di Gianluca Aresta *
L’affidamento condiviso è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano con la Legge n. 54 del 8/2/2006: la novità più importante del testo normativo è stata l’introduzione del “principio della bigenitorialità”, in virtù del quale entrambi i genitori devono esercitare, insieme o separati, la loro responsabilità di genitori.
Nei fatti, l’intento della legge in questione era quello di favorire la crescita dei figli, pur nell’ambito di un contesto familiare “disgregato”, con la effettiva e costante presenza “congiunta” di entrambi i genitori separandi, con la partecipazione degli stessi alla loro cura ed educazione e con la necessità, per gli stessi genitori, di assumere “insieme” le decisioni di maggiore interesse (ad esempio, quelle relative alla scuola, alla salute e alle scelte educative) per la prole.
Nella realtà di tutti i giorni, però, questa previsione, o, ancor prima, questa “intenzione” del Legislatore è restata spesso disattesa e per questo, a dispetto proprio delle prime manifeste intenzioni del medesimo Legislatore, la Legge 54/2006 ha suscitato, e continua a suscitare, a più di dieci anni dalla sua entrata in vigore, tante perplessità in ordine alla sua effettiva e concreta applicazione pratica.
Il Notiziario ISP ha recentemente ospitato, nell’ambito di un interessante aperto dibattito sul tema, un “confronto” di esperienze fra le diverse professionalità impegnate sul campo e, pur senza voler replicare alle interessanti opinioni raccolte, chi scrive ritiene che la problematica in questione resti oltremodo stimolante per cercare di riassumere con qualche considerazione, anche in via propositiva, i profili, anche problematici, della stessa.
E’ noto che prima del 2006 esisteva una “forma” di affidamento condiviso (chiamato affidamento congiunto) che rappresentava, però, solo una delle opzioni possibili nella determinazione delle dinamiche dell’affido dei figli nell’ambito del procedimento di separazione personale dei coniugi: nei fatti era, poi, l’eccezione alla regola, atteso che il sistema prevalente era quello mono-genitoriale e l’affidamento esclusivo a uno dei due genitori (prevalentemente alla madre) finiva per limitare la partecipazione del genitore non affidatario (prevalentemente il padre) alla vita dei figli.
Dal 2006, poi, l’affido condiviso è (sarebbe) diventato la regola (e qualunque diversa opzione la “eccezione”), con la conseguente necessità di una concreta motivazione in tutti i casi di statuizioni giudiziali tese ad affermare l’affidamento esclusivo in favore di uno dei genitori. Ebbene, nella realtà concreta accade effettivamente questo? Quanti affidi condivisi nascondono i profili di un affido esclusivo? Ha senso prevedere, nell’ambito di un affido condiviso, la predeterminazione di rigidi orari che “costringono” i tempi di contatto fra un genitore (prevalentemente un padre) e un figlio?
Il disposto normativo di cui all’art. 337 ter cod. civ. statuisce che il figlio «ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori» e che il Giudice deve valutare «prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori».
I principali problemi che ha posto e che pone l’affidamento condiviso, e che si concretizzano in un ostacolo alla condivisione effettiva, sono due: la questione della residenza del minore, compresa l’assegnazione della casa coniugale, e la determinazione dell’assegno di mantenimento.
Nella maggior parte dei casi di affidamento condiviso i figli hanno, come noto, come casa principale quella di uno dei due genitori, definito “genitore collocatario”: per garantire il diritto a mantenere un rapporto costante ed equilibrato con entrambi i genitori, il Giudice, allorquando decide sulla residenza dei figli, decide contestualmente anche tempi e modi per assicurare la presenza dell’altro genitore, definito “non collocatario”, con i figli. La scelta della residenza dei figli ha, peraltro, conseguenze sugli assegni di mantenimento.
Nel rapporto dell’ISTAT del 2016 (riferito all’anno 2015) si legge che per quanto riguarda il tipo di affidamento, negli ultimi dieci anni si è verificata una netta inversione di tendenza; in particolare: “Fino al 2005, è stato l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre la tipologia ampiamente prevalente. Nel 2005, i figli minori sono stati affidati alla madre nell’80,7 per cento delle separazioni e nell’82,7 per cento dei divorzi”. A partire dal 2006, in concomitanza con l’introduzione della nuova legge, la quota di affidamenti concessi alla madre si è ridotta a vantaggio dell’affido condiviso. Il “sorpasso” vero e proprio, stando sempre al rapporto ISTAT, è avvenuto nel 2007 (72,1 per cento di separazioni con figli in affido condiviso contro il 25,6 per cento di quelle con figli affidati esclusivamente alla madre), per poi consolidarsi ulteriormente. Nel 2010 c’è stata una riduzione della percentuale dei figli affidati esclusivamente alla madre, pari al 9 per cento, tendenza che si è consolidata negli anni successivi. Nel 2015 le separazioni con figli in affido condiviso sono circa l’89 per cento, contro l’8,9 per cento di quelle con figli affidati esclusivamente alla madre.
Sempre l’ISTAT aggiunge che, a dieci anni dalla nuova legge, è possibile anche verificare in che modo la sua introduzione abbia modificato alcune caratteristiche delle sentenze di separazione emesse dai Tribunali e che hanno a che fare con l’assegnazione della casa coniugale e con l’assegno di mantenimento. E spiega che, al di là dell’assegnazione formale dell’affido condiviso, per questi altri aspetti in cui si lascia discrezionalità ai Giudici, la legge non ha trovato effettiva applicazione: “Ci si attendeva, infatti, una diminuzione della quota di separazioni in cui la casa coniugale è assegnata alle mogli e invece si registra un lieve aumento, dal 57,4% del 2005 al 60% del 2015; questa proporzione, nel 2015, raggiunge il 69% per le madri con almeno un figlio minorenne. Per quanto riguarda le disposizioni economiche, infine, non vi è nessuna evidenza che i Magistrati abbiano disposto il mantenimento diretto per capitoli di spesa, a scapito dell’assegno: la quota di separazioni con assegno di mantenimento corrisposto dal padre si mantiene nel decennio stabile (94% del totale delle separazioni con assegno)”.
Secondo diverse associazioni di categoria, l’affidamento condiviso resta, dunque, oggi inapplicato per alcune sue conseguenze e ci sono stati diversi interventi in sede parlamentare per riformulare le norme (ma sarà realmente necessaria una riformulazione delle norme o sarebbe auspicabile e sufficiente una semplice applicazione della normativa vigente da parte dei Giudici?), con l’obiettivo di garantire effettivamente il diritto e il dovere a quella bigenitorialità che era, come detto, il fine primario della stessa normativa.
Vero è, d’altro canto, che al cospetto di questa situazione di incertezza applicativa, alcuni Tribunali hanno emanato linee guida con l’intento di modificare “forzatamente” la prassi applicativa (o meglio, disapplicativa del principio della bigenitorialità) in essere nelle varie sedi giudiziarie. All’inizio del 2017, ad esempio, il Tribunale di Brindisi – seguito dal Tribunale di Salerno – indicava la necessità di un “coinvolgimento quotidiano” di entrambi i genitori nella crescita e nell’educazione dei figli. Proprio per questo, il Tribunale suggeriva che la residenza dei minori avesse una rilevanza solo anagrafica e che i figli venissero domiciliati da entrambi i genitori, con la conseguente possibilità per entrambi di trascorrere un tempo diviso equamente con loro e senza la aprioristica quantificazione dei tempi di ciascuno.
Il Tribunale di Brindisi fondava la propria richiesta sulla assenza, nel dettato normativo di cui alla Legge del 2006, di «qualsiasi differenza giuridicamente rilevante tra il genitore co-residente e l’altro» e sulla considerazione per cui se il tempo effettivamente trascorso con un genitore è superiore al tempo trascorso con l’altro questo debba avvenire per caso, in conseguenza di esigenze casuali o di motivazioni serie e concrete ben determinate, e non perché è stato imposto per legge a priori.
I punti essenziali delle linee guida elaborate dal Tribunale di Brindisi erano:
- la residenza dei figli ha semplicemente valenza anagrafica, mancando qualsiasi differenza giuridicamente rilevante tra il genitore co-residente e l’altro;
- la frequentazione dei genitori avverrà ispirandosi al principio che ciascun genitore dovrà partecipare alla quotidianità dei figli. Conseguentemente ai figli dovranno essere concesse pari opportunità di frequentare l’uno e l’altro genitore, in funzione delle loro esigenze, all’interno di un modello di frequentazione mediamente paritetico;
- la casa familiare resta al proprietario senza possibilità di contestazioni, visto che la frequentazione è equilibrata e continuativa con entrambi i genitori;
- quanto al mantenimento, la forma privilegiata è quella diretta. L’assegno di mantenimento da versare all’altro genitore deve restare residuale, con valenza solo perequativa, e limitato ai casi in cui, per l’abissale distanza delle risorse economiche, non sia possibile compensare le differenze di contributo;
- le spese saranno divise in “prevedibili”, a carico per intero di uno dei genitori, e “imprevedibili” che saranno divise in proporzione delle risorse;
- dovrà essere incentivato il ricorso alla mediazione familiare nell’ipotesi di contrasti insorti successivamente.
Al di là di una condivisibilità o meno delle suddette linee guida, su cui anche si può discutere, va da sé che le stesse non avrebbero potuto, comunque, essere imposte aprioristicamente come rigido schema generale, attesa la necessità di rispettare le peculiarità delle diverse “storie di vita” sottoposte alla attenzione degli operatori.
“C’erano una volta una madre esclusiva e un padre giocoso: la prima provvedeva a tutto e viveva stabilmente con il figlio nella casa coniugale, il secondo compariva sulla scena ogni tanto per una pizza, una partita di pallone o quindici giorni di vacanza d’estate. Fino a poco tempo fa, avere genitori separati voleva dire rimanere a vivere nell’80% dei casi con la mamma e sperare di continuare a relazionarsi con una figura sullo sfondo: il papà”. (Donna Moderna, articolo di Sara Peggion, 5/2/2018).
Nel tempo il principio della maternal preference è stato (teoricamente?) superato nel 2006 con l’entrata in vigore della legge 54 sull’affidamento condiviso e sulla bigenitorialità. Ma a dodici anni di distanza dalla entrata in vigore della Legge, quanti figli possono effettivamente affermare di trascorrere lo stesso tempo con mamma e papà? Quanti padri vedono effettivamente riconosciuto il loro diritto di coabitare con i bambini, anche se piccoli? Se, da un lato, molti Tribunali italiani, soprattutto al Sud, negli ultimi tempi stanno, come detto, cercando di forzare il cambiamento, dall’altro molti altri rimangono fermi su vecchie e consolidate prassi. E a denunciarlo è, in primo luogo, ancora l’ISTAT: «Dove la legge lascia discrezionalità ai Giudici, l’affido condiviso non ha trovato effettiva applicazione» denuncia il rapporto.
Per l’Avv. Simona Napolitani, presidente dell’Associazione Codice Donna, «da quando è stato introdotto il principio della bigenitorialità e della pari responsabilità economica dei figli, gli uomini cercano sicuramente di essere più presenti, ma i conflitti tra coniugi che si dividono sono ancora devastanti». Certo, continua l’Avv. Napolitani con una considerazione che chi scrive condivide appieno, potrebbe affermarsi che la normativa in esame ha forzato un “cambiamento sociale” che, al momento della entrata in vigore della stessa, ancora non c’era, atteso che si viveva in una cultura in cui la madre era indubbia protagonista nel rapporto con i figli, ma debole sul fronte economico (Donna Moderna, articolo citato)
In Francia, dove lo Stato paga la baby sitter, l’affido condiviso è realizzato nel concreto, anche con formule di “doppia domiciliazione”. Nel 2015, la risoluzione 2079 del Consiglio d’Europa (firmata anche dall’Italia) ha invitato gli Stati membri a promuovere tra i genitori separati la shared residence, la residenza condivisa, al fine di permettere al bambino di passare lo stesso tempo con entrambi i genitori, per mantenere una relazione equilibrata e paritetica con ciascuno di essi. E numerose ricerche internazionali hanno sottolineato sia il danno che i minori subiscono se frequentano per meno di un terzo del loro tempo un genitore, sia l’efficacia del modello paritetico di affidamento rispetto a quello esclusivo: i figli avrebbero risultati migliori a scuola e un rischio di depressione inferiore. Anche l’Ordine nazionale degli Psicologi si è pronunciato a favore del doppio domicilio, in merito a una proposta di modifica della Legge 54 depositata da tempo in Senato.
In realtà, come già sottolineato, da Brindisi a Salerno a Catania, sono sempre di più i giudici che a “colpi di sentenze” e linee guida innovative si stanno facendo portavoce delle richieste dei padri e cercano di applicare l’affido condiviso a tutti gli effetti, gradatamente abbandonando il criterio della maternal preference e censurando, in modo deciso, i genitori che non rispettano i tempi di visita reciproci e violano il diritto al rapporto continuativo; da questo punto di vista – è l’osservazione di Claudio Cecchella, Presidente dell’Osservatorio sul diritto di famiglia – i Tribunali del nord Italia “non stanno dando un grande contributo al cambiamento”.
Ed è rilevante sottolineare come, anche se molto lentamente, aumentano i casi di collocamento prevalente nella casa paterna e non solo – come accadeva un tempo – perché la madre è incapace di occuparsi dei figli. Alcuni padri hanno rinunciato alla carriera per seguire la quotidianità dei bambini: forse non fanno ancora notizia, ma stanno lanciando un segnale forte. La verità è che l’affidamento materialmente (ed effettivamente) condiviso offre una migliore sistemazione alla famiglia divisa ed è quello che la Legge 54/2016 avrebbe voluto concretamente realizzare.
Sul punto, soccorrono anche i dati delle esperienze di altri paesi che adottano, nei fatti, il principio dell’affido condiviso. La Svezia è lo stato europeo con la maggiore percentuale (40%) di affidi in alternanza, contro il 30% del Belgio e solo il 2% dell’Italia. Anche paesi storicamente e culturalmente più vicini al nostro, come la Catalogna, hanno visto salire, negli ultimi cinque anni, i numeri degli affidamenti materialmente condivisi dal 10% al 40%. Lo stesso per Corte Valenciana, Baleari, Paesi Baschi, così come, forse, è appena il caso di segnalare l’esperienza australiana che offre una fotografia di numeri positivi sulla riduzione della conflittualità grazie alla legge sull’affido materialmente condiviso (entrata in vigore nel 2006). L’esperienza di queste realtà dimostra che l’affido “materialmente” condiviso (ove effettivamente realizzato) riduce sensibilmente per i figli le probabilità di perdere il contatto con un genitore dopo l’evento traumatico separazione, favorendone la crescita armoniosa.
Purtroppo, però, la nostra realtà giudiziaria ci racconta che, nelle ipotesi maggiormente conflittuali, le decisioni dei Giudici “registrano” ancora tempi di frequentazione dei due genitori in misura spesso fortemente sbilanciata. Per la Società Italiana Scienze Forensi, però, non ci sarebbero dubbi: l’affidamento materialmente condiviso (il cosiddetto physical joint custody) – che prevede tempi paritetici o equipollenti di frequentazione dei figli, non più di due terzi e non meno di un terzo del tempo con ciascun genitore – va preferito a quello in cui l’affidamento è delegato prevalentemente a un solo genitore. Secondo la S.I.S.F. “l’affidamento materialmente condiviso è da intendersi come la migliore realizzazione delle esigenze della prole di usufruire di una equilibrata relazione emotivo relazionale con le due figure genitoriali“. Ma non solo. Gli scienziati forensi ribadiscono che l’affidamento con tempi che tendono all’equipollenza con ciascun genitore “permetterebbe anche una potenziale diminuzione della conflittualità all’interno della coppia genitoriale che si vedrebbe depauperata da tutte quelle motivazioni, a volte futili e strumentali, che alimentano, anche tramite denunce, l’impasse genitoriale“.
Insomma, la realizzazione concreta di un processo di affidamento materialmente condiviso restituirebbe una migliore sistemazione alla famiglia divisa e andrebbe, pertanto, favorito. E, allora, sia consentito chiedersi perché nel nostro sistema non si è realizzato un sistema ampiamente (e sapientemente) previsto da una normativa che, ormai, ha festeggiato i dodici anni? Perché non pensare concretamente, come hanno “suggerito” (è appena il caso di aggiungere coraggiosamente!) alcuni Tribunali italiani, all’idea dell’alternanza dei genitori nella casa familiare? Così potrebbero essere rispettate le peculiarità dei singoli casi e delle vicende personali di ognuno, le differenze economiche, di reddito e di patrimonio e le effettive capacità personali di genitori e figli. Perché devono essere i figli a sobbarcarsi i trasferimenti mensili, con bagaglio annesso, e non i genitori? (così, Avv. Andrea Gazzotti, “La famiglia si scioglie: quale migliore soluzione per i figli?”, in Repubblica.it del 10/7/2018).
In un contesto sicuramente “incerto” e in completo divenire, seppur assolutamente desideroso di acquisire la sua migliore identità, si inseriscono alcune pronunce che, fra le poche altre, hanno coraggiosamente fotografato la luce di un cambiamento, anche sociale. In tale prospettiva, si deve ricordare il provvedimento reso dal Tribunale per i Minorenni di Milano (Decreto del 19/10/2016) con cui lo stesso Tribunale ha affidato, con Decreto definitivo, una minore al Comune di Milano, collocandola in modo prevalente presso il padre.
Il Giudice milanese, nel caso in questione, sottolineava che né l’art. 337 ter cod. civ., né, tantomeno, la Carta Costituzionale assegnano rilevanza o prevalenza giuridica al criterio della maternal preference (secondo il quale i bambini in età scolare devono essere collocati in via prevalente presso la madre, anche qualora il padre dimostri eccellenti capacità genitoriali), da ritenersi ormai superato, in virtù del principio della bigenitorialità e di quello di parità genitoriale, dalle normative incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario (cosiddetto gender neutral child custody laws).
Pertanto, non potendo il solo genere determinare una preferenza per l’uno o per l’altro genitore, il collocatario in via preferenziale potrà essere sia il padre sia la madre, in forza di una scelta da effettuarsi considerando il preminente interesse del minore. Per questi motivi, e sulla base degli accertamenti condotti dai Servizi Sociali, il Tribunale di Milano rigettava il ricorso proposto dalla madre avverso il Decreto definitivo, confermando il collocamento della minore in via prevalente presso il padre.
Oltremodo significativa è la Ordinanza del 2/12/2016, resa dal Tribunale di Catania, con cui i Giudici catanesi, statuendo che “Entrambi i genitori si devono presumere idonei ad esercitare le loro responsabilità genitoriali e addivenire affidatari e collocatari dei figli”, sottolineavano come “la concreta realizzazione del supremo interesse del minore, richiamata e imposta dalla legislazione nazionale ed internazionale, passa attraverso il preliminare superamento della tendenza” (definita dal Tribunale catanese “pregiudizio di fondo”) “a considerare la madre, a prescindere da ogni valutazione che sottenda la perfetta uguaglianza tra i genitori, quale genitore presso cui ‘naturalmente’ debba essere collocato un figlio minore in caso di separazione”.
Particolarmente interessante, nel caso di specie, resta la “motivazione” del Tribunale che, in via del tutto prospettica, sembra ipotizzare che una maggiore propensione verso provvedimenti (ove ne ricorrano i presupposti) giudiziari di collocamento della prole presso i padri, potrebbe contribuire alla “diminuzione del numero dei padri disimpegnati e delle madri proprietarie, che tanti danni arrecano alla educazione e serena crescita dei figli minori”.
Così come, oltremodo, significativa, ancorchè emotivamente coinvolgente, è la riflessione del Giudicante, allorquando sottolinea che: “…la scelta del genitore collocatario viene richiesta dalle parti e in qualche modo è anche oggettivamente necessaria. Ma è una scelta molto difficile e dolorosa, perché sancirà una delle inevitabili conseguenze della separazione: che il bambino conviverà con una maggiore tendenziale stabilità con uno soltanto dei genitori. … Resta il fatto che qualsiasi decisione giudiziale sul punto risulterà fonte di dolore e di difficoltà per i protagonisti di questa vicenda”.
Continuano i Giudici catanesi, “Quando due genitori si separano è necessario che, nel rispetto delle disposizioni di legge e degli eventuali provvedimenti giudiziali, ciascuno di essi si adoperi per far sì che la crisi del matrimonio non arrechi danni (o, meglio, arrechi meno danni possibili) agli interessi dei figli, al loro normale sviluppo affettivo, alla loro crescita ed educazione. È dovere di ciascuno di loro adoperarsi affinché entrambi possano concretamente esercitare i loro diritti-doveri relativi all’assistenza, all’educazione, allo sviluppo affettivo, ecc., dei figli e perché la separazione non privi questi ultimi del prezioso e insostituibile contributo di ciascuno dei due genitori. In questa logica tutti i problemi e le difficoltà al completo raggiungimento degli obiettivi predetti devono essere affrontati da ciascuno dei genitori con la ferma – perché doverosa – determinazione di concorrere concretamente ed efficacemente alla loro soluzione, nel superiore interesse dei figli”.
La intima sostanza dell’affidamento condiviso resta, forse, racchiusa proprio nelle parole che si leggono nella parte motiva della Ordinanza resa dai Giudici catanesi.
Probabilmente, perché si possa vedere attuata realmente e concretamente la lettera della normativa che ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’affidamento condiviso è necessario (e quanto mai auspicabile) un radicale e profondo “cambiamento sociale” che non può prescindere dall’effettivo contributo di tutte le professionalità coinvolte nel delicato procedimento della separazione personale di coniugi con figli.
I primi raggi di “novità” hanno cominciato ad illuminare quella grigia e radicata oscurità che i Giudici catanesi hanno definito “pregiudizio di fondo”, l’impianto normativo esistente è di valido supporto ad un giusto cambiamento, in linea con quelle che sono le nuove esigenze sociali, le realtà di altri paesi europei, nonché con quanto richiesto espressamente dalla Corte Europea al nostro Paese.
A parere di chi scrive, prima di ipotizzare o stimolare interventi modificativi della normativa esistente, forse bisognerebbe semplicemente pensare ad impegnarsi ad applicare, con uno sforzo di volontà che consenta un adeguamento all’attuale contesto sociale, un disposto normativo (quella Legge 54/2006) che sicuramente finora non ha visto la sperata attuazione, perché certamente, da solo, non avrebbe mai potuto avere il dinamismo necessario per “forzare” un convincimento sociale e giuridico (ossia quel principio della maternal preference) che, seppur non sacralizzato in disposti normativi, come opportunamente sottolineato dal Tribunale di Milano, resta, ancora oggi, intimamente radicato nel nostro sistema.
Non si vuole postulare la preferenza di un genitore sull’altro – atteso che, condividendo appieno quanto affermato dal Tribunale di Catania, “Entrambi i genitori si devono presumere idonei ad esercitare le loro responsabilità genitoriali e addivenire affidatari e collocatari dei figli” – ma semplicemente auspicare la adozione di misure (quali, fra le altre, la residenza condivisa o la collocazione alternata) – in luogo della “tradizionale” previsione di rigidi e ingessati orari per la gestione del tempo da trascorrere con i figli, che paradossalmente taluni Tribunali continuano ancora a richiedere – che porterebbe ad una reale ed effettiva realizzazione degli intenti della Legge 54/2016, sempre nell’ottica della salvaguardia dell’interesse primario del minore.
* Avvocato. ISP Bari