di Maurizio Quilici *
Questa volta parliamo di un argomento “frivolo”, che frivolo non è: il rapporto fra un genitore e il suo cellulare, ma soprattutto fra un genitore e il cellulare del figlio. Mi dà lo spunto vedere che finalmente qualcuno comincia a preoccuparsene e spinge alla riflessione: Aldo Cazzullo, editorialista del Corriere della sera, pubblica Metti via quel cellulare, in un dialogo-confronto con i suoi figli, naturalmente dediti al cellulare (il libro sarà recensito nel prossimo numero di ISP notizie); Federico Moccia dirige il film Non c’è campo, storia di un gruppo di studenti che con le loro insegnanti compiono un viaggio culturale di una settimana in un borgo del Salento e qui scoprono con raccapriccio che, appunto,… non c’è campo (la forzata astinenza scatena imprevedibili reazioni, ma alla fine i ragazzi scopriranno che oltre lo schermo dello smartphone c’è un mondo a loro sconosciuto, fatto di bellezze della natura e di rapporti umani concreti e vicini); i media suscitano commenti scandalizzati pubblicando la foto che ritrae i turisti giapponesi a bordo di una gondola, tutti intenti a guardare lo schermo del loro telefonino anziché guardarsi intorno. E si moltiplicano i saggi sull’argomento. Cito, fra i più recenti, Troppo connessi? di Martin Blank, sugli effetti delle radiazioni elettromagnetiche per la salute; Il controllo sottile, di Davide Ferrante, sulla manipolazione degli utenti resa possibile da TV, social network e smartphone; Genitori 2.0, educare i figli a navigare sicuri, di Giuseppe Maiolo; infine, ricordo un testo più che mai attuale anche se edito nel 2003: Psicopatologia del cellulare, sottotitolo Dipendenza e possesso del telefonino, dello psicologo Luciano Di Gregorio.
La dipendenza da telefonino riguarda anche gli adulti, ma assume forme preoccupanti soprattutto per i giovani e giovanissimi. Il tema tocca, naturalmente, i genitori. E forse questa volta più le madri che i padri. Di solito sono loro, infatti, che, anche quando lavorano, trascorrono più tempo con i figli e hanno più occasioni di “controllarli” (e di tenerli buoni con il cellulare). Ai padri toccherà, naturalmente, confermare le regole materne sull’uso degli strumenti “social” e ribadirle con quella (poca) autorità o autorevolezza che rimane loro.
Anche la scuola potrebbe e dovrebbe fare la sua parte, ma la continua delegittimazione di maestri e professori rende la cosa piuttosto difficile. Insegnanti più severi vietano l’uso del telefonino in classe (alcuni hanno provato a “sequestrare” gli apparecchi all’inizio delle lezioni riconsegnandoli alla fine, e hanno suscitato le ire dei genitori), altri chiudono un occhio per quieto vivere. La ministra Fedeli ha auspicato e incoraggiato l’uso di tablet e smartphone nelle aule, quali utili strumenti di studio. Che Internet possa servire a fornire nozioni e informazioni non c’è dubbio (con la supervisione di qualcuno che sappia distinguere la bontà delle fonti e con la consapevolezza che si tratta di informazioni bell’e pronte, con possibilità addirittura di copia-e-incolla, senza alcuno sforzo di ricerca da parte dell’allievo), ma portarla in classe non snatura il rapporto – umano, profondo, significativo – fra insegnante e studente? Ancora una volta, mi pare, si privilegia la relazione con la macchina anziché quella con la persona e si incoraggia quella dipendenza totalizzante che crea un rapporto simbiotico fra un individuo e il suo piccolo schermo, contribuendo a quella che il sociologo Giovanni Battista Sgritta chiamò efficacemente, in una sua ricerca, “anoressia relazionale”.
Umberto Eco diceva che se fosse dipeso da lui il cellulare l’avrebbero avuto solo i trapiantatori di organi e gli idraulici. Ricordo, alcuni anni fa, una scena che mi colpì molto (non era ancora diventata così comune): padre, madre e figlio al tavolo di un ristorante. I genitori immersi nel loro smartphone e il bambino – di dieci o dodici anni – impegnato in un videogioco su tablet. Continuarono così per tutta la cena, alternando una forchettata a un’occhiata allo schermo, e non si dissero mai una parola. Solo la madre, a un certo punto, si interruppe perché il bimbo, troppo preso dal gioco, non mangiava. E così lei lo imboccò teneramente, mentre lui continuava a smaneggiare con il tablet.
C’è una vicenda giudiziaria che racconta bene come si vada creando una concezione paradossale e distorta dello smartphone ed è una vicenda legata a un episodio drammatico, la morte di un ragazzo dodicenne che durante un’escursione in gruppo, guidata da un adulto tutt’altro che inesperto, salì su una catasta di tronchi che crollò travolgendolo. In quella circostanza l’accompagnatore chiese aiuto con il suo cellulare, ma si accorse che in quel punto non c’era campo e dovette spostarsi – pare – di circa 500 metri per poter effettuare la chiamata. Bene, nel procedimento giudiziario in corso il giudice ha contestato all’accompagnatore due cose: non aver controllato in precedenza che lungo tutto il percorso ci fosse sempre campo e non aver consentito ai ragazzi di portare con sé il cellulare, che secondo lui avrebbe costituito un elemento di sicurezza. Ora, come giustamente ha messo in rilievo il Presidente nazionale del Club Alpino in un suo editoriale sulla rivista del sodalizio, chi (come il sottoscritto) va per montagne sa bene che spesso tra boschi e vette non c’è campo e subordinare una camminata alla presenza di questo sull’intero percorso renderebbe praticamente impossibile organizzare escursioni. Quanto alla seconda obiezione, l’accompagnatore si è difeso facendo osservare che l’esclusione dei cellulari era stata decisa in base a due considerazioni: la prima, che su un sentiero di montagna va proprio interdetto l’uso del telefonino a un bambino o ragazzo, per evidenti ragioni di sicurezza (immaginate, visto l’uso compulsivo che ne fanno i giovani, chattare o seguire un videogioco mentre si percorre un sentiero magari impervio o un po’ esposto); la seconda, che lo spirito della montagna è quello di un contatto con la natura e di una osservazione di questa, di uno “stacco” dalla vita urbana e quotidiana e che pertanto la proibizione del cellulare aveva una finalità prettamente educativa. Non potrei essere più d’accordo.
Personal computer, smartphone, tablet, e-reader (quest’ultimo, ci dicono le ricerche di mercato, sta subendo la concorrenza spietata del telefonino: la gente vuole leggere anche i libri sul piccolo amico inseparabile) sono tutti strumenti che hanno fatto fare grandi passi avanti all’uomo e offrono enormi potenzialità, ma che necessitano di capacità, controllo e misura (non diversamente dalla guida di un’automobile, altra “macchina” che ha stravolto – nel bene e nel male – la nostra esistenza ma per gestire la quale si richiede una competenza specifica). Ebbene, è ai genitori che competono quella misura e quel controllo (la capacità i bambini, beati loro, ce l’hanno ormai innata). Padre e madre hanno la responsabilità di insegnare ai figli l’uso corretto e limitato di questi potenti mezzi di comunicazione. Loro devono dare regole che gli esperti (e il buon senso) indicano con sicurezza: non per troppo tempo di seguito, non con troppa frequenza, non a tavola, non al cinema, non a letto… Qualche parola sull’uso del cellulare prima di addormentarsi. Molti genitori hanno sostituito anche il breve tempo della fiaba o della storia prima del sonno con una dose di cellulare (cartone animato, film, social…). Abitudine orrenda, che toglie uno dei momenti più belli e profondi di intimità genitore-figlio. Gli adolescenti, poi, usano spesso il cellulare per le ultime chat prima di addormentarsi e così facendo – come ha dimostrato una ricerca statunitense condotta su oltre 1.700 giovani adulti – peggiorano sensibilmente la qualità del sonno.
Ai luoghi vietati aggiungerei l’automobile, durante i viaggi: perché in viaggio si parla, si comunica, si guarda fuori e si commenta. E si impara a non prendere la pericolosissima abitudine che hanno molti giovani patentati di chattare mentre guidano (li riconoscete perché guidano alzando e abbassando rapidamente gli occhi).
I rischi di un uso del telefonino privo di educazione e controllo sono nelle frequenti notizie di cronaca: ragazzine adescate grazie ai social, fome di cyberbullismo, rischio per i bambini di incappare in siti pornografici (o la ricerca di questi, con la curiosità tipica dell’età). Il meno che può succedere è quello che è capitato a una coppia che conosco: la loro figlia di nove anni ha aperto un account con il nome e cognome del padre, all’insaputa dei genitori ha fatto filmati della vita domestica, di se stessa nella intimità della sua cameretta e ha messo il tutto su Youtube, informandone, orgogliosa, amici e amiche. Per non parlare, naturalmente, del gran numero di incidenti stradali provocati dall’uso del cellulare mentre si guida, o dei rischi – tutti da capire, ma molto probabili – delle tante onde elettromagnetiche alle quali siamo sottoposti quotidianamente.
“La cosa peggiore che sia successa a tutti noi” – ha affermato Zoe Cassavetes, scrittrice e regista, figlia di Gena Rowlands e John Cassavetes – “è lo smartphone. Gli affidiamo le informazioni, condividiamo tutto quello che viviamo. Non pensiamo più a noi stessi. Non sappiamo fare una conversazione. Così l’umanità muore”. Eccesso di pessimismo?
In realtà molti sociologi e psicologi guardano con preoccupazione all’irrompere di questi nuovi mezzi di comunicazione. E si raccomandano a padri e madri. I quali naturalmente, prima ancora di insegnare e educare, devono dare l’esempio. Ma i genitori sono spesso i primi a isolarsi nel mondo del loro telefonino, a non conoscere il senso della privacy e il momento della intimità e del dialogo. E allora? Chi educherà gli educatori? La scuola –come ho detto – potrebbe aiutare, ma sembra non avere più la forza e l’efficacia necessarie. Da quel che vedo, solo i nonni – per immunità generazionale – cercano spesso di opporsi a un uso sconsiderato e invadente del cellulare da parte di figli e nipoti. Ma la loro voce è davvero flebile se paragonata allo sfrontato, arrogante, onnipresente squillo dei cellulari.
* Presidente dell’I.S.P.