di Silvana Bisogni *
Per ora sono 30, quasi esclusivamente maschi. Il più giovane ha 12 anni, gli altri sono in piena adolescenza. Sono ragazzi come tutti gli altri, ma con uno stigma e una cultura ancestrale che li rende radicalmente diversi. Sono i figli di genitori riconosciuti appartenenti alla “’ndrina”.
Nei loro confronti i giudici del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria hanno aperto un fronte del tutto nuovo, unico in Italia, drammatico e sconvolgente, ma che forse potrà dare a questi ragazzi una prospettiva di vita profondamente diversa da quella a cui sono destinati per nascita e per appartenenza familiare. Secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia, aggiornati a ottobre 2015, in Calabria sono sei i minorenni già accusati di associazione mafiosa.
La scelta è quella di allontanare dalla famiglia i figli minorenni di boss, con decadenza della responsabilità genitoriale, fino al raggiungimento della maggiore età, e di inserirli in comunità o in famiglie, in aree geografiche lontane, per offrire loro l’opportunità di conoscere un’altra realtà rispetto a quella finora vissuta nella famiglia originaria e spezzare, in tal modo, la trasmissione della cultura criminale.
L’intervento del Tribunale scatta quando i giudici hanno dati certi e inoppugnabili sull’educazione criminale impartita ai ragazzi. E per educazione criminale, si intende tutta quella serie di atteggiamenti e comportamenti che fin da bambini i ragazzi “debbono” assumere, a seconda del loro sesso.
I maschi, specie se primogeniti, sono destinatari di vere e proprie “lezioni di ‘ndrina”: l’indottrinamento sul significato dei diversi gradi della gerarchia criminale, contro lo Stato e le sue leggi, contro le Forze dell’Ordine, sui metodi per imporre all’esterno le decisioni della “famiglia”. Debbono imparare ben presto a maneggiare e a custodire le armi, maneggiano la droga (la ‘Ndrangheta è riconosciuta come la più grande trafficante di cocaina in Europa), spesso partecipano ad azioni di fuoco: una vera e propria educazione “sul campo”. Imparano presto il percorso della loro vita futura con poche alternative; uccidere, essere uccisi, o, nel migliore dei casi, finire in carcere. Tappe tragiche di una carriera obbligata, decisa da padri-padroni fin dalla loro nascita, confermata anche dalla «smuzzunata», che è il battesimo da ’ndranghetista dei neonati maschi, riservata ai figli dei boss: entrano a far parte dell’associazione sin dai primi giorni di vita.
Per le bambine è d’obbligo una obbedienza cieca a tutti gli ordini imposti; debbono imparare a vivere nel silenzio, ad accettare qualsiasi decisione che riguarda la loro vita presente e futura. Molto spesso sono costrette ad accettare matrimoni che servono solo a cementare accordi tra potentati criminali.
In questo mondo chiuso e terribile, sembra mancare la presenza delle madri. Condannate da una situazione culturale ad un ruolo residuale nell’educazione dei figli, se non alla accettazione della condizione di “figli d’onore”. Sembrerebbe che siano consapevoli della sorte che tocca ai figli, ma incapaci di opporsi a decisioni già scritte.
Eppure, ci sono stati dei casi in cui madri, più coraggiose o, se si vuole, più disperate delle altre, hanno chiesto ed ottenuto l’intervento del Tribunale, nel tentativo di proteggere la vita dei figli e garantire loro una vita diversa. Sono ancora poche, ma è un segnale che fa ben sperare, soprattutto nella frattura di un codice antico. Decisione sofferta e terribile, se si pensa, tra l’altro, alla consapevolezza dell’allontanamento del figlio per un lungo periodo: un taglio netto di affetti e di vicinanza sicuramente molto duro da sopportare, probabilmente in una condizione di solitudine e di contrasto con la famiglia.
Questa situazione è ben conosciuta in Italia, ma è quasi assente, colpevolmente assente, sui giornali, che dedicano qualche raro articolo solo ad avvenimenti di cronaca. Pochissimi quelli che hanno riservato attenzione alla decisione dei giudici: un lungo e documentato reportage dell’ Espresso e qualche altro articolo.
Eppure la questione è dirompente: è un intervento che mira a lacerare una cultura ormai secolare, a spezzare i nodi di veri e propri legami “di sangue” che impediscono ogni libertà decisionale personale, ogni prospettiva di vita “normale”, ogni istanza di nuovi orizzonti e nuovi progetti di vita.
Il legame “di sangue” sembra non conoscere limiti. I giovani, anche se studiano e vanno a vivere in altri Paesi, mantengono sempre uno stato di obbedienza rispetto al volere della “famiglia” di origine e non è solo paura di ritorsioni o violenze. Non è un caso se la “cultura ‘ndranghetista” non conosce il fenomeno del pentitismo, che invece ha caratterizzato alcuni periodi delle cosche mafiose.
La decisione dei giudici nei confronti dei minori già “educati” alla cultura criminale è, dunque, passata quasi sotto silenzio. Ma è emerso qualche parere di esperti, che ha assunto posizioni diametralmente opposte, benché concordi sulla necessità di infrangere la cultura criminale.
Per alcuni allontanare il minore dalla famiglia originaria, benché appartenente alla ‘ndrangheta, per un lungo periodo di tempo e far educare i ragazzi in centri specializzati o presso famiglie affidatarie, in un luogo diverso e lontano, è un errore, che può produrre solo risultati negativi in termini di crisi di identità, frattura con la famiglia originaria, senso di solitudine, disprezzo del diritto del minore a vivere con i propri genitori, i fratelli, gli altri componenti della sua famiglia, i compagni di scuola, gli amici, nell’ambiente in cui è nato ed ha vissuto per alcuni anni. Il distacco dalla cultura criminale dovrebbe avvenire per processi educativi costanti e duraturi ma “in loco”.
Per altri commentatori, invece, la decisione, certamente difficile e dolorosa, dei giudici ha il pregio di dare un taglio netto tra la cultura criminale, l’ambiente in cui essa vive e prospera, e il diritto del minore a vivere una vita libera da condizionamenti, aperta alle varie opportunità e potenzialità, aperta ai nuovi orizzonti di libertà individuale, di cultura dei valori e della vita, fino alla costruzione di un progetto di vita. Ed anche i problemi, innegabili, che sorgono in questa condizione, si spera possano essere se non risolti, almeno contenuti tramite un processo di resilienza da favorire con un sostegno educativo equilibrato ed efficace.
Entrambe le valutazioni contengono elementi da considerare e ponderare, ma rimangono espressioni di pura teoria: finché non si potranno “misurare” i risultati di una tale operazione “educativa”, finché i ragazzi oggi sotto protezione non arriveranno al 18mo anno di età e, divenuti maggiorenni, potranno autonomamente decidere il proprio futuro, solo allora si potrà sapere se l’intervento ha dato risultati significativi, se il rapporto con la cultura criminale è stato definitivamente infranto, oppure se il ragazzo tornerà presso la propria famiglia di origine, riprendendo ad anni di distanza, la vita già decisa, come una sentenza ineluttabile.
Questa attesa richiederà diversi anni. Nel frattempo, le esperienze maturate potranno contribuire a migliorare gli interventi, a calibrare al meglio metodi e procedure, ad applicare in modo significativo le nuove conquiste della pedagogia.
Sarà essenziale, al di là di valutazioni giuridiche e di interventi giudiziari, che si mantenga inalterato l’afflato educativo che la decisione dei giudici pone come priorità assoluta: il diritto del minore ad una “vita normale.
* Sociologa dell’educazione, ISP Roma