di Laura Romano *
Gli uomini che vivono la “nonnità” in questi anni sono quelli divenuti padri negli anni ’80, epoca nella quale erano ben consolidati i cambiamenti culturali, sociali e familiari avvenuti nei due decenni precedenti; sono uomini che, dunque, hanno vissuto la genitorialità in modo assai differente rispetto ai propri padri e nonni, che hanno collaborato con le partner nell’accudimento e nella cura dei figli, che hanno spinto carrozzine, allattato con il biberon e giocato con i bambini fin dal momento della loro nascita.
Tutto sembrerebbe agevolarli in questo ulteriore cambiamento di status. Occorre considerare, tuttavia, come ogni transizione esistenziale porti sempre con sé una certa quota di ambivalenza; nulla – nelle biografie plurime che ciascun individuo attraversa nel corso del ciclo di vita – può essere esente dal coesistere, in modo più o meno marcato, più o meno profondo, con emozioni, sensazioni, riflessioni che potrebbero risultare contraddittorie se non si considerasse la complessità che è propria dell’essere umano. L’ambivalenza abita ciascun individuo, soprattutto nelle relazioni più significative.
Diventare nonno, dunque, rappresenta uno dei molti eventi apicali che un uomo può vivere nel corso della vita: si modifica la percezione di sé, si modificano il proprio ruolo e status, si modificano i rapporti e le dinamiche intrafamiliari.
Per la maggior parte degli individui, probabilmente, questa ulteriore metamorfosi rappresenta – in modo pressoché totale- un passaggio positivo e felice, desiderato e accolto con entusiasmo e slancio, vivendo la genitorialità del proprio figlio (o della propria figlia) positivamente, serenamente, con un successivo atteggiamento autenticamente affettivo ed educativo, benché su un piano differente, nei confronti del nipote. Gli uomini che vivono così la “nonnità” sono pronti a fare esperienza della nuova identità e del nuovo ruolo re–inventandolo, poiché non è più possibile fare riferimento a una qualsivoglia tradizione, confrontarsi con i precedenti modelli e da lì attingere a un sapere, saper fare e saper essere.
Non per tutti è così. Vi sono uomini per i quali questo cambiamento suscita emozioni non soltanto marcatamente ambivalenti, ma anche prevalentemente di segno negativo.
E non si può individuare una ragione soltanto; per ciascuno di questi, la “nonnità” può risultare difficoltosa per una differente ragione, per un diverso vissuto, che attengono ad aspetti profondi, solitamente poco elaborati e compresi.
Qualcuno si sente colto alla sprovvista, travolto da un senso di profondo disorientamento. Alcuni uomini, infatti, “non si sentono pronti”, non riescono a declinare e a riconoscere l’immagine che hanno di sé dentro il profilo di “nonno”.
E’ come se questi uomini vivessero una sorta di scollamento fra la percezione di sé come individui ancora giovani, attivi, “forti” e l’immagine interiore correlata al ruolo di nonno, che implica inevitabilmente l’ingresso in una differente generazione, quella degli anziani, quella di coloro che – nella costellazione familiare – non sono più “in prima linea”. Gli uomini che più spesso faticano nell’assunzione dell’identità di nonno sono coloro che hanno incontrato difficoltà anche rispetto a quella di padre, considerando quel passaggio come la fine della giovinezza; diventare nonni rappresenta, ora, la fine dell’attiva maturità. L’arrivo del nipote richiama immediatamente l’ineludibile ricambio generazionale e pone in evidenza il limite esistenziale, la finitezza di ciascuno, il confronto con la morte. Per questi uomini, ogni passaggio esistenziale generatore di cambiamento rappresenta una “perdita” piuttosto che un’acquisizione; è come se leggessero soltanto la conclusione di una fase personale, piuttosto che l’apertura a ulteriori opportunità e possibilità relazionali.
Per altri uomini la difficoltà nell’elaborare e costruire il proprio profilo di nonno ha molto a che vedere con l’esperienza vissuta nei panni di padre, con i rimpianti o i rimorsi che riaffiorano; ogni trasformazione esistenziale, infatti, ricapitola i ricordi e i vissuti dell’intero ciclo di vita.
Il neo-nonno si ritrova spesso a confrontare la propria esperienza di genitore con quella attuale e a guardare la paternità del proprio figlio o di proprio genero dando vita ad un’autovalutazione che, talvolta, lo lascia amareggiato; può accorgersi di essere stato troppo severo o troppo distratto, di aver delegato eccessivamente alla partner, di essersi concentrato quasi esclusivamente sulla professione…. Questa consapevolezza può suscitare una tale amarezza da spingere a prendere distanza emotiva dall’esperienza della “nonnità”.
Altre volte, può accadere che il distanziamento da quanto sta avvenendo venga preso con l’intento – benché gli esiti saranno disfunzionali per tutti – di tutelarsi e di tutelare il figlio e il nipote; dalla nuova posizione occupata nella costellazione familiare, il nonno si rende conto che si vanno ricreando e ripetendo tra il proprio figlio ed il proprio nipote le stesse tensioni, gli stessi conflitti e le stesse dinamiche di segno negativo che, a suo tempo, avevano segnato la propria esperienza di genitore. Per quanto avverta il desiderio di intervenire, molto spesso il nonno sceglie di tacere per il timore che gli vengano rinfacciati gli errori che ha commesso o attribuite delle colpe da quel figlio ora divenuto a sua volta padre. Nell’ambito trigenerazionale si creano così “non detti” e silenzi che non favoriscono certo un positivo evolversi delle dinamiche.
Per altri uomini ancora, diventare nonno può rendere ancor più necessario affermare la propria posizione di potere, che sembrerebbe in declino: calandosi nella posizione non autorevole, bensì autoritaria del patriarca, un simile nonno agisce invasioni di campo, intrusioni, prevaricazioni inopportune, fuori luogo e fuori tempo. Il rischio di una sfida insensata e dolorosa si presenta quando il nonno è stato quello che si può definire “padre rivale”, quello che ha sempre voluto primeggiare, dominare, eccellere, quello che squalificava e ridicolizzava il proprio figlio bambino. Il fatto che, ora, quel figlio sia un uomo adulto non modifica l’atteggiamento di chi è nel ruolo di nonno.
La maggior parte dei nonni, tuttavia, vive in modo positivo questa transizione e si colloca in modo sereno e adeguato nella nuova costellazione familiare che va creandosi, pronto a scrivere un nuovo capitolo del romanzo della famiglia cui appartiene.
Chi è, allora, il nonno “ideale”? Chi è nei confronti di se stesso, del proprio figlio e del proprio nipote?
Innanzi tutto, è un uomo consapevole della propria biografia, della propria storia di vita e pacificato rispetto ad essa, è un uomo che ha vissuto gli eventi apicali dell’esistenza accogliendo gli inevitabili cambiamenti – di segno positivo o negativo – come apprendimenti; che è pronto ad affrontare questa ulteriore metamorfosi come una ad-ventura, come un viaggio, adeguatamente attrezzato tanto quanto positivamente aperto agli imprevisti.
Nei confronti del proprio figlio (o della propria figlia, evidentemente) quest’uomo è pronto ad assumere con consapevolezza ed equilibrio una nuova posizione e un nuovo ruolo – appunto nuovi, differenti, non migliori o peggiori. Sa essere disponibile, collaborativo, presente; offrire suggerimenti alla generazione di mezzo senza prevaricare e pretendere di essere obbedito; rispettare il ruolo e la funzione educativa dei genitori del bambino.
Vive il nipote come un dono e un’opportunità, lo fa divertire e si diverte con lui, cogliendo non tanto l’aspetto del dovere nell’occuparsi di lui, quanto quello del piacere nel condividere tempo e esperienze con il piccolo; gli offre attenzione e affetto e lo inserisce nella storia familiare narrandogli aneddoti dell’infanzia del padre, rinforzando così la catena intergenerazionale.
Tutto questo diventa possibile quando il nonno è consapevole e orgoglioso del proprio specifico ruolo educativo; la relazione che lega nonno e nipote è profonda e coinvolgente, ma meno emotivamente complessa e turbolenta di quella tra padre e figlio.
Il rapporto è più libero, complice, più fondato sulla tolleranza rispetto a quello propriamente genitoriale perché la responsabilità pedagogica non è diretta, bensì mediata. Questo, ovviamente, non significa che il nonno non abbia un ruolo importante, in alcune circostanze e fasi della vita addirittura essenziale.
Ecco, allora, il valore profondo dell’approccio autobiografico; gli eventi apicali dell’esistenza pongono ciascun individuo di fronte a un cambiamento, a una metamorfosi, a una revisione di sé e delle relazioni con gli altri significativi: per continuare a crescere – in ogni fase del ciclo di vita – occorre saper vedere e accogliere le transizioni come occasioni di nuovi, ulteriori apprendimenti.
* Consulente educativa e formatrice. ISP Como