendola, ex Governatore della Puglia. Qualcuno, già prima di Suriano, mi aveva chiesto che cosa ne pensassi di tutto ciò e perché non affrontavo il tema su ISP notizie. Bene, lo faccio ora, ma sono costretto a ridurre i molteplici temi che si sono in questa circostanza incrociati, troppo complessi per essere affrontati tutti insieme, ad uno solo, quello che mi sembra più vicino alle riflessioni del nostro Istituto: la genitorialità omosessuale. E tuttavia non potrò spiegare quale sia la mia opinione su questo tema, ma solo perché non ho un’opinione e non intendo averla.
Chi mi conosce sa che non mi sono mai tirato indietro quando si è trattato di prendere posizione su temi scottanti che toccano la figura del padre, come la questione dell’aborto e della Legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza, o quella dell’affidamento nella separazione, o della violenza intrafamiliare e più ampiamente della violenza fra i generi (mi rifiuto di parlare solo ed esclusivamente della violenza dell’uomo sulla donna). L’ho fatto durante convegni e conferenze, in articoli e incontri pubblici e privati; l’ho fatto sempre cercando di rispettare le opinioni diverse e di trovare un punto di incontro fra opposte posizioni, senza mai offendere la sensibilità altrui, ma anche senza timore di apparire politicamente scorretto. Questo non è bastato a preservarmi da accuse di partigianeria (in un incontro a Brescia una giovane avvocatessa disse che con il mio libro Manuale del papà separato potevo fomentare l’odio degli uomini contro le donne) e a far sì che qualcuno dei nostri soci ci abbandonasse non condividendo certe mie posizioni, per esempio la mia contrarietà al mantenimento per capitoli di spesa quando si parlava di legge sull’affido condiviso.
E’ stata una lunga premessa, ma era necessaria per sgomberare il campo da possibili equivoci. Veniamo dunque al nostro tema, sul quale non da ora mi interrogo. Nel 2010, la nostra socia Monica Aitanga Leva, psicologa e psicoterapeuta, assieme alla collega Maria Assunta Natali, tenne due incontri nella sede dell’I.S.P. sul tema “Paternità e omosessualità” (cfr. ISP notizie: n. 1 e 3/2010). Dopo una disamina dei vari studi in materia e osservazioni derivate dalla pratica clinica, le due psicologhe concludevano con l’affermazione che “la validità di un nucleo familiare non si fonda sul suo modello strutturale o sulla sua supposta ‘naturalità’, bensì sulla qualità delle relazioni”.
Anni prima avevo parlato di questo argomento nell’editoriale di ISP notizie n. 2/2005 esprimendo qualche dubbio sulla corretta identificazione, non tanto sessuale quanto personale, di un bambino che cresca con due genitori dello stesso sesso. Ecco, ripartiamo da quell’articolo. Dopo più di dieci anni i miei dubbi sono rimasti. Dubbi, non certezze. Come avete visto nel dibattito delle scorse settimane, invece, qui nessuno ha dubbi. Tutti sposano una tesi: sì-no, bianco-nero, giusto-sbagliato. E lo fanno con grande sicumera, incrollabile certezza, frequente aggressività. Il mondo laico e quello religioso, la destra e la sinistra, i reazionari e i progressisti… tutti si confrontano e sfoderano le armi ideologiche, politiche e culturali, fanno leva sui sentimenti (la tutela dei bambini, l’amore dei genitori che prescinde dal sesso…), sui diritti (alla felicità, ad una famiglia, ad avere due genitori…), sulla “natura” e sul diritto naturale. Citano ricerche, sondaggi, studi a sostegno della propria tesi. E mai nessuna sfumatura, nessun “forse”, nessun “possibile”, nessun “dipende”, nessun “vedremo”. Ho letto ovunque prese di posizione ferree, arroganti, rabbiose, insultanti. E soprattutto sicure di sé. Un’eccezione l’articolo di Concita de Gregorio su la Repubblica del 1 marzo 2016, nel quale l’autrice scrive che vorrebbe vivere in un mondo dove fosse ancora possibile rispondere “dipende” a chi ti chiede continuamente (e perentoriamente, aggiungo io) cosa pensi di questo o quel tema. “E invece” – scrive de Gregorio – “non si può perché non c’è tempo, non c’è voglia di capire e di ascoltare, di distinguere: puoi solo votare adesso, mettere un mi piace, un pollice verso, scrivere un wow – oppure tacere”.
Bene, io continuo ad avere dubbi, perplessità, non certezze. Sono convinto che, quando si parla di “identità”, “le componenti biologiche, sociali, ontologiche, in ogni persona, sono coesistenti – seppur analizzabili anche separatamente – ma non possono più essere considerate come realtà fisse e predeterminate” (Paola Schellenbaum, La ricerca n.9, dicembre 2015). Tuttavia credo ancora, affermazione “classica” della psicologia, che ognuno di noi nasca con una componente maschile ed una femminile e che l’equilibrio di queste due componenti si perfezioni (o si perfezioni più facilmente, assieme a molte altre variabili) avendo a modello un genitore maschio ed uno femmina. E che l’individuo, crescendo, costruisca la sua identità di genere (non solo sessuale) per identificazione con il genitore dello stesso sesso e per contrapposizione con il genitore di sesso opposto. Certamente “maschile” e “femminile” non si declinano solo secondo l’aspetto morfologico, anche se dubito che quest’ultimo sia irrilevante. Però, siccome cerco di non avere pregiudizi (per essere ancora più chiaro, pre-giudizi) di sorta e mi sforzo di avere antidoti agli stereotipi che ci assediano, sono pronto a spazzar via le mie perplessità, in un senso o nell’altro. Perplessità – è anche bene precisare – che non nascono da una presunta maggiore o minore sensibilità o capacità di amare dei gay (c’è anche chi si è sbilanciato a fare affermazioni in questo senso), e soprattutto non fanno alcun ricorso al termine “natura”. Concetto naturalmente molto invocato in questa occasione, eppure quantomai vago e storicamente mutevole, in nome del quale si sono perpetrate nei secoli le peggiori atrocità, vittime sempre le categorie più deboli: gli omosessuali, appunto, ma anche i disabili, i bambini, i neri, le donne… Era in nome di un ben articolato ius naturale che veniva praticata la schiavitù; in nome di una legge di natura, oltreché civica, che Sparta – stando al mito tramandatoci da Plutarco – eliminava i bambini gracili o deformi abbandonandoli sul monte Taigeto. L’eugenetica nazista si rifaceva espressamente a presunte leggi di natura. Quanti misfatti si sono commessi in nome di quel brocardo famoso del giurista Ulpiano: Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit, Il diritto naturale è quello che la natura insegnò a tutti gli esseri viventi. E in natura, si sa, il più forte sopraffà il più debole. Il filosofo Stuart Mill, nei Saggi sulla religione, osserva che il termine “Natura” si è trasformato “in una delle fonti più copiose di cattivo gusto, di falsa filosofia, di falsa moralità, e perfino di cattive leggi”. Lo stesso filosofo – ed era, si noti, il 1869 – scrisse che essendo la subordinazione della donna all’uomo un costume universale, una deroga a questo costume appare contro Natura.
Non si vuole nemmeno mettere in discussione certe ovvietà, come quella che una coppia gay possa (come si vede, si entra nel regno del possibile) essere senz’altro una coppia di genitori più amorevoli ed efficaci di una coppia eterosessuale. Il che equivale ad affermare un principio che sostengo da molto tempo, ossia che paternità e maternità affettive – non sempre coincidenti con quelle genetiche – sono il vero valore dell’essere genitore (ai cattolici intransigenti vorrei ricordare che Giuseppe fu buon padre, anche se di lui sappiamo poco, pur non essendo il padre biologico).
Ma allora cosa potrebbe farmi uscire dall’incertezza e consentirmi, finalmente, una posizione precisa e convinta? Solo, e banalmente, una cosa: studi che convincendomi per metodologia, scientificità, onestà intellettuale e assoluta purezza ideologica possano mostrarmi gli esiti di una educazione da parte di genitori gay. Ho detto “banalmente”, ma in realtà non c’è nulla di più difficile. Anzitutto perché ipotizzare una ricerca scevra di presupposti ideologici è abbastanza utopistico, tantopiù nelle discipline psico-sociali, come ammettono numerosi Autori. Prendiamo per esempio Rudolph Shaffer, secondo il quale dobbiamo “essere coscienti dei giudizi di valore, delle assunzioni e dei preconcetti che possono giocare una parte vitale perfino nel selezionare il tipo di teoria considerata congeniale e degna di riguardo”. Questo psicologo dello sviluppo utilizza un esempio quantomai calzante per mostrare come le aspettative individuali influenzino i risultati, generalmente in maniera del tutto inconscia: gli effetti che il divorzio dei genitori (per l’Italia possiamo riferirci alla separazione) produce sui bambini. Shaffer ricorda che i primi studi su questo argomento furono svolti in un periodo in cui il divorzio era fortemente disapprovato dalla società e si era certi che le conseguenze potessero essere solo negative. I ricercatori si aspettavano solo effetti negativi e di conseguenza i loro questionari “erano colmi di domande sulle paure, sull’aggressività e sul fallimento scolastico”. Solo in tempi successivi, in un clima sociale diverso, i metodi usati per la ricerca furono privi di questa distorsione. Espliciti anche i nostri Speltini e Palmonari, quando scrivono che “le ricerche scientifiche non sono ‘neutre’, in quanto nel loro modo di procedere presuppongono una visione di fondo, un assunto epistemologico raramente esplicitato, che tuttavia influenza tanto la raccolta dei dati sperimentali quanto l’interpretazione dei fatti raccolti”.
Come mia abitudine, ho cercato di documentarmi, ma questo argomento è oggi talmente scottante che, per quanto appena detto, la mia impressione su tutti gli studi esaminati è stata quella di una forte ideologizzazione di fondo. Come ai tempi del divorzio cui accennava Shaffer, siamo nel pieno della battaglia e quando la battaglia infuria le ricerche risentono inevitabilmente del clima sociale – nel nostro caso anche politico e religioso – e delle convinzioni personali del ricercatore. E spesso cercano ciò che vogliono trovare (per questo, frugando con attenzione, chiunque può reperire studi a sostegno della propria opinione).
Per lo psicoanalista Claudio Risé, nella relazione con il padre c’è la identificazione con la figura del “marito e padre” attraverso la quale “ogni maschio costruisce, nell’infanzia e adolescenza, una parte molto consistente della propria identità complessiva”. Risé non dubita, nei suoi scritti, che le figure di padre e madre debbano mantenere una loro precisa identità. Non ha dubbi nemmeno lo psichiatra Eugenio Borgna, per il quale i figli “senza ombra di dubbio hanno bisogno di una madre e di un padre, di due polarità ben precise, anche sessualmente definite. Secondo natura” (Avvenire, 17 marzo 2012).
Altro studioso senza sfumature il filosofo Umberto Galimberti, che sull’Espresso del 18 novembre 2004 scriveva: “Non possiamo perdere l’orizzonte della natura e della costituzione psichica. Noi siamo maschi e femmina, funzionari della specie: per riproduzione e difesa. La natura è eterosessuale. E il bambino ha bisogno di un padre e di una madre. Punto”. Lo stesso Galimberti, però, su D la Repubblica delle donne del 16 marzo scorso, ha scritto che “nessuna ricerca dimostra che i figli adottati da coppie omosessuali crescono squilibrati”.
Vittorio Lingiardi, professore ordinario di Psicologia dinamica alla Sapienza, facoltà di medicina, in un articolo dal titolo “La famiglia ‘inconcepibile’”, (infanzia e adolescenza, vol. 12, n. 2, 2013) sostiene invece la perfetta “normalità” dei genitori gay e comincia così il suo scritto: “Sempre più ricerche tendono a dimostrare che i bambini cresciuti da genitori omosessuali e i bambini cresciuti da genitori eterosessuali non si differenziano in termini di salute mentale, sviluppo cognitivo, identità sessuale, relazioni con i pari e riuscita scolastica”. Lingiardi, coerentemente con questa osservazione, critica “la pretesa di ricondurre i fenomeni a un supposto ordine naturale”. Accade poi che Lingiardi intervisti Massimo Recalcati, psicoanalista fra i più seguiti, e che questi inviti a “pensare alla genitorialità come a un evento non di sangue ma simbolico e alla famiglia in termini di legami e funzioni”. E aggiunga lapidario: “L’amore non è una legge biologica”. (Il Venerdì, 19 febbraio 2016).
Sullo stesso fronte di Lingiardi troviamo studiosi come Chiara Lalli, Fulvio Scaparro, Chiara Saraceno, Gustavo Pietropolli Charmet, Luigi Cancrini (con qualche cautela), Massimo Ammaniti e molti altri. Istituzioni come l’American Psychoanalytic Association, l’Americam Academy of Pediatrics e in Italia l’Associazione Italiana di Psicologia si sono ufficialmente espresse valutando senza danni la crescita di un bambino per opera di genitori gay.
Poi c’è il mondo cattolico, in Italia particolarmente agguerrito, per il quale se l’omosessualità è una disgrazia, l’adozione da parte di omosessuali è una tragedia. Inutile dire che tutte le ricerche citate da fonti cattoliche vanno solo in una direzione (note le polemiche che di recente hanno coinvolto Tonino Cantelmi, presidente dell’Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici, accusato di sostenere e praticare terapie “riparatorie” su soggetti gay). Sul sito Prolife News sono regolarmente citate ricerche (difficile capire quanto valide) che sostengono effetti negativi sul rendimento scolastico per i ragazzi con genitori dello stesso sesso, “per non parlare del campo delle devianze sessuali”. Paola Binetti, deputata UDC, afferma che “in America l’esperienza ha mostrato una propensione al suicidio tra i bambini cresciuti da coppie gay”; il PD Ignazio Marino le risponde piccato che in America ha conosciuto bambini allevati da genitori dello stesso sesso “che crescevano come mia figlia”. Insomma, non sono solo i politici ad avere – come è ovvio – una posizione ideologica. Lo sono anche i ricercatori, che siano psicologi, sociologi, medici, antropologi, giuristi…
Non voglio far torto a nessuno, ma tutti gli esperti che hanno detto la loro su questo tema hanno una precisa collocazione ideologica e qualche volta anche politica. Cosa che non è vietata ma che, naturalmente, rende le loro affermazioni più dubbie.
Infine, a rendere più confuso il quadro, c’è la magistratura, che in questo campo mostra quella che per alcuni è un’insolita apertura, in anticipo sui tempi, e per altri una grave prevaricazione e arroganza e con varie sentenze – per esempio del Tribunale per i minorenni di Roma (cfr. F. D’Arpino, ISP notizie 4/2013 e la sentenza del marzo 2016) e Napoli, ma anche di Cassazione e Corte Costituzionale – ha sancito la irrilevanza della omosessualità dei genitori ai fini della idoneità genitoriale e dello sviluppo equilibrato di un minore, o anche concesso la adozione a coppie omosessuali.
E dunque? Per quanto gli studi in materia abbiano avuto inizio negli anni ’70, io penso che sia ancora presto per poter acquisire informazioni credibili sugli esiti di una genitorialità omosessuale. Le ricerche italiane sono poche e, temo, connotate ideologicamente. Il dibattito ha assunto toni molto aspri di intolleranza e radicalismo che non depongono a favore di una obiettività scientifica. Spesso le meta-ricerche sono orientate nell’ambito di un solo filone di studio. A differenza di quanto è accaduto con le rassegne sugli effetti della separazione, per le quali è oggi possibile individuare ricerche convincenti, lontane sia da estremismi apocalittici che da fiabesco ottimismo, non mi sembra che lo stato attuale della ricerca sulla genitorialità omosessuale permetta di esprimere un convincimento. Questo sarà probabilmente possibile quando – come è stato per la separazione o il divorzio – si smetterà di parlare in termini assoluti ed estremistici e si considererà l’enorme numero di variabili, ossia di possibilità legate sia alla genetica che all’ambiente (l’antico dibattito natura-cultura) che possono intervenire e determinare esiti molto, molto diversi fra loro. E quando lo stigma sociale, che un tempo gravava sui separati e sui figli dei separati e oggi condanna gli omosessuali e, possiamo temere, i loro eventuali figli, sarà venuto meno e avrà lasciato posto alla accettazione e alla indifferenza.
Per questi motivi, che è stato giocoforza sintetizzare ma che ugualmente hanno preso molto spazio, non voglio esprimermi su questo argomento (a parte le perplessità alle quali ho accennato). Posso solo aspettare che la polemica si plachi, che le coppie gay con figli siano in numero maggiore (probabilmente sarà così col tempo) e il campione su cui studiare più esteso. E soprattutto che analisi e ricerche – che sole, quando manchiamo di un’esperienza clinica diretta, dovrebbero aiutarci a prendere una posizione – non siano viziate, come oggi mi pare evidente, da un clima sociale fortemente contrapposto e dalla personale ideologia dei ricercatori.
* presidente I.S.P.