Ci sono voluti otto anni, ma alla fine l’iter giudiziario di Luigi Renato Zardo, il padre al quale la moglie ucraina sottrasse il figlio per tornare nel suo Paese, si è concluso con la piena condanna della donna. Non si è conclusa, purtroppo, la vicenda umana, poiché tutte le richieste e i provvedimenti emanati dalle autorità italiane sono stati ignorati e Zardo, dopo alcuni, brevi contatti con il figlio in Ucraina dove si era recato, non ha più visto né sentito il bambino.
Della storia di Zardo abbiamo parlato più volte nel nostro notiziario, in quanto emblematica di un fenomeno – la sottrazione internazionale di minori – sempre più diffuso per via dell’aumento dei matrimoni misti e che spesso, come in questo caso, non si risolve positivamente.
Era l’11 maggio del 2012 quando la donna si allontanò da casa con il piccolo Erik, di due anni e mezzo, tornando clandestinamente nel suo paese d’origine, l’Ucraina. Ebbe così inizio un procedimento giudiziario lungo e complesso che ha interessato i due paesi, scandito – fra le altre – da una pronuncia del Tribunale di Ivrea che dichiarava per la madre la decadenza della potestà genitoriale e poi da un’altra che sanciva l’affidamento esclusivo del bambino al padre. E ancora, una sentenza assolveva Zardo dall’accusa – evidentemente strumentale – mossagli dalla moglie di maltrattamenti e lesioni. Infine, il 23 marzo scorso, il Tribunale di Torino (giudice Paola Odilia Meroni) ha condannato la donna a sei anni di reclusione, con la interdizione dai pubblici uffici per cinque anni e la sospensione della responsabilità genitoriale per tre anni e sei mesi. A suo carico anche il pagamento delle spese processuali. Nella sentenza, dure parole nei confronti della donna, della cui condotta viene rilevata “la gravità oggettiva e soggettiva”. Sotto il primo profilo si sottolinea la “premeditazione e laboriosa e accorta organizzazione” della sottrazione del minore. Per il secondo l’agire, definito “callido, inflessibile” e costantemente diretto a conservare “l’esclusivo controllo” sul bambino. Inoltre, la “machiavellica capacità di fare alleati, inconsapevoli, i servizi territoriali”. Su quest’ultimo punto ci sarebbe qualcosa da dire, poiché appare inammissibile – e troppo frequente – che tali servizi, ancorché inconsapevolmente, si rendano “alleati” di una parte in vicende simili.
Nel processo si erano costituite parte civile le associazioni GE.SE.FI, e Adiantum. Il Tribunale, pur riconoscendo che le condotte di reato attentavano a interessi statutari delle due associazioni, non ha rinvenuto elementi “per appurare il grado della lesione della personalità o identità delle predette associazioni, e dunque la misura del reale pregiudizio onde procedere alla sua liquidazione, anche in via misura provvisoria”. Ha invece riconosciuto un danno patrimoniale e non patrimoniale di 70 mila euro a Luigi Zardo, uno di 80 mila per il piccolo Erik e uno di 7.500 per la nonna paterna (interessante, sotto il profilo giuridico, anche quest’ultima risoluzione, che manifesta una giusta attenzione alla figura dei nonni).
Tutte le misure adottate dal Tribunale resteranno, naturalmente, prive di conseguenze pratiche. La donna vive in Ucraina, paese le cui autorità non hanno mai mostrato, in questa vicenda, spirito collaborativo con quelle italiane.