Nell’ultimo numero di questo notiziario l’Editoriale riguardava il trasferimento del cognome paterno e prendeva spunto dalla sentenza della Corte Costituzionale (la n. 286 dell’8 novembre 2016) che ha eliminato l’attribuzione automatica del patronimico, dichiarandola incostituzionale.
Su quanto da me scritto, il Prof. Giuseppe Magno, magistrato, già Direttore dell’ufficio minorile del Ministero della Giustizia, mi ha inviato alcune osservazioni, che hanno animato uno scambio di mail. Poiché le riflessioni di Magno sono sempre stimolanti e colgono aspetti – giuridici e non solo – che sfuggono spesso all’attenzione, gli ho chiesto di autorizzarmi a pubblicare il nostro… epistolario (manca, a tutt’oggi, un termine relativo alla raccolta e pubblicazione di mail), sicuro di fare cosa gradita ai nostri lettori. Cosa che Magno, con la sua usuale cortesia, ha subito accettato. Maurizio Quilici
Caro Maurizio,
ho letto, su ISP Notizie, il tuo appassionato articolo sul cognome del figlio, dopo l’ultima sentenza della Corte Costituzionale; la quale ha “sfondato” solo su un punto: ha sostenuto, diversamente dalle sentenze precedenti, che esiste una norma “non scritta” sull’attribuzione automatica del cognome paterno, ed ha dichiarato incostituzionale la “norma non scritta”. E’ un bel progresso, se ci pensi, perchè di “norme non scritte” se ne possono trovare anche altre, e nessuno è in grado di prevedere oggi dove possa condurre in futuro questa nuovissima pista.
Ma il motivo per cui ti scrivo è che non condivido totalmente il tuo pensiero.
Ti meravigli del fatto che la sentenza non abbia provocato alcuna discussione. Io non me ne meraviglio affatto. Innanzitutto, è troppo presto: le sentenze non le legge nessuno. In secondo luogo, e principalmente, tutto questo lavorio intorno al cognome materno non corrisponde ad alcuna richiesta proveniente dalla “base” sociale; si tratta, anzi, di una soluzione che non solo non ha mai destato il benchè minimo interesse fra la gente, ma anzi probabilmente suscita avversione presso la maggior parte delle persone. Per questo nessuno ne parla: per timore di essere contraddetto a furor di popolo. La faccenda è stata introdotta e rimuginata a livelli elitari, rappresentati da gruppi sociali, parlamentari, giudiziari (anche europei) ben definiti, portatori di ideologie confinanti con lo snobismo culturale e comportamentale.
La prova del nove di questa conclusione consiste nel rammentare le battaglie di opposto tenore, combattute poco più di quaranta anni fa, per cancellare “l’onta” rappresentata dal cognome materno attribuito ai figli nati fuori dal matrimonio, e consentire anche a loro di ottenere il cognome paterno, significativo di uno statuto sociale paritario.
Il tuo scritto – limpido e onesto come sempre – parte dalla giusta considerazione che questo tipo di cambiamenti non può essere assunto alla leggera, perchè è suscettibile di provocare conseguenze dannose sul corpo sociale, non indagate previamente da alcuno. Ma sostanzialmente conclude che è giusto disciplinare l’attribuzione del cognome in modo più rispettoso della parità fra uomo e donna.
Questa conclusione a me sembra contraddittoria. Se il nome (prenome e cognome) appartiene intimamente alla sfera identitaria del figlio, come suo diritto personalissimo, allora non ha nulla da spartire con la problematica della parità dei generi. L’accordo sociale pluri-millenario sul nome (prenome+cognome) del figlio è nei termini seguenti: il prenome è scelto d’accordo fra i genitori, il cognome è quello della gens paterna, non per volontà del padre, ma per una questione di rilevanza sociale: per consentire la chiara attribuzione di ogni membro della società ad una gens.
Le tendenze elitarie contemporanee conducono, più spesso inconsciamente, non tanto alla dissoluzione della famiglia (considerata una fatiscente struttura borghese) quanto alla massima “liquidità” sociale, ossia alla massima solitudine dell’individuo.
Ecco perchè, dal mio punto di vista, non dovremmo trattare un argomento di tale gravità con giri di frasi politicamente corrette, cadendo nella trappola dei discorsi sulla parità di genere. Per me, questa non si discute: fra maschio e femmina, e quant’altri, non debbono sussistere differenze di trattamento giuridico, economico, sociale, ecc., stante la fondamentale pari dignità di esseri umani. Ma il nome del figlio è proprio del figlio, non entra affatto nel gioco delle parità fra genitori, e perciò non può essergli attribuito grazie ad un minuetto fra padre, madre, legislatori, corti di giustizia, femministe e intellettuali snob. Credo che in questo, tutti quelli che sono seriamente preoccupati dei diritti dei figli e della coesione sociale dovrebbero essere molto chiari, e denunziare la novità senza mezzi termini per quello che è: una mistificazione.
Non sono un ingenuo. So bene che molte trasformazioni sociali, anche quelle che hanno portato a significativi e necessari cambiamenti e ad un più esteso godimento di diritti, sono stati innescati da prese di posizione fallaci, talvolta perfino grottesche; le quali però hanno fatto presa (scusa il bisticcio) sulla gente perchè evocavano un sentimento generale. Nel nostro caso, siccome un “sentimento generale” sul cognome del figlio proprio non esiste – tanto che tu invano hai cercato qualche risonanza sui media della sentenza costituzionale -, allora si cerca di contrabbandare l’innovazione sotto le false specie della parità di genere.
Sussiste tuttavia la possibilità che l’operazione fallisca. Se l’opinione pubblica, correttamente informata, continuerà a pretendere, come in un recente passato ha fatto con forza, che il figlio assuma il cognome del padre (quando questo è conosciuto), allora il comportamento contrario di gruppi ristretti avrà la risposta che si merita, anche da parte degli stessi figli. Questa è, poi, la ragione per cui mi sento di dover parlare con chiarezza: per non essere poi accusato di avere taciuto o di avere contribuito a diluire il vino dei diritti, individuali e sociali, con l’acqua del politically correct. Un caro saluto.
Giuseppe Magno
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Caro Giuseppe,
ti ringrazio di cuore per il tuo commento. Se il mio scritto era, come tu dici, appassionato, il tuo non lo è meno. E come sempre è denso di riflessioni e di stimoli. Ricordavo la tua posizione in materia, ma è stato un piacere ripercorrerne i tratti. Devi assolutamente consentirmi di pubblicare questo scritto sul prossimo numero di ISP notizie. Sarà un contributo importante per stabilire un dialogo – e, perché no, un contraddittorio – con altri, nella speranza di smuovere quelle acque che vediamo così indifferenti (ma anche così torbide). Mi piacerebbe parlarne con te a voce. Infatti, concordo su alcune cose, però se il nome del figlio appartiene al figlio, come osservi, allora è giusto che sia lui e solo lui a decidere, quando sarà in grado di farlo (certo, sempre fra cognome paterno e materno, a meno di accogliere la fantasiosa ipotesi che il figlio possa chiamarsi con un cognome qualsiasi). Ma se continua a ricevere il patronimico non si può certo dire che il cognome sia cosa solo del figlio. E se, come tu dici giustamente, il cognome appartiene “alla sfera identitaria del figlio”, è il patronimico che entra pesantemente in quella sfera identitaria, non un qualcosa di neutro. Concordo anche sulla rilevanza sociale del cognome paterno come individuazione della gens. Ma proprio questa rilevanza, a mio avviso, fa sì che l’evanescenza dei nostri antenati sia maggiore per la linea materna. I miei nipoti, anche attraverso il cognome, ricostruiscono più facilmente la linea dei loro progenitori paterni (è accaduto anche a me) che non di quelli materni. Anche per questo non riesco a non vedere una forma di ingiustizia nel fatto che un figlio abbia due genitori ma tramandi il cognome di uno solo di essi, sempre e solo quello paterno. Questo pur con tutta la mia considerazione, che ben conosci, sulla rilevanza della figura paterna e nonostante le mie profonde perplessità su una strada che a me pare ormai segnata. E, per carità, senza alcuna cedevolezza al politically correct …
Ancora grazie e un abbraccio!
Maurizio
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Caro Maurizio,
non ho nulla in contrario alla pubblicazione di quanto ti ho scritto, e di quanto aggiungo qui in risposta ad alcune tue pertinenti osservazioni.
Dici, acutamente, che, se il nome corrisponde ad un diritto personalissimo di ciascuno, allora solo il figlio potrebbe sceglierlo, una volta raggiunta la maggiore età; aggiungi, però, giustamente, che “se continua a ricevere il patronimico non si può certo dire che il cognome sia cosa solo del figlio”.
La perplessità generata da queste due proposizioni, apparentemente antitetiche, si supera – a mio parere – riflettendo sui seguenti punti:
– il patronimico non è un bene di proprietà del figlio, e neppure del padre, che non può regalarlo o negarlo a suo piacimento; è un mezzo sociale per l’identificazione certa di una discendenza familiare;
– il figlio non può scegliere il cognome (tranne casi eccezionali previsti e disciplinati dalla legge), perchè nessuno – nè lui stesso, nè il padre, nè la madre, nè lo Stato, nè chiunque altro – deve disturbare (stavo scrivendo, inquinare) la verità storica della discendenza lineare;
– se la maggioranza sociale lo richiedesse (per es., in una società matriarcale, o divenuta tale), si potrebbe abbandonare il patronimico ed inaugurare il matronimico, nel senso che il figlio prende sempre il cognome della madre; ma giammai si dovrebbe adottare un sistema che, permettendo la trasmissione di un cognome a scelta, o di entrambi, serva a scardinare completamente l’idea di appartenenza e discendenza familiare;
– il diritto personalissimo del figlio al proprio nome non significa, quindi, che egli lo possa scegliere; significa invece che egli non dev’essere disturbato, nel godimento di tale diritto, dall’intervento dei genitori che, manipolando a proprio piacimento, per loro ragioni personali (anche teoricanente valide, come la parità di genere) la sua identità, lo trattano come un oggetto di loro esclusiva proprietà. Per quale motivo la parità di genere sarebbe un concetto di rango superiore rispetto a quello della dignità della persona umana? In nome della parità di genere, le donne sarebbero disposte a sacrificare la personalità e l’avvenire dei loro figli?
Sembrerebbe di no. Per fortuna, non siamo ancora a questo punto.
Le Monde del 23.5.2013 si chiede come mai, dopo la legge del 2005 che concede ai genitori il diritto di scelta del cognome del figlio, l’83% delle coppie continua a volere la trasmissione del solo cognome paterno.
La mia risposta è che una madre, all’atto pratico, fa la scelta migliore per il figlio. Checchè, direbbe Totò.
D’altra parte, Olympe de Gouges, nella postfazione alla sua Déclaration des droits des femmes (1791), era molto perspicace nel propugnare il diritto “dei figli” di scegliere il proprio cognome fra quelli del padre e della madre; si guardò bene dal sostenere che si trattasse di uno dei diritti della donna. Il che non impedì, purtroppo, che finisse sulla ghigliottina, il 3 novembre 1793. Ma erano altri tempi. Un abbraccio.
Giuseppe