di Chiara Narracci *
Se si cerca il significato della parola step-father, ovvero patrigno, sulla Treccani esso viene definito: patrigno (o padrigno) s. m. [lat. tardo *patrignus, modellato su matrigna]. – Il secondo (o successivo) marito di una donna rimasta vedova, rispetto ai figli nati nel precedente matrimonio (o, eventualmente, nei precedenti). Salta pertanto agli occhi quanto questa definizione sia obsoleta dal momento che viviamo in un’epoca in cui siamo diventati praticamente tutti matrigne e patrigni pur essendo tutti vivi. La maggior parte delle coppie, infatti, sceglie la via della separazione più o meno dopo 17 anni di vita coniugale, arriva pertanto intorno ai 40 anni a cercare di costruire la moderna famiglia allargata.
In anni in cui è vietato iniziare ad invecchiare prima dei 70 anni e si è illusi di avere il diritto alla felicità si ha una immensa difficoltà a percepirsi adulti in grado di assumersi la responsabilità delle scelte fatte. Ci siamo persi per strada i valori che orientano il cammino e con essi la cura dell’altro. La maggior parte delle volte infatti, quando si vive un momento di crisi, basterebbe spostare l’attenzione da noi alle persone che abbiamo intorno, per ridimensionare il dramma personale e consapevolizzare che stiamo dove abbiamo scelto di essere e dove fondamentalmente dobbiamo stare. La cultura dell’io mette in cattiva luce sia il dovere che il dare, mettendo in evidenza l’urgenza di prendere. Condannandoci ad essere protesi alla libertà. Paradossalmente, però, solo quando diamo rispetto riceviamo rispetto, quando diamo ascolto riceviamo ascolto, quando diamo considerazione riceviamo considerazione….. il ricevere è una conseguenza del dare.
Ma riuscire a mettersi da parte per il bene dell’altro oggi appare come una impresa titanica, cozza infatti con la nostra cultura, con quello che è diventato il nostro modo di pensare, di essere, stiamo tornando ad essere animali istintivi, poco riflessivi, poco in grado di percepire il bene a lungo termine e di conseguenza poco pazienti. Dove si è arrivati a tollerare la dimensione del dovere solo in ambito lavorativo, ma anche questo viene percepito più come una condanna che come una salvezza, non esiste messaggio mediatico infatti, che non promuova la libertà. E così ci ritroviamo a 40 anni con una gran sete di amore e con la viva speranza di trovare il “vero grande amore” con il quale passare il resto della vita… con “quella serenità”… che fondamentalmente non si è riusciti a costruire con l’ex coniuge, probabilmente perché non si è consapevoli che la serenità è una costruzione lenta che nasce da un atto di volontà, da un essere adulti. La frustrazione dell’amore, della vita coniugale nasce presto, con la fine dell’innamoramento, si inizia il duro lavoro di andare oltre se stessi, le proprie aspettative i propri desideri, il proprio ego, per accogliere l’altro per quello che è… e volergli bene… E in virtù di questo bene “dare”. La missione dell’amore è dare. Ma la nostra cultura ci impone di prendere.
Nel cuore dei quarantenni di oggi non vi è solo la speranza, vi è anche la paura, ci si sente in credito verso l’amore, perché il fallimento matrimoniale fa male e vorremmo qualcuno che ci lecchi le ferite, che si prenda cura di noi, che ci faccia sentire al sicuro, protetti. Ma nessuno può proteggerci da noi stessi e in qualche modo lo sappiamo tutti…barlumi di consapevolezza… Le paure ci rendono difficili nuove aperture, attivano istinti di conservazione che ci fanno essere talmente auto-protettivi da essere escludenti. La profezia che si auto-avvera. Ci apriamo, inconsapevolmente, a nuovi fallimenti…Sempre dati da questa bella cultura che ci impone di prenderci cura di noi stessi non sottolineando quanto questa cura sia una conseguenza del prenderci cura dì chi abbiamo a fianco.
In tutto ciò si moltiplicano le famiglie allargate, complicatissime, in cui tutti siamo giovani, egoisti, con il cuore pieno di speranze e paure. Le famiglie allargate nascono sulla scia di una nuova passione, ricca di speranze, in cui i figli vestono prima del tempo i panni dell’adulto, protesi a prendersi cura ora di un genitore ora dell’altro, andando così a far nascere quel bisogno di essere visti ed amati che contaminerà i loro futuri rapporti, poiché proprio come i loro genitori moderni si sentiranno in credito verso l’amore. Figli che convivono con patrigni spesso infantili, che non vogliono assumersi la responsabilità del comando della nuova famiglia, sia perché non vogliono invadere il campo del legittimo padre, sia perché sono pieni di sensi di colpa verso i propri figli, che hanno lasciato, o dovuto lasciare, insieme alla madre, che a sua volta spesso ha un nuovo compagno. Appare una famiglia allargata a livello sociale in cui tutti in qualche modo siamo legati, non da profondi valori ma da passeggeri sentimenti. In cui neanche la cultura ci dà le coordinate in nome della libertà… e mai come in questo periodo storico ci si sente soli e si ha paura. Ironia della sorte siamo tutti maglie della stessa catena, ben chiuse e attaccate dalla paura. Sì dalla paura. Al di là dei passeggeri sentimenti amorosi, la paura è il sentimento costante della nostra cultura. Essa è onnipresente nei bambini, nei giovani e negli “adulti”, ci abbraccia tutti e ci fa sentire allo sbando.
In questo scenario nascono gli educatori professionali, chiamati a dare le regole, le famose coordinate pratiche, ecco riemergere il tanto bistrattato dovere. Il solo in grado di darci un senso ed una direzione. Solo che l’educatore professionale è una figura esterna e se i giovani sono diffidenti verso le regole imposte dai propri genitori, perché loro per primi le hanno evase separandosi e le evadono quotidianamente nel non farle rispettare perché distratti da loro stessi, allora pensando agli educatori professionali non posso che percepire la loro fatica.
L’educatore professionale, attraverso un lavoro quotidiano di cura, lentamente acquisisce la fiducia di chi gli è affidato e la fiducia fa miracoli, ridimensiona la paura di assumersi consapevolmente la responsabilità della propria vita. La fiducia dell’educatore verso le risorse umane le fa apparire di nuovo come consistenti, le fa sorridere e respirare. Non che le paure svaniscano del tutto, esse semplicemente vengono accolte come una delle risorse di cui disponiamo per cavarcela al meglio nelle nostre responsabilità relazionali. L’educatore professionale, come il consulente familiare, è figura professionale che nasce dalle mancanze di questa cultura che ci impone di prendere e di stare sulla difensiva. Figure professionali innamorate dell’animo umano, che fondamentalmente insegnano a credere in se stessi; nella propria capacità di stare nelle regole del rispetto relazionale, di dare e di accogliere non solo l’altro, ma ogni aspetto del proprio animo.
L’educatore professionale si va ad aggiungere alle tante figure che da sempre fanno le veci del padre, inteso come colui che fa rispettare le regole, sto pensando al parroco, all’allenatore sportivo, ad uno zio affezionato, allo psicologo, o al classico amico di famiglia che nella storia di tutti noi hanno un ruolo importante, formativo, di cura. Se è vero che i giovani hanno perso il senso delle regole come gli adulti a cui sono affidati, è vero anche che se ne continua ad avere un bisogno ancestrale; pertanto, quando sul proprio cammino si ha la fortuna di incontrare e di avere a fianco nella crescita qualcuno che ci fa sentire importanti, perché crede in ciò che fa e in ciò che dà, qualcosa si risveglia anche in chi gli è a fianco. La passione è contagiosa, ravviva gli animi e le coscienze, tanto quanto la fiducia, nutre e disseta, anche e soprattutto chi appare senza speranza.
Fondamentalmente veniamo plasmati dai nostri genitori, non a caso un ragazzo che in famiglia viene etichettato come egoista, difficilmente si darà il permesso di essere anche altruista, poiché a furia di essere percepiti in quel modo si identificherà con quella modalità, andando a limitare la percezione che si ha di sé, delle infinite possibilità di essere e di entrare in relazione. Gli step-father, siano essi professori, educatori, patrigni, consulenti familiari, psicologi o allenatori, in virtù del fatto che sono voci fuori dal coro, hanno la naturalezza di cogliere i giovani al di là della etichetta familiari nell’interazione. Ciò è molto sanante perché amplia la percezione stessa che il giovane, la persona, ha di sé.
* Sociologa, consulente e mediatrice familiare