di Monica Leva*
Non vi è giorno in cui i media non diffondano notizia di nuovi casi di cronaca nei quali mogli, compagne, fidanzate, figlie, donne di differente età, vengono uccise da mariti, fidanzati, ex, padri, comunque uomini e il termine “femminicidio” è certamente uno dei più ricorrenti, ma di sicuro non l’unico possibile e tantomeno il più appropriato ad ogni circostanza. Definire indiscriminatamente femminicidio ogni singolo episodio di violenza contro le donne, presuppone, infatti, un preciso orientamento teorico e l’assunzione implicita di un punto di vista non sempre pertinente.
In un’epoca in cui la violenza attraversa abbondantemente tutte le relazioni umane, è fin troppo facile considerare quella sulle donne una manifestazione unitaria e dalla matrice univoca, e sicuramente non aiuta a comprenderne la vera natura e a contrastarla adeguatamente.
Il primo passo verso una maggiore comprensione del fenomeno è quello di esaminare le condotte violente nelle loro varie sfumature e definizioni, iniziando, così, ad uscire dal grande “contenitore” della cosiddetta violenza di genere.
Infatti, con questo termine viene ormai indicata “qualsiasi” forma di violenza che una donna subisce per mano di un uomo, qualora quest’ultima non sia vittima accidentale di un evento che la trova coinvolta solo casualmente.
Per quanto non sia così facile risalire alle origini di tale espressione, la si incontra ufficialmente per la prima volta nella “Declaration on the elimination of violence against women”, adottata dall’ONU nel 1993, che testualmente recita: «Per gli scopi di questa Dichiarazione, il termine “violenza contro le donne” significa ogni atto di violenza di genere che esita in (o è probabile che esiti in) danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche verso le donne, includendo minacce di questi atti, coercizione o deprivazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica o in privato».
Sebbene appaia qui evidente la volontà di circoscrivere tale definizione a un ambito specifico e circoscritto nel tempo e nello spazio, l’espressione “violenza di genere” ha iniziato a essere, perlomeno nel nostro Paese, ampiamente associata alla violenza nei confronti della donna tout-court, senza il necessario discernimento rispetto alle sole situazioni in cui è il diverso genere della persona che subisce violenza rispetto a chi la perpetra, il movente essenziale di colui/colei che la agisce.
E sebbene soltanto da quest’ultima prospettiva sia possibile far discendere il concetto di “femminicidio”, altrettanto si tratta di un termine ormai da tempo usato e abusato in modo spesso improprio e fuorviante.
Se, infatti, le argomentazioni tradizionali impiegate per rendere conto della violenza contro le donne, come appunto il genere e ancorpiù il patriarcato, sono state parzialmente aderenti alla realtà nel passato e forse ancora oggi in specifici contesti sociali e culturali arretrati, attualmente non sono assolutamente sufficienti a descrivere la fenomenologia corrente.
il termine “femminicidio” fu coniato in ambito giuridico dalla criminologa Diana Russell, che lo introdusse per la prima volta 1992, nel libro Femicide. Secondo la stessa autrice, il concetto può contemplare tutte quelle situazioni in cui: «…la morte della donna rappresenta l’esito o la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine».
Possiamo quindi, anche qui, rilevare la matrice patriarcale dell’assunto che circoscrive palesemente l’uccisione di una donna in quanto donna per mano maschile, indipendentemente dalla specificità della vittima e della relazione con l’autore di violenza. Il paradigma patriarcale, che a sua volta nasce col femminismo marxiano, interpreta la società dell’epoca precipuamente sul criterio del genere, il maschile dominante sul femminile, la famiglia come luogo elettivo di oppressione e la violenza nella coppia quale strumento maschile privilegiato per mantenere le donne in uno stato di dipendenza e sottomissione.
In realtà, oggi, gran parte della violenza e della conflittualità nella coppia, non deriva affatto di una ideologia di sopraffazione dell’uomo sulla donna e non ha alcuna specificità di genere: prova ne è la rilevante presenza di violenza femminile non esclusivamente in risposta a quella maschile e quella agita, ad esempio, all’interno delle relazioni intime tra persone dello stesso sesso. Il messaggio che viene invece implicitamente veicolato dai media è quello che l’uomo, in quanto maschio, sia violento a priori e, come noto, il rischio degli stereotipi è che divengano una chiave di lettura riducente e distorcente della realtà.
Questo preconcetto gravissimo e fuorviante che attribuisce un sesso alla violenza e ne relega le cause a presunte caratteristiche innate e “naturali”, pone, di fatto, le basi per un estremo pregiudizio, annullando il ruolo e la responsabilità personali.
I fenomeni di violenza sono molto complessi e articolati e soprattutto hanno una storia e un significato. Sono numerosi gli esempi storici e le ricerche scientifiche che dimostrano come, per l’essere umano, l’aggressività non sia affatto qualcosa di “naturale”, non dipenda dal DNA e non risponda a dinamiche codificabili e che l’agire violento sia piuttosto un atto contestuale e non mai il mero risultato di innati e incoercibili processi biochimici.
Come ben spiega e documenta nel suo libro, “La bestia dentro di noi” Adriano Zamperini, docente di Psicologia della violenza, di Psicologia del disagio sociale e di Relazioni interpersonali all’Università di Padova: «…non esiste una presunta molla aggressiva alla quale ascrivere le azioni violente verso gli altri e non esistono supporti empirici che possano dimostrarla».
L’errore è proprio quello di lavorare troppo spesso sulla categoria piuttosto che sulle persone.
A riprova di questo, se prendiamo in considerazione la teoria dell’apprendimento sociale, secondo la quale i comportamenti violenti sarebbero frutto di modelli educativi appresi, trasmessi a livello intergenerazionale, possiamo coglierne facilmente i limiti.
Una vasta letteratura scientifica dimostra innanzitutto che non tutti i bambini cresciuti con genitori violenti e/o che abbiano subito abusi divengano poi adulti violenti, ma neppure nel caso contrario (ovvero di bambini violenti con genitori violenti), si può escludere a priori la variabile che le cause della violenza siano correlate ad altri e diversi fattori ambientali sfavorevoli.
Tantomeno è impossibile pensare di non prendere in considerazione, nell’essere umano, i fattori soggettivi sia di rischio che di resilienza.
Una lettura esclusivamente sociologica, fondata soltanto sulla devianza, si traduce inevitabilmente in una forma vera e propria di “riduzionismo filosofico”, un grave problema ideologico che porta alla perdita della dimensione della complessità; l’individuo va compreso nel suo contesto e nella sua storia, e questo è terreno di specifica pertinenza della psicologia.
Non sono infatti concepibili modelli di intervento idonei ed efficaci sugli autori di violenza che non contemplino la variabile psicologica del fenomeno, la soggettività e il funzionamento della loro personalità.
Nel nostro Paese esiste una carenza profonda sull’intervento psicologico sul tema e, da questo punto di vista, quando si parla di relazioni maltrattanti, il cui meccanismo fondante è la distruzione dell’altro, occorre innanzitutto evidenziare che questo è assolutamente identico per uomo e donna.
Lo stesso termine violenza domestica, coniato negli anni ’70 e usato in modo generico dagli studiosi per indicare la violenza nella coppia matrimoniale, in cui la vittima era tipicamente la donna, oggigiorno viene utilizzato per designare qualsiasi atto di violenza tra partner, senza alcuna definizione a priori del genere dell’abusante e della vittima.
Altrettanto si può affermare per l’espressione Intimate Partner Violence (IPV), denominazione più recente, comparsa nel 2000 e maggiormente diffusa nella letteratura internazionale per connotare la violenza tra persone che abbiano, o abbiano avuto, una qualunque relazione intima (coniugi, fidanzati, partner occasionali, etc.). Ovviamente, al passo con i mutamenti sociali, non è più stato possibile concepire soltanto la coppia classica eterosessuale e la moglie tradizionalmente sposata quale esclusiva, possibile vittima dell’uomo.
Una lettura puntuale e profonda del comportamento violento, porta a identificarne le radici in due configurazioni relazionali tipiche e tra loro molto differenti, ovvero all’interno di una situazione di conflittualità di coppia molto elevata, caratterizzata dall’incapacità di separarsi, oppure in una struttura di personalità dell’autore di violenza francamente patologica. Se nel primo caso è la relazione disperante l’elemento fondante del maltrattamento, relazione che genera sofferenza e nella quale la violenza diventa l’espressione difensiva disfunzionale da un dolore antico destabilizzante che si rivive, nel secondo caso si tratta generalmente di un grave disturbo della personalità caratterizzato, secondo una chiara definizione di Caretti e Craparo del 2010, «da una condizione di aggressività istintuale e dall’incapacità di stringere una relazione oggettuale basata sulla reciprocità e sulla corrispondenza delle comuni emozioni», che conduce il soggetto ad agire una violenza unilaterale indipendentemente dalla relazione con quello specifico partner.
In conclusione, la psicologia, che per suo intrinseco mandato mai prescinde dagli individui, dalle loro relazioni, dalla loro mente e dalle loro storie, non può che negare ogni e qualsiasi definizione e/o classificazione dell’atto violento che escluda un’accurata indagine del soggetto e delle circostanze. Da ciò si evince definitivamente che l’essere umano di genere maschile nella sua generalità non umilia, picchia, o peggio ancora uccide il proprio partner poiché cela immancabilmente in sé un maltrattante, ma questo può accadere e, purtroppo accade, in condizioni specifiche e talvolta estreme che sarebbe importante imparare a riconoscere a fini preventivi, proprio perché caratterizzate da segnali precisi e ricorrenti. Attraverso una richiesta precoce di aiuto, la psicologia può efficacemente intervenire nello spezzare la spirale della relazione violenta, così contribuendo alla diminuzione degli episodi di maltrattamento spesso ad esito letale di cui oggi constatiamo la crescita esponenziale.
* Psicoterapeuta. Vicepresidente I.S.P.