di Maurizio Quilici *
Questo è un editoriale “obbligato”. Nel senso che non si poteva più rimandare qualche osservazione sul ddl 735, più noto come “ddl Pillon” dal nome del suo presentatore, il senatore leghista Simone Pillon, che lo ha firmato assieme a tre colleghi del suo partito e a cinque del Movimento Cinque Stelle.
Una premessa: personalmente, non credo che una legge possa mai risolvere in modo ottimale una situazione come la separazione di due genitori. Le leggi potranno, forse, fare chiarezza e imporre comportamenti (alle parti e ai giudici) in altri campi del diritto, certo non nel diritto di famiglia, che è terreno di profondi sentimenti, di forti emozioni e di infinite circostanze. Esse da un lato riflettono i cambiamenti e le esigenze della società, dall’altro sono una propulsione, indicando – anzi dettando – norme e modelli di comportamento. Ma è illusione, credo, pensare di chiudere un tema così complesso in recinti che non consentano scappatoie. Anche perché nel nostro Paese viene lasciato ampio spazio alla discrezionalità del giudice.
Avevo lo stesso dubbio quando fu promulgata la Legge 2006/54 e, purtroppo i fatti mi hanno dato ragione: se oggi vediamo discutere e litigare sul “nuovo affidamento” è perché quella legge – ottima nelle intenzioni – non è servita a nulla, vanificata talora dall’egoismo e dallo spirito di rivalsa dei genitori, più spesso da una interpretazione giurisprudenziale che ha tradito lo spirito e la lettera della normativa. Le leggi sono una condizione certo necessaria, ma non sufficiente, per risolvere l’angoscioso problema delle separazioni e degli affidamenti dei minori. Bisognerebbe, piuttosto, impegnare il legislatore a investire risorse nella formazione dei genitori, nei corsi pre-matrimoniali, nella educazione al rapporto di coppia, nella “educazione sentimentale”, nell’insegnamento del rispetto dell’altro. Attività da svolgersi nella scuola anzitutto (visto che la famiglia ha perso molto della sua funzione di “agenzia primaria” dell’educazione) e fin dai banchi delle elementari. E poi nei consultori (anch’essi insufficienti al compito), nelle parrocchie e persino – perché no – nelle aziende (nessuno riflette sull’impatto negativo di una separazione conflittuale sul lavoro). Solo con un impegno diffuso a partire da oggi si potranno avere domani genitori più consapevoli, responsabili, e separazioni meno conflittuali. Non è con le leggi, purtroppo, che si ottiene quella che Giovanni Bollea auspicava e che amava definire “cultura della separazione”.
Detto questo, non c’è dubbio che la interpretazione da parte dell’organo giudicante sia non solo legittima ma indispensabile; e tuttavia, essa non deve divenire arbitrio e vanificare lo spirito e la lettera delle leggi. Non deve, insomma, accadere che il giudice – come spesso accade, osserva il costituzionalista Michele Ainis – “si faccia legislatore”. Gli avversari del ddl Pillon sostengono che ogni separazione è storia a sé e che il giudice deve poter esaminare “caso per caso”, senza troppe pastoie di legge (in realtà, come vedremo, il ddl 735 lascia molti varchi alla interpretazione). In linea di principio concordo con loro (fatta salva la professionalità dei giudici e la competenza sulla materia che trattano, requisiti che non sempre si verificano). Ma cosa significa “esaminare”? Approfondire ogni caso con scrupolo, con pazienza, con professionalità, con disponibilità di tempo, con coscienza e sensibilità. Come vorrebbe il termine latino examen (a sua volta dal verbo exigo) da cui deriva e come vorrebbe il significato italiano di “esame”: “Osservazione attenta, considerazione ponderata di qualcuno o qualcosa, al fine di averne esatta e completa conoscenza”. Così Aldo Gabrielli nel suo Vocabolario della lingua italiana 2008. Vi pare che, nella maggioranza dei casi, questo avvenga nei giudizi di separazione e affidamento? E allora, forse, qualche indicazione un po’ più… stringente non sarebbe male.
Ma veniamo al nostro argomento, il ddl Pillon, attorno al quale si è scatenata una bagarre, un coro confuso e vociante di partigiani pro e contro. Anche al nostro Istituto si richiede una posizione (lo chiedono i media, le altre associazioni, gli operatori del settore e gli stessi nostri associati). Per questo, nei giorni scorsi, ho convocato il CD dell’I.S.P., per dibattere in proposito e assumere, se possibile, una posizione comune. E per questo mi aspetto che i soci – specialmente i giuristi – mi segnalino la loro preziosa opinione. Qui mi limiterò a riportare alcune osservazioni a titolo personale, dopo una attenta lettura del testo del disegno di legge (non decreto legge, come spesso si sente dire e si legge in questi giorni) e delle numerose, aspre reazioni suscitate. Anche così, limitandomi ad alcuni dei numerosi punti che andrebbero discussi, ne risulterà uno scritto molto lungo e me ne scuso con i lettori. In seguito si tornerà sull’argomento, magari affidandolo a mani più tecniche ed esperte delle mie.
Due le osservazioni preliminari. La prima è di carattere sociale e non giuridico. I toni e gli epiteti permettono di apprezzare (si fa per dire) il netto peggioramento di stile rispetto alle polemiche che accompagnarono i lavori preparatori delle Legge 2006/54, quella dell’affido condiviso. Che pure non furono rose e fiori, come ricorderete. Ma nulla in confronto con la verve polemica – fatta di insulti e sarcasmo, disprezzo e accuse, astio e livore – di quanti oggi intervengono su social, giornali e mezzi radiotelevisivi. Del resto, tutto ciò rispecchia l’abbassamento di livello – vuoi come professionalità che come savoire faire – che caratterizza attualmente la scena politica e quella, più vasta, della nostra società.
Naturalmente l’asprezza del dibattito nasce anche dal fatto che ogni legge sottende una ideologia e una parte politica. Che però non dovrebbero essere di ostacolo ad una valutazione serena e oggettiva. Le mie idee sono decisamente lontane da quelle del sen. Pillon e del suo partito, tuttavia credo che un provvedimento debba essere considerato in sé e per sé. Attenti, certo, a “cosa c’è dietro” e alle conseguenze, ma senza pregiudizi ideologici.
La seconda è che, nonostante le posizioni pro e contro si siano ferocemente radicalizzate, il ddl in questione ha – come sempre accade – luci e ombre. Non tutto mi pare buono e non tutto mi pare da respingere. Può sembrare una soluzione pilatesca, a me pare quella più ovvia e ricorrente nelle vicende umane.
Certamente è da condividere l’affermazione, nella relazione introduttiva, che la Legge 2006/54 sia stata “un fallimento”. Chi sostiene il contrario citando il numero di separazioni consensuali rispetto a quelle giudiziali o l’elevata percentuale di affidi condivisi pecca di ignoranza o di mala fede. Non si può, poi, non condividere l’obiettivo dichiarato della “effettiva uguaglianza tra padre e madre nei confronti dei propri figli” e quello – non dichiarato – di consentire al padre un equo spazio per svolgere la sua insostituibile funzione accanto a quella materna (se poi le modalità per raggiungerli nascondano criticità, storture o addirittura iniquità è altro discorso).
La prima impressione, leggendo il testo, è quella di un eccesso di contenuti, di troppa carne al fuoco, di continui rinvii a articoli e commi del codice civile e di quello di procedura civile, di decreti legge. Sono 24 articoli nei quali il desiderio di “blindare” le disposizioni ed evitare la sorte della Legge 2006/54 si traduce in una congerie un po’ farraginosa di indicazioni e controindicazioni non sempre chiare e non sempre bene espresse (alle volte è la lingua italiana – come accade sempre più spesso nei testi di legge – a peccare per poca limpidezza e semplicità). La legge che ha introdotto l’affido condiviso era composta di soli cinque articoli, eppure ha prestato il fianco a una serie di criticità interpretative. A maggior ragione il ddl 735 lascia ampi spazi a quella interpretazione giurisprudenziale che vorrebbe ridurre al minimo. Per esempio, il termine “interesse” (del minore, della prole, per i figli…) compare ben 33 volte nel testo. L’espressione “interesse del minore” è sacrosanta (anche se concordo con Cesare Massimo Bianca, secondo il quale andrebbe sostituita con “bene del minore”), ma l’esperienza della Legge 54 insegna che essa viene sovente usata come passe-partout per vanificare una norma scritta. E’ accaduto così per l’ascolto del minore, per i vincoli all’assegnazione della casa familiare e per molte altre disposizioni che non lasciavano alcun margine di interpretazione ma che l’”interesse del minore” (ribadito da pronunce della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale) ha permesso di ignorare.
Altri punti che (inevitabilmente) lasciano spazio alla discrezionalità del giudice sono gli “spazi adeguati” per la abitazione dei figli (art. 11). “Adeguato” è termine assolutamente soggettivo. Lo stesso dicasi per l’assegno periodico di mantenimento del figlio minore, da corrispondersi “ove strettamente necessario e solo in via residuale”. Anche qui decide il giudice sul significato di “strettamente necessario”. E ancora, non si procede all’ascolto del minore “se in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo”. Così si ripeterà quanto accaduto con la Legge 54, che stabiliva l’obbligo per il giudice di ascoltare il minore (“il giudice dispone…”) e questo era regolarmente disatteso, specialmente dai Tribunali ordinari, perché, appunto, ritenuto contrario all’interesse del minore o “ininfluente”.
L’art. 1 del ddl 735 istituisce l’albo nazionale per la professione di MEDIATORE FAMILIARE. Sono convinto dei benefici di una MF correttamente e professionalmente eseguita, solo mi chiedo se era questa la sede più opportuna per istituire l’albo, elencando requisiti e funzioni (non tutti condivisibili). La Mediazione è “volontariamente scelta dalle parti e può essere interrotta in qualsiasi momento”, ma diviene “condizione di procedibilità” se nel procedimento devono prendersi decisioni sui minori. In altre parole, diviene allora obbligatoria. Subito sorge un dubbio. La frase “può essere interrotta in qualsiasi momento” è da intendersi solo quando non vi sia da decidere su minori oppure anche quando la mediazione è divenuta condizione di procedibilità per la presenza di minori? A me parrebbe ovvio pensare alla prima interpretazione, altrimenti la obbligatorietà della MF rischia di limitarsi al primo incontro. E invece sul Quotidiano Giuridico Arturo Maniaci, Professore aggregato di Diritto Privato all’Università degli Studi di Milano, sostenendo la difesa del ddl, scrive che “la mediazione familiare è elevata a condizione di procedibilità (…) ma è obbligatorio soltanto il primo incontro”. Non starò qui a ricordare le tante polemiche sulla obbligatorietà della MF, che vede contrari tutti i mediatori familiari (anche se da questa norma avrebbero tutto da guadagnare) e più possibilisti gli psicologi, gli avvocati, i pedagogisti. Personalmente, ho sempre pensato che non si possano escludere a priori effetti positivi anche da una mediazione obbligatoria (che viene praticata in altri Paesi) ma naturalmente lascio l’ultima parola ai mediatori stessi. Mi limito ad osservare che la MF introdotta come mera possibilità dalla Legge 2006/54 ha avuto finora scarso successo per un semplice motivo: il partner che si sente più tutelato, più “forte”, non ha nessun interesse ad accedervi e il “no” alla mediazione assume spesso il tono del dispetto.
Il ddl prevede la gratuità del primo incontro, ma gli altri saranno a carico delle parti, il che aggrava il peso delle spese in maniera certo inopportuna. Si sarebbe potuto, forse, indicare come obbligatorio un solo incontro informativo con un mediatore (come pare sarà, in sostanza, il primo gratuito): era la soluzione proposta dall’I.S.P. quando, nei lavori preparatori della legge 54, fu bocciata l’ipotesi della MF obbligatoria.
Le associazioni femministe fanno osservare che la mediazione obbligatoria non prevede eccezioni, neppure nei casi in cui ci sono state denunce per violenza o per abusi sessuali sui figli (frequenti nelle separazioni e, almeno le seconde, quasi sempre false) da parte della donna nei confronti del partner. Potrebbe essere necessario un emendamento in proposito. Ultima notazione, qualcuno sottolinea con malizia il fatto che il sen. Pillon è avvocato ma anche, dal 2013, mediatore familiare.
Il ddl introduce poi la figura del COORDINATORE GENITORIALE (art. 12) alla quale possono fare ricorso i genitori, anche qui elencando requisiti e funzioni. Non mi trovo d’accordo non perché metta in dubbio la sua utilità, ma perché si tratta di figura recente, ancora in Italia poco diffusa e, quel che è peggio, poco professionalizzata. Il ddl lo definisce “un esperto qualificato con funzione mediativa” (aggettivo che rimanda alla mediazione familiare con dubbi di sovrapposizione; non era preferibile “funzione di coordinamento”?), “dotato di formazione specialistica in coordinazione genitoriale”. A parte la ovvia tautologia (sarebbe come dire che è ingegnere chi è dotato di formazione specialistica in ingegneria), dove sono i centri di formazione specialistica sul territorio italiano? A me risultano in numero scarso e quasi esclusivamente al Nord.
Andando pedissequamente con ordine, L’ORDINANZA DEL GIUDICE ISTRUTTORE in materia di separazione e affidamento diviene “impugnabile dalle parti con reclamo immediato al collegio” (art. 7). Ciò costituirà una garanzia o sarà un ulteriore appesantimento dell’iter giudiziario? Ricordo che nella Legge 54 è prevista la possibilità del GI di intervenire sui provvedimenti del Presidente (caso che non si verifica di frequente) e eventualmente riformarli su istanza di una delle parti; possibile anche il reclamo in Corte d’Appello per i provvedimenti presidenziali.
I genitori che vogliono separarsi ed hanno figli devono preparare un PIANO GENITORIALE, come previsto dall’art. 337-ter del codice civile. (art. 7). Solo al successivo art. 8 si capisce che non si tratta di un piano comune ma dei rispettivi piani genitoriali. A volte si sente la necessità di maggiore chiarezza, anche a costo della ovvietà. Con il piano genitoriale – si spiega nella relazione introduttiva al ddl – “padre e madre saranno chiamati a confrontarsi per individuare le concrete esigenze dei figli minori e fornire il loro contributo educativo e progettuale che riguardi i tempi e le attività della prole e i relativi capitoli di spesa” (il ddl instaura infatti il “mantenimento diretto” per capitoli di spesa, formula che dovrebbe ridurre notevolmente la conflittualità, cosa della quale non sono del tutto convinto). Il giudice dovrebbe poi esaminare i due piani genitoriali, valutarli, accogliere le proposte dell’uno e dell’altro se sono convergenti (ce ne saranno mai…?) e non contrarie all’interesse del minore, motivare le proprie decisioni se queste si discostano dalle indicazioni dell’uno o dell’altro ed emettere quindi i provvedimenti del caso. Si noti che in mancanza di accordo o di accordo parziale, il giudice (art. 11) stabilisce lui il piano genitoriale, “determinando” – fate bene attenzione – “i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore” (e fin qui nulla di diverso rispetto a prima) “e fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli, applicando in ogni caso il mantenimento diretto come indicato ai commi precedenti e sulla base del costo medio dei beni e servizi per i figli, individuato su base locale in ragione del costo medio della vita come calcolato dall’ISTAT, indicando altresì le spese ordinarie, le spese straordinarie e attribuendo a ciascun genitore specifici capitoli di spesa”. Riesco difficilmente a immaginare un giudice, oberato dal numero delle cause, che si fa carico di tutti questi compiti. Qualcuno ha detto che così il giudice si riduce al ruolo di “segretario” o “ragioniere”.
All’art. 8 si modifica l’art. 708 c.p.c relativo al tentativo di CONCILIAZIONE da parte del presidente – da effettuare prima singolarmente e poi congiuntamente – e ai provvedimenti di questo. Il tentativo di conciliazione rimane in vigore, mentre, a mio avviso, era questo il momento di abrogarlo. Considerato da molti giuristi anacronistico e inutile, si traduce in una pura formalità. Personalmente, non ho mai saputo di un tentativo di conciliazione che sia riuscito, mentre ho visto a volte il giudice “dimenticarsene” o sbrigativamente esprimersi più o meno così: “Siete sicuri di volervi separare? Avete provato a trovare un accordo”. Non c’è né tempo né voglia di impegnarsi in una operazione che si sa in partenza destinata a fallire.
E arriviamo ai PROVVEDIMENTI IN CASO DI INADEMPIENZE E VIOLAZIONI (art. 9). L’articolo modifica il 709-ter, pochissimo applicato un po’ – si dice – per colpa degli avvocati che non vi fanno ricorso e un po’ dei giudici che tendono ad applicare le soluzioni meno punitive. Forse è giusto quindi un irrigidimento delle pene. La frase “… il giudice può modificare i provvedimenti in vigore…” è sostituita da “… il giudice valuta prioritariamente una modifica dei provvedimenti di affidamento…”. Viene eliminata la possibilità di “ammonire il genitore inadempiente” perché ritenuta inefficace (la misura era davvero poco applicata, ma devo dire che quando veniva ammonito il genitore inadempiente modificava di solito il suo comportamento). Per il resto, l’articolo ricalca il 709-ter salvo aumentare la sanzione amministrativa pecuniaria, prevista ora da un minimo di 600 a un massimo di 6.000 euro.
Un ampio art. 11 costituisce il punto nodale del ddl e sostituisce l’art. 337-ter che riguarda i PROVVEDIMENTI RELATIVI AI FIGLI. Ribadita la formula, già della Legge 2006/54, del diritto del minore a mantenere un “rapporto equilibrato e continuativo” con i genitori, si afferma il suo diritto a trascorrere con ognuno dei genitori “tempi paritetici o equipollenti, salvi i casi di impossibilità materiale”. E’ l’applicazione pratica e concreta dell’affido condiviso, o, come oggi si preferisce scanso equivoci, dell’affido “materialmente condiviso”. Ed è, naturalmente, la pietra dello scandalo. Infatti prevede che il minore trascorra “metà del proprio tempo, compresi i pernottamenti, con ciascuno dei genitori”. E comunque “non meno di dodici giorni al mese, compresi i pernottamenti, con ciascuno dei genitori”. Il numero dei giorni non è casuale, ma risponde a quello che alcune ricerche indicano come il tempo minimo necessario per stabilire un rapporto significativo genitore-figlio. Sono elencati i casi nei quali non è possibile applicare tempi paritetici.
Capisco che la pariteticità dei tempi (da intendersi non con rigidità matematica ma tendenzialmente e sostanzialmente, come indica l’aggettivo “equipollente”) possa sembrare difficile da attuarsi e che in qualche caso possa costituire una forzatura. Sta di fatto che fino ad oggi i procedimenti di separazione e affidamento, a dispetto della Legge 54 del 2006 e dell’affidamento “condiviso”, hanno continuato a vedere la figura del padre troppo spesso svilita ed esclusa dal rapporto con i figli, affidata ad una prassi che ha ripercorso esattamente i criteri della maternal preference tipica della vecchia disciplina e della vecchia mentalità che vuole “primaria” la figura della madre e ininfluente – se non sul piano economico – quella del padre. Torno a sentire parlare, come cinquant’anni fa al tempo della legge sul divorzio e poi ai tempi dell’affido “congiunto” e “alternato” e ancora con l’affido “condiviso”, di bambini sballottati qua e là “come pacchi postali” o “palline da ping pong”, privi di punti di riferimento precisi, disorientati, insicuri, “sacrificati” all’egoismo dei genitori (anzi, dei padri, che non li lasciano tranquilli con le madri). Il bambino “diviso in due parti uguali, come se fosse un oggetto”, come ha affermato Vincenzo Spadafora, già Garante nazionale per l’infanzia e oggi Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle Pari Opportunità e alle Politiche Giovanili. O “errante tra padri, madri e parentele varie” (associazione Telefono Rosa). Vittorio Vezzetti, il medico pediatra che ha ispirato il disegno di legge, fa osservare che un bambino che frequenti papà e mamma a settimane alterne è soggetto a un quarto degli spostamenti per “week end alterni” con pernotto infrasettimanale, formula oggi usuale. E comunque, ribadisco quanto vado dicendo da anni: non esiste disagio, sacrificio, danno, difficoltà psicologica o logistica che giustifichi la perdita di un genitore – il padre – che quasi sempre si verifica quando due genitori si separano. Paragonare i due “danni” (uno possibile, l’altro certo) è semplicemente assurdo. Forse dovrebbe far riflettere il comportamento di quel quindicenne – se ne parla nella Rubrica “Notizie in breve” – che si è opposto ai tentativi della madre di cambiare il regime di affidamento con tempi paritari – settimane alterne con padre e madre – e ha scritto al Tribunale dicendo che la sua vita “è bene organizzata così” e che si trova “bene negli spostamenti”. Naturalmente immagino le obiezioni: ma lui è grande, è diverso per un bambino piccolo. Non mi pare rilevante. Obiezione più fondata, semmai, quella che osserva come nel ddl Pillon i tempi paritari valgano, in teoria, per qualsiasi età dei minori. Una svista? Una lacuna? Certo non si poteva indicare una soglia di età. Ma mi pare evidente che un neonato non possa sottostare a tempi uguali; qui soccorreranno, oltre a un auspicabile buon senso di padre e madre, i piani genitoriali e l’intervento del giudice.
Nello stesso articolo si introduce la possibilità, per gli ASCENDENTI DEL MINORE, di intervenire nel giudizio di affidamento. Finora la giurisprudenza, anche di Cassazione, ha sottolineato che i nonni non sono “parti” nel giudizio e non può configurarsi un loro intervento ad adiuvandum come quello previsto per i provvedimenti de potestate, per es. in materia di amministrazione del patrimonio del minore (art. 336 c.1 c.c.). Però ha anche rilevato “l’assenza di un dato normativo che autorizzi una iniziativa sul piano giudiziario degli ascendenti” (Cassaz. N. 28903 del 2011). Approvo l’intenzione del legislatore di dare rilevanza ai diritti dei nonni (che a suo tempo sostenni anche in una tesi di Master), i quali oggi sostengono un grande peso affettivo ed economico e subiscono tutti i dolorosi contraccolpi della separazione dei figli; tuttavia temo che consentire una loro azione giudiziaria moltiplicherebbe gli interventi in procedimenti giudiziari già abbastanza complessi, lunghi e conflittuali. Credo che nell’ambito di una legge si possano – e si debbano – stabilire forme di tutela cogente a favore dei nonni evitando però il loro intervento in giudizio.
Non vedo particolari controindicazioni al DOPPIO DOMICILIO stabilito nello stesso articolo, che molti continuano a confondere con una doppia residenza. Questo permette che le informazioni relative alla scuola, alla salute ed amministrative raggiungano entrambi i genitori e non solo il genitore “collocatario” (la madre) come avviene oggi.
Dal punto di vista economico, la logica conseguenza di una uguale divisione dei tempi fra i genitori è che non vi sia un ASSEGNO PERIODICO per il mantenimento dei figli minori. E’ questo un altro punto che ha suscitato le violente critiche delle associazioni femminili e femministe. Effettivamente, è verosimile che la mancanza di un assegno per i figli possa aggravare la situazione di alcune donne, specialmente nelle regioni del Sud in cui è bassa la percentuale di donne che lavorano; però bisogna pur pensare che quell’assegno è destinato a coprire le maggiori spese derivanti da un maggior tempo che il minore trascorre con la madre; se i tempi sono uguali e viene applicato il mantenimento diretto cade, secondo logica, la necessità dell’assegno. Quello che non si vuol dire è che spesso l’assegno per i figli (versato nel 95,1% dai padri) non è destinato – almeno non interamente – ai figli e che chi lo eroga non ha alcun modo per controllare la destinazione di quel denaro (l’ipotesi di rendicontazione obbligatoria viene giudicata da molti complicata e facilmente eludibile). Va aggiunto che il ddl non cancella, naturalmente, l’assegno di mantenimento per l’ex coniuge, la cui entità il giudice valuterà opportunamente e discrezionalmente (e non è difficile immaginare che egli possa stabilire per il coniuge più debole economicamente un assegno più alto di quello che avrebbe deciso in presenza di un assegno per i figli…). Anche i capitoli di spesa saranno “in misura proporzionale al proprio reddito”. Come ha detto il sen. Pillon, intervistato dall’Agenzia AGI, “il mantenimento non sarà fifty-fifty: il genitore che guadagna di più contribuirà di più”. Infine, come ho detto, rimane la possibilità di un assegno periodico come contributo al mantenimento del figlio “ove strettamente necessario e solo in via residuale” e su di esso deciderà, discrezionalmente, il giudice.
Secondo il network D.i.Re, che raccoglie un’ottantina di centri antiviolenza in tutta Italia e che ha diffuso un durissimo comunicato lanciando una mobilitazione nazionale (con l’invito a scendere in piazza il 10 novembre) a partire da una petizione su Change.org, questo provvedimento sembra ignorare “la pervasività e l’insistenza della violenza maschile che determina in maniera molto significativa le richieste di separazioni e genera le situazioni di maggiori tensioni nell’affidamento dei figli che diventano per i padri oggetto di contesa e strumento per continuare ad esercitare potere e controllo sulle madri”. Nel comunicato si afferma che il ddl comporterebbe per molte donne, in particolare quelle con minori risorse economiche, “l’impossibilità di fatto a chiedere la separazione e a mettere fine a reazioni violente”. Per D.i.Re il ddl rappresenta “la sistematizzazione di un processo di riappropriazione del potere maschile” e appare “una presa di posizione consapevole e di parte che alimenta il senso di frustrazione e di rivalsa dei padri separati” e rischia di supportare “una cultura patriarcale e fascista”. Inoltre, esso “tenta di schiacciare la soggettività e la libertà delle donne ancorché dei minori” ed ha un “intento liberticida”.
Mi sembra esempio sufficiente di un linguaggio che non cerca il dialogo ma lo scontro. E’ certamente vero che la attuale interpretazione della Legge 2006/54 – non diversamente dalla vecchia disciplina delle separazioni – facilita, se così posso dire, la separazione femminile, ma è giusto così? Non poche donne mi hanno detto testualmente (e onestamente): “Non mi sarei mai separata se il mio avvocato non mi avesse assicurato che avrei tenuto con me i figli, sarei rimasta nella casa familiare e avrei avuto un assegno per il mantenimento dei bambini” (in molti casi c’era anche un assegno di mantenimento per la madre). Correggere questo evidente squilibrio significa “riappropriarsi del potere maschile” e commettere una grave ingiustizia? Quanto alla violenza intrafamiliare – fenomeno che è urgente conoscere e combattere – non credo, per fortuna, che esso sia così significativamente legato alle richieste di separazione. Credo piuttosto, non me ne vogliate, che il maggior numero di richieste di separazione da parte delle donne non sia solo dovuto – come sostiene la psicologa Marisa Malagoli Togliatti – alla maggiore consapevolezza e presa di coscienza da parte delle donne in questi anni recenti (cosa indubbia) per le quali le donne oggi non accettano più sopraffazioni e umiliazioni e violenze, ma anche a quei “privilegi” ai quali accennavo poco sopra.
In linea di principio trovo giusto che se un genitore non proprietario risiede con i figli nella CASA FAMILIARE debba versare al coniuge proprietario un indennizzo pari al canone di locazione (art. 14) Con ciò non mi pare, come pure è stato affermato con grande scandalo, che si tratti del principio di proprietà che viene a prevalere, vergognosamente, sull’interesse del minore. L’interesse del minore è tutelato facendo sì che la casa non torni al proprietario – come accadrebbe se il titolo di proprietà prevalesse sull’interesse del minore – e che i figli continuino a risiedere nella abitazione per i tempi che trascorrerà con il genitore assegnatario. Non prevedere un corrispettivo per il legittimo proprietario equivarrebbe a favorire non più il minore ma un adulto. Purtroppo, nel corso degli anni ho visto tante volte la preferenza accordata al binomio madre-figli sulla casa familiare tradursi in una rendita parassitaria e profittatoria a danno del genitore proprietario (costretto in molti casi a soluzioni abitative di fortuna). Non amo ricorrere ad esempi personali, che lasciano sempre un dubbio di credibilità e spesso sono di cattivo gusto. Ma farò un’eccezione: quando, tanti anni fa, mi separai, ci vollero 22 anni di beghe giudiziarie perché la mia controparte addivenisse ad un accordo sulla casa familiare che avevo acquistato con un mutuo a mio carico e che, ritenendolo giusto, avevo intestato ad entrambi. Ma che, naturalmente, era stata assegnata alla madre. Nostra figlia aveva allora sette anni.
Infine, è bene ricordare che la giurisprudenza ha sempre affermato che l’assegnazione della casa familiare va considerata ai fini del mantenimento dell’ex coniuge o dei figli, computandone in qualche modo il valore di un canone di locazione. Quindi, in termini logici non cambierebbe nulla: prima l’entità di un ipotetico canone veniva detratta dall’assegno di mantenimento, in futuro sarebbe corrisposta dal genitore a cui è assegnata la casa familiare, ma l’eventuale assegno di mantenimento tornerebbe “pieno”. E allora? Il fatto è che i giudici non erano sempre molto attenti nel rispettare quel principio di giustizia e nel considerare equamente il peso dell’assegnazione della casa; forse per questo motivo si levano tante proteste.
Trovo anche giusto che il TRASFERIMENTO DEL MINORE, sempre all’art. 14, il suo cambiamento di residenza e la sua iscrizione ad un istituto scolastico siano soggetti al preventivo consenso scritto di entrambi i genitori. Questo comporterà ulteriori ricorsi al giudice tutelare nel caso, probabile, di mancato accordo, come previsto dal ddl? Può darsi, e certo non è un bene. Ma per il figlio non è un bene neppure che il genitore convivente possa tranquillamente decidere di trasferirsi a centinaia di chilometri di distanza (o magari a migliaia) con il precipuo scopo di rendere di fatto impossibile la frequentazione dei figli con l’altro genitore. Cosa che comunque si traduce quasi sempre in un ricorso al giudice tutelare.
Il ddl prevede che il giudice possa disporre a carico di entrambi i genitori un assegno periodico a favore dei FIGLI MAGGIORENNI (art. 15) non ancora autosufficienti economicamente, da versarsi direttamente all’avente diritto e stabilisce che ogni obbligo di mantenimento cessi al compimento del 25/mo anno di età. Anche qui non mi sembra scandaloso che si ponga un termine al mantenimento di certi giovani poco inclini all’autonomia (abbiamo letto sentenze che facevano inorridire in proposito). Semmai può suscitare qualche dubbio che un diciottenne possa gestire autonomamente l’assegno, ma d’altro canto se la legge pone la maggiore età al compimento dei 18 anni dobbiamo trarne le inevitabili conseguenze. Dubito, poi, che uno studente che affronta un percorso di studi lungo e faticoso – come quello di medicina, con le inevitabili specializzazioni (retribuite sì, ma sappiamo quanto) e pratica ospedaliera – possa essere autosufficiente a 25 anni.
Quanto all’ASCOLTO DEL MINORE (art. 16), il ddl ripete quanto stabilito dalla legge 54 (“Il giudice dispone…”) e finora, come si è detto, molto disapplicato. Il legislatore ha ritenuto di dover precisare: “Sono vietate le domande manifestamente in grado di suscitare conflitti di lealtà da parte del minore verso uno dei genitori” (esempio estremo ma realmente verificatosi in anni passati: “A chi vuoi più bene, a mamma o papà” o “Con chi vuoi stare…”?). Forse si poteva dire semplicemente che le domande sono sottoposte a “preventiva valutazione” (o “a giudizio di opportunità”) da parte del giudice. Purtroppo, come ho accennato sopra, aver lasciato al giudice la discrezionalità sull’ascolto ne vanificherà ancora una volta l’obbligatorietà (sancita, ricordo, da varie convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia).
Forse si poteva cogliere l’occasione per chiarire una volta per tutte che “ascoltare” il minore non può significare, in senso stretto, rivolgergli domande (il che può effettivamente avere un effetto angosciante sul minore) bensì “capire”, “interpretare”, “analizzare” il minore, i suoi desideri e le sue esigenze. Cosa che si può fare, con moderni approcci psicologici, praticamente a qualsiasi età del minore. (Cfr. per es. A. Dell’Antonio, Il bambino conteso, Giuffré, Milano 1983, p. 123).
Un implicito riferimento alla PAS (PARENTAL ALIENATION SYNDROME) viene riconosciuto nell’art. 17, che modifica l’art. 342 bis c.c. (“Ordini di protezione contro gli abusi familiari”) aggiungendovi un comma nel quale si parla di provvedimenti da adottare “anche quando, pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il figlio minore manifesti comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo a uno di essi”. Anche questo è un tema “caldo”, che continua ad alimentare polemiche sulla esistenza o meno di questa sindrome. Polemica che mi pare risolta – e una volta tanto con molto buonsenso – dalla Corte di Cassazione con la risolutiva sentenza n. 6919 del 2016: il giudice deve intervenire in presenza di quei comportamenti “di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS”, “a prescindere dal giudizio sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia”, giudizio che non compete alla Corte. Più chiaro di così…
Con poche e secche parole l’art. 19 abroga il secondo comma dell’art. 151 c.c., relativo all’ADDEBITO NELLA SEPARAZIONE. So che molti giuristi giudicavano l’addebito vicino a scomparire, ma francamente non trovo giusto che accada. Sul tema si confrontano due scuole di pensiero. La prima lo ritiene inutile e anacronistico, residuo del vecchio e superato concetto di “colpa” scomparso per effetto della Legge 19.5.1975 n. 151. Ciò che conta – si dice – è il venir meno della affectio maritalis, la volontà anche di uno solo di sciogliere il rapporto. La seconda nasce in nome del favor matrimoni – intendendo il matrimonio come contratto – e ritiene che un comportamento lesivo della dignità di un coniuge e che causa la rottura del vincolo non possa restare senza conseguenze. Conseguenze che sono molto concrete: la perdita del diritto al mantenimento (non agli alimenti se in stato di bisogno) e del diritto di ereditare se l’altro muore prima. Quanto al risarcimento del danno in conseguenza dell’addebito le sentenze e la dottrina sono difformi. E’ vero – come sostiene il nostro socio avv. Carlo Cecchi – che l’addebito “complica il giudizio”, tuttavia secondo me esso ha le sue ragioni per farlo. E l’abrogazione si poteva evitare. Anche perché, visto che l’addebito viene pronunciato per il 23,3% delle separazioni a carico dell’uomo e per il 5,3 delle donne, la abrogazione dell’addebito sarà certamente letta come espressione di quel maschilismo di cui il ddl Pillon viene accusato.
Altrettanto scarno l’art. 21, che abroga l’art. 570-bis del codice penale. Non è cosa da poco, perché questo articolo riguarda la VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA FAMILIARE. E’ entrato in vigore il 6.4.2018 e stabilisce che le pene previste dall’art. 570 c.p. per chi fa mancare assistenza ai discendenti, ascendenti, coniuge siano estese a tutte le tipologie di assegno in materia di affidamento e separazione. Le pene previste sono il carcere fino ad un anno e la multa fino a 1.032 euro. Personalmente, ritengo che il 570-bis sia eccessivamente punitivo. Non solo: esso opera una ingiustificabile discriminazione tra i figli dei coniugati e i figli, come si diceva un tempo, “naturali”. Fa infatti esplicito riferimento ai “coniugi”, e quindi non può applicarsi ai non coniugati (un bell’esempio di legislatore distratto, che ha ignorato l’equiparazione tra figli “legittimi” e “naturali” sancita dalla Legge n. 219 del 10 dicembre 2012). Con il risultato che già il 23 aprile 2018, un paio di settimane dopo l’entrata in vigore dell’articolo, la Cassazione ne rilevava l’incongruenza con apposita relazione. In seguito, il Tribunale di Nocera ha sollevato questione di legittimità costituzionale.
L’ultimo articolo significativo (art. 22) riguarda la modifica dell’art. 4 della legge 1° dicembre 1970, n. 898. Questa è la legge che istituisce il divorzio e l’art. 4 riguarda la domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. In esso sono elencate tutte le modalità del ricorso. In ben 18 punti, il ddl Pillon riscrive interamente questo articolo, ripercorrendo tutti i punti salienti della procedura compresi nel testo: mediazione familiare, piano genitoriale, tentativo di conciliazione, ascolto del figlio minore ecc.
Non resta da aggiungere, in senso critico, che nel testo ricorrono talvolta affermazioni di principio che – l’esperienza insegna – non avranno alcun esito pratico. Come quando si afferma che il giudice può disporre “temporaneamente” (avverbio da valutare attentamente) l’affidamento dei figli a uno solo dei genitori, ma si precisa che “in ogni caso deve garantire il diritto del minore alla bigenitorialità”. Affermazione superflua, ma soprattutto priva di effetti concreti.
Questa lunga, e parziale, disamina avrà messo in luce la complessità di un testo difficile da valutare con un giudizio netto (con buona pace degli estremisti dell’uno e dell’altro campo). E’ auspicabile che il disegno di legge venga sottoposto a stringenti e continue disamine da parte di associazioni e operatori non solo giuridici (come del resto sta accadendo e come auspica lo stesso sen. Pillon) al fine di raggiungere l’obiettivo che il legislatore si è prefisso con la maggiore chiarezza possibile, con il minor danno possibile per i minori e, naturalmente, con la maggior efficacia possibile per quanto riguarda la sua applicazione.
Dal canto nostro, continueremo ad approfondire il testo in tutte le sedi (auspico, come ho detto, che i soci contribuiscano con le loro valutazioni), compresa quella parlamentare. Proprio in questi giorni ho ricevuto assicurazione dalla Commissione Giustizia del Senato e dal suo Presidente, il sen. Andrea Ostellari, che l’I.S.P. è stato inserito tra i soggetti che parteciperanno alle future audizioni.
* Presidente I.S.P.