Come è noto, prima dell’entrata in vigore della legge n.54 del 2006, in caso di separazione coniugale, la forma prevalente di affidamento dei figli minori era quello esclusivo alla madre (circa l’80% dei casi). Questo criterio rispecchiava sia una situazione di fatto, che vedeva la madre svolgere in modo esclusivo o quasi i compiti di cura e allevamento dei figli anche in costanza di matrimonio, sia l’orientamento prevalente della cultura psicologica del tempo, che individuava nella madre il “genitore psicologico” o in ogni casi quello più idoneo ad occuparsi dei figli.
La legge del 2006 ha rovesciato questa prospettiva, stabilendo, nell’esclusivo interesse dei figli minori, il principio della cogenitorialità anche in caso di separazione dei genitori. L’approvazione della legge è stata accompagnata e seguita da un intenso dibattito tra i sostenitori della nuova cultura psicologica (e le associazioni dei padri separati) da un lato e da molti psicologi dall’altro, secondo i quali l’affidamento condiviso non può costituire una regola generale.
Come è stato osservato, il principio della cogenitorialità deve essere inteso nell’ottica del diritto del figlio minore e non di quello dei genitori. Si tratta di un principio fortemente innovatore e anticipatore del costume che, almeno sul piano quantitativo e formale, ha trovato un’ampia accettazione e attuazione: l’affido condiviso, che nel 2002 (come affido congiunto o alternato) riguardava solo il 10,5% dei minori affidati nelle separazioni, ha raggiunto ormai la quasi totalità degli affidamenti (il 90, 3% nel 2013) (dati Istat).
I problemi possono nascere sul piano dell’applicazione concreta di tale principio, soprattutto in un Paese ancora tradizionalista come l’Italia, in particolare in alcuni contesti territoriali e sociali.
In via generale, i sociologi osservano che nei Paesi occidentali vi è una tendenza al passaggio dal modello tradizionale della specializzazione dei ruoli genitoriali (affettivo alla madre, normativo al padre) alla loro condivisione e omogeneizzazione e all’emergere di una figura di “genitore unico”.
Per quanto riguarda l’Italia, il dato di fondo rimane quello di una divisione di genere del lavoro familiare ancora fortemente asimmetrica e squilibrata a svantaggio delle donne, anche quando sono occupate. Le ricerche comparate mostrano che i padri italiani hanno un grado di coinvolgimento tra i più bassi nella cura dei figli, per motivi prevalentemente culturali. Tuttavia in questi ultimi anni le cose stanno cambiando: in base ai dati più recenti dell’Istat, l’asimmetria di genere in famiglia persiste, ma tende a ridursi progressivamente, soprattutto per quanto riguarda la cura dei figli: nel 2014 l’indice di asimmetria tra le coppie di genitori entrambi occupati (misurato in base alla percentuale di lavoro familiare svolto dalle donne) scende per la prima volta sotto il 70%, attestandosi al 67,3% (era il 71,9% nel 2009 e l’80% nel 1989). In particolare, le attività di cura dei figli sono maggiormente condivise dai padri, per le quali l’indice di asimmetria scende al 61,2% . Mentre le cure fisiche e di sorveglianza restano prevalentemente a carico delle madri, vi è una prevalenza dei padri nelle attività di gioco.
Ci si può chiedere cosa abbia a che fare ciò con i problemi relazionali e giuridici che possono verificarsi dopo la separazione o il divorzio, ma, in base alle ricerche, sembra che un legame esista: il fenomeno dell’assenza del padre dopo la rottura coniugale, molto diffuso nei Paesi occidentali, tende ora a ridursi, soprattutto in virtù del maggiore coinvolgimento dei padri nella relazione con i figli prima della rottura coniugale. La debole presenza dei padri dopo la separazione o il divorzio riflette e prolunga una situazione di disimpegno precedente, frutto di un’unione in cui vige una divisione tradizionale del lavoro tra i coniugi. Anche le scarse ricerche italiane mettono in luce la relazione esistente tra il comportamento dei padri prima della separazione e quello successivo: una relazione soddisfacente tra padri e figli durante la convivenza familiare sembra essere la migliore garanzia di un rapporto valido e continuativo anche dopo la rottura coniugale (oltre che del regolare pagamento dell’assegno di mantenimento!).