Michele Mezzanotte (a cura di)
Essere un padre
Edizioni Tlon, Roma 2016,
pp. 242, € 14,90
Un libro che offre molti punti di riflessione e di analisi; anzi – ci sia consentito il gioco di parole – di psico-analisi. Gli Autori infatti, tranne uno se non erriamo, sono tutti psicoterapeuti di indirizzo analitico-archetipico e il testo è fortemente improntato da questa formazione, che si traduce in un linguaggio abbastanza criptico. Fa eccezione il capitolo di apertura, scritto da Luigi Zoja. Si tratta del resoconto registrato di una conferenza che Zoja tenne il 23 novembre del 2002, due anni dopo la pubblicazione della sua opera più famosa, Il gesto di Ettore. Anche Zoja è un analista (è stato Presidente della Associazione Internazionale degli Analisti Junghiani), ma la sua scrittura è sempre accessibile anche ai non “addetti ai lavori”. Cosa che non si può dire per gli altri saggi qui raccolti. Prendiamo per esempio quello di Giorgio Antonelli, Padre prepadre, ricco di suggestioni e informazioni, nel suo trascorrere da Freud a Jung, da Rank a Lacan, a Hillman, Stekel, Federn… E poi mitologia, religione, filosofia… Un capitolo che non è fra i più ostici del libro e offre molti spunti interessanti, ma nel quale possiamo leggere quanto segue: “In questa prospettiva Jung può trasvalutare la triadica sequenza gioachimita di Padre, Figlio e Spirito Santo, sequenza che trova il proprio inveramento nella storia e che gli gnostici avevano già annunciato, in particolare nel Trattato Tripartito attribuito a Eracleone, un seguace occidentale di Valentino”. Ora, a noi pare che chiunque non abbia una discreta conoscenza di Jung e una ancora più precisa conoscenza di storia delle religioni (il Dizionario delle religioni di Alfred Bertholet dedica una riga allo gnostico Eracleone, vissuto nel II secolo dopo Cristo, e due al suo maestro Valentino) avrà qualche difficoltà a seguire il pensiero dell’Autore.
Tra i vari contributi, quello di Marco Alessandrini, psichiatra e psicoterapeuta, affronta un tema di interesse più generale e accessibile. Titolo: “Avvicinarsi al padre mediante l’intuizione onirica: un percorso psicoanalitico attraverso l’arte”. Da Egon Schiele a William Blake, da Jackson Pollock a Alberto Savinio, per finire con Maurizio Cattelan, Alessandrini analizza alcuni esempi di raffigurazione del principio paterno da parte dell’artista. Un artista che è sempre un “padre”, in quanto la creazione artistica “consiste nel ‘far da padri’ al miracolo dell’apparire”. Tra le pagine, un’osservazione quasi en passant: “La psicanalisi e la cultura odierne sono sbilanciate in direzione della madre”.
Per concludere: un libro che entrerà degnamente a far parte della Biblioteca I.S.P., ma la cui lettura riteniamo adatta principalmente a chi svolge la stessa professione degli Autori.
Chiara Saraceno,
Mamme e papà,
il Mulino, Bologna 2016,
pp. 147, € 13,00
Molti aspetti dell’essere padre e madre sono esaminati in questo libro della sociologa Chiara Saraceno. Gravidanza e parto sono visti nel duplice aspetto della medicalizzazione, con la tendenza ad affidarsi pienamente al sapere tecnico-scientifico, e del movimento di “ritorno alla natura” che comprende l’esibizione compiaciuta del corpo in gravidanza, il parto “naturale”, il rifiuto di ogni tecnica di procreazione assistita, l’allattamento al seno, fino al co-sleeping (dormire assieme, genitori e figli piccoli, nello stesso letto). Entrambe le posizioni suonano eccessive, ma l’Autrice appare più critica verso la “svolta naturalistica”, che – sostiene – “scambia ‘tradizione’ con ‘natura’”.
Saraceno affronta poi la figura materna nelle sue odierne accezioni: “madre coccodrillo” (disposta a sacrificare se stessa pur di spianare la strada ai propri pargoli, impedendo così la loro autonomia), “madre narciso” (troppo presa da se stessa per occuparsi realmente della prole), “madre elicottero” (quella che controlla – grazie anche ai moderni apparati tecnologici – figli preadolescenti e adolescenti), fino alla “mamma tigre”, fautrice di una severissima educazione per ottenere il massimo delle prestazioni dai figli (il modello della cinese Amy Chua, ricordate?).
E i padri? Buona parte delle pagine sui padri è occupata da una polemica – garbata, per carità – con il giornalista Antonio Polito, autore del libro Contro i papà, ritenuto colpevole di imputare ai padri, troppo “fratelli” e poco “padri”, il fenomeno molto italiano dei “bamboccioni”. Per Saraceno non è colpa dello scarso antagonismo padre-figli, ossia della mancanza del conflitto generazionale, se oggi i giovani escono così tardi dalle accoglienti mura domestiche. La colpa è soprattutto di una “organizzazione del mercato del lavoro, del mercato dell’abitazione, dello stesso welfare, che scoraggia quando non impedisce l’autonomia”.
Probabilmente, due interpretazioni ugualmente unilaterali: condizioni difficili – lavorative e abitative – e welfare poco accogliente da un lato e rapporti “orizzontali” e non più “verticali” dall’altro (con i padri allineati alle madri – ed è una novità storica – nel trattenere i figli a casa) sono egualmente responsabili della prolungata permanenza in famiglia. Qua e là Saraceno esprime il suo disaccordo anche con lo psicoanalista Massimo Recalcati, autore di Cosa resta del padre e Il complesso di Telemaco, poiché, “come gran parte della psicoanalisi”, continua ad assegnare le responsabilità dell’educazione esclusivamente alle madri e perchè riprende “il suo maestro Lacan senza alcun cruccio di contestualizzazione storica e sociale”.
Giusta osservazione, condita di riflessioni, quella del frequente interrogativo se un bambino in età prescolare soffra se sua madre lavora. Domanda tendenziosa, osserva Saraceno, che pone la questione del benessere dei bambini “esclusivamente in relazione al tempo e alla presenza della madre”. “Il lavoro paterno” – aggiunge – “sembra non porre problemi per il benessere psicofisico dei bambini piccoli perché le cure e il tempo paterni non sono pensati come indispensabili allo stesso modo di quelli materni”. Dietro questo pregiudizio c’è anche (a nostro avviso sempre meno) la convinzione di una sostanziale incapacità paterna all’accudimento. “Eppure” – osserva Saraceno – “se ci si guarda in giro, di padri competenti anche nell’accudimento e nella relazione quotidiana ce ne sono parecchi”.
Laura Romano – Roberto Pozzetti,
Gaia di nome
Il Ciliegio, Lurago d’Erba (CO),
pp. 190, € 14,00
Un padre tutto d’un pezzo, distante ed egocentrico, volontario ma solo per altri, latitante in famiglia. Una madre che sprofonda nel gorgo della depressione, lontana da tutto e tutti. E poi lei, Gaia – nome di fantasia, paradossalmente falso e irridente – sei anni, poi undici, poi quattordici nella scansione dei ricordi. Un’infanzia non vissuta, trascinata fra quella madre persa nei meandri cupi del suo male e quel padre così cieco, lontano anche lui, di un’altra lontananza.
Rabbia, disperazione, solitudine, invidia per la spensieratezza delle coetanee. E naturalmente sensi di colpa (una figlia snaturata?) e vergogna. Poi l’adolescenza, che sboccia in un corpo sensuale e procace, la percezione del desiderio dei maschi, la sensazione, per la prima volta, di gestire, di comandare, di dominare. Corpo di giovane donna in una personalità fragile di bambina. L’incontro con il sesso, brutale, provocato e subíto, in pratica uno stupro. E allora bisogna punirsi, bisogna che questo corpo insozzato torni sotto il comando della sua proprietaria, bisogna trovare il modo di pulirlo, pulirlo, pulirlo… Ed ecco i lavaggi compulsivi e feroci, ecco il vomito che squassa e il rifiuto del cibo, in un metodico programma di annientamento, di morte. “… una rabbia devastante, un senso di colpa che mi avvelena; un dolore muto e una vergogna che mi divorano; un senso di impotenza, di solitudine e di perdita insieme a un bisogno prepotente di zittire questa sofferenza, di fermare questa giostra impazzita, di annientare questo corpo che mi soffoca, che si nutre di me come un laido vampiro. (…) Non ci entra più niente, dentro di me. Niente entrerà più dentro di me”.
Il ricovero in psichiatra è una tappa inevitabile che non risolve. Gaia – e tutte quelle come lei – aggira gli ostacoli, escogita trucchi e si infligge sofferenze (“Se soffro, se il dolore mi colpisce ancora con così tanta violenza, è perché sono viva, sono ancora viva”). Il suo piano di distruzione è lucidamente condotto: 37 chili, poi 34,3 (anche i grammi contano), poi 31…
Lasciamo Gaia sul limitare della morte, non sappiamo se sopravviverà. La lasciamo con queste parole: “Mi ripetono che sono in punto di morte. (…) Io sono morta molti anni fa, soltanto la mia carcassa ha continuato a sopravvivere”.
Alla storia di Gaia (storia di fantasia di cui è autrice Laura Romano, socia del nostro Istituto, e nella quale l’Autrice raccoglie evidenti frammenti della sua esperienza di consulente educativa) seguono tre parti: la prima, della stessa Romano, costituisce l’”aspetto osservativo” dei disturbi del comportamento alimentare. Anoressia e bulimia sono esaminati nelle cause del loro insorgere, nelle manifestazioni che le accompagnano, nei rituali, nel significato che assumono. Nella seconda Roberto Pozzetti, psicoanalista lacaniano, affronta il tema dei disturbi della alimentazione secondo la clinica psicoanalitica, rifacendosi soprattutto a Freud e Lacan ma attento anche alle “nuove forme del sintomo”: “modalità moderne, inconsuete, di espressione sintomatica”, modi “diversi e nuovi” attraverso i quali si manifestano l’anoressia-bulimia, la depressione, l’alcolismo e la tossicomania. Qui, inevitabilmente, il linguaggio si fa più tecnico, meno facile da seguire. E’ il vecchio difetto, la vecchia “debolezza” degli psicoanalisti. Un esempio da pag. 145: “un’amplificazione dell’immagine narcisistica in un imperativo di nirvanizzazione della corporeità al quale ‘non sgarrare’ (…) in un’impostazione superegoica tesa all’omeostasi”. Tuttavia, la lunga esperienza clinica, con particolare riferimento proprio ai disturbi dell’alimentazione, ma anche alle crisi di panico e al trattamento psicoanalitico delle crisi di coppia (fra l’altro Pozzetto svolge attività di CTU presso il Tribunale ordinario di Como) dà al testo una indubbio significato. Dal nostro osservatorio, riveste particolare interesse il paragrafo “L’amore padre-figlia”, un amore che può essere solidissimo, incorruttibile, resistente al passare degli anni – nelle parole dell’Autore – ma che, come può accadere nel caso di separazione dalla moglie-madre, rischia di fare della figlia “una sorta di nuovo partner” con esiti ovviamente infelici (fenomeno dal quale, si poteva ricordare, non è esente la madre, anzi…).
Infine, la breve terza parte di Romano chiarisce natura e finalità degli interventi educativo-pedagogici nei contesti curativi, ponendo in particolare risalto la narrazione (auto)biografica. Le conclusioni di Pozzetto riassumono il “focus” del libro: operare per una “integrazione fra la clinica psicoanalitica e una prospettiva più estesamente pedagogica”.