di Maurizio Quilici *
Quanti sono un po’… in età lo ricorderanno bene: a partire da quel fatidico 3 gennaio 1954, data della prima trasmissione televisiva nel nostro Paese, per decenni si è discusso ferocemente sui pericoli e sui benefici di questo nuovo mezzo di comunicazione. Erano gli anni del “boom” e i primi schermi, grossi come armadietti, entravano orgogliosamente nelle case degli Italiani, simbolo di una modernità e di un futuro che si presentavano sorprendenti e misteriosi. Quel giorno fatidico – erano le 11 di una domenica – in Italia c’erano 15 mila televisori. Bastarono cinque anni perché divenissero un milione. Fu subito chiaro che con lei, la televisione, il mondo della comunicazione e quello delle relazioni cambiava profondamente; solo che non si sapeva bene come.
A un certo punto – poteva essere il 1955 o 1956 – anche in casa nostra entrò il misterioso apparecchio. Enorme, pesantissimo, ingombrante, catalizzò subito l’attenzione di tutti. Di più: ebbe un effetto ipnotico per tutta la famiglia. Io e miei fratelli – mia sorella più piccola, mio fratello adolescente – faticavamo a fare i compiti di scuola: la testa era altrove, ogni scusa era buona per correre ad accendere la scatola magica. La nonna, ancora giovane, aveva stabilito una postazione proprio davanti all’apparecchio. La ragazza che viveva con noi, aiutava in casa e badava un po’ a noi bambini (a quei tempi qualcuno l’avrebbe definita “servetta” o, con un po’ più di garbo, “cameriera”; oggi diremmo la au pair) aveva sospeso ogni attività e stazionava continuamente davanti al video, ignorando ogni compito. Insomma, un sovvertimento totale.
Probabilmente simili effetti, dovuti alla grande novità, si sarebbero attenuati col tempo. Ma quando? Mio padre non intendeva aspettare per saperlo. Dopo una decina di giorni di questa rivoluzione prese il televisore, lo caricò in auto e lo riportò al negozio dove l’aveva preso, forse a titolo sperimentale. Naturalmente, passato un po’ di tempo la televisione entrò di nuovo in casa nostra, accolta con più freddezza e moderazione.
Ho raccontato questo “siparietto” personale perché i giovani non hanno la più pallida idea di cosa significò il nascere della televisione (così come la mia generazione ignorava l’avvento non meno sconvolgente della radio, negli anni Trenta). Ma torniamo al “dopo”. Bastò poco perché sociologi, psicologi, pedagogisti, filosofi… cominciassero a interrogarsi e a discettare sugli effetti della TV, soprattutto quelli che potevano interessare bambini e ragazzi (con la radio era accaduta la stessa cosa). E a suggerire ai genitori i comportamenti da tenere. Ci furono presto due schieramenti, come sempre accade in queste circostanze: i detrattori irriducibili (in maggioranza) e gli entusiasti. In mezzo, pochi, quanti consideravano insieme pro e contro. Così abbiamo avuto saggi corposi e articoli di autori illustri, alcuni sostanzialmente “pro” (Beniamino Placido, Umberto Eco, Aldo Grasso…) altri decisamente “contro” (Karl Popper in testa, e poi Giovanni Sartori, Pietro Citati, Vittorino Andreoli, Aldo Carotenuto, Giovanni Bollea…), altri ancora, come Zygmunt Bauman e Massimo Ammaniti, a metà strada fra condanna e assoluzione.
Le critiche – ampie ed articolate – riguardavano soprattutto l’isolamento indotto dal piccolo schermo, che escludeva ogni interrelazione, che si sostituiva ai genitori con funzione di babysitteraggio, che rinchiudeva i piccoli in un solipsistico universo. Ma c’era di più: c’era l’esposizione prolungata e ripetuta a scene di violenza e aggressività che nuocevano ai piccoli. Ancora oggi si discute se davvero questo tipo di “violenza assistita”, anche se non reale (ma oggi le cronache dei notiziari e dei TG lo sono eccome) possa avere effetti sullo sviluppo dell’aggressività nell’adolescenza. E sembra non esserci dubbio che la esposizione costante alla violenza, anche quella virtuale, crea una sorta di anestesia nei confronti della violenza stessa, una assuefazione pericolosa, tantopiù che i piccoli tendono a non distinguere tra realtà e finzione.
C’era anche la passività del mezzo: uno strumento che non permette, come la lettura, i tempi della riflessione, della elaborazione fantastica, della previsione e con il quale non c’è scambio ma solo ricezione passiva di un prodotto confezionato. Passiva e totalizzante, coinvolgente, assorbente come tutti i media “freddi”, secondo la celebre distinzione di Marshall McLuhan. Nel 2002 il neuropsichiatra infantile Giovanni Bollea inorridiva di fronte alla ricerca del Censis che rivelava come quasi il 50% dei bambini europei passasse ogni giorno quattro ore davanti alla TV. “Non riesco a crederci”, disse. “Quattro ore di televisione al giorno sono letteralmente devastanti per un ragazzino: non lo fanno dormire. Ma creano anche un generale disturbo di tutta la personalità. Tanto tempo davanti al video può portare danni al cervello: modifica i sogni del bambino, influisce sulle sue emozioni”. Commentando un’altra ricerca nello stesso periodo, lo psicologo Aldo Carotenuto commentò lapidariamente: “La TV ci sta rincretinendo e ci isola”.
Poi c’era – e c’è – la insopportabile validazione e promozione attuata dalla TV: se qualcosa è in televisione, allora è vera; se qualcuno appare sul piccolo schermo vuol dire che è qualcuno che conta. Ricorderò sempre la sconsolante frase che mi disse, tanti anni fa, una signora: “Dottore, l’ho vista in TV: lei deve essere una persona importante”. A questa nefasta funzione si riferiva Pasolini nelle Lettere luterane quando parlava dell’ “orrendo valore carismatico” della televisione, della sua “intollerabile ufficialità”. E forse anche alla televisione come subdolo, micidiale tramite di messaggi pubblicitari che richiederebbe nei giovani e giovanissimi l’inoculazione di opportuni vaccini. Per finire, ma non meno significativo, l’impoverimento lessicale inevitabilmente prodotto dalla TV (e più tardi da Internet e dai social) e sottolineato da linguisti e antropologi.
Abbiamo fatto questa chiacchierata sulla “vecchia” televisione per arrivare a una paradossale conclusione: era meglio quando era peggio. Paragonata ai giochi elettronici, play-station, tablet, computer, smartphone con annesse applicazioni ludiche anche per bambini piccolissimi, insomma a tutta la congerie di dispositivi elettronici che oggi riempiono le ore di bambini e ragazzi in totale isolamento, la TV ci appare come un focolare domestico, qualcosa da rimpiangere. Perlomeno si poteva anche assistere insieme ai programmi televisivi, seduti vicini, intercalando un commento, una osservazione, una battuta, condividendo una risata o una lacrima. La trasmissione serale di successo che riuniva davanti al video tutta la famiglia era, alla fin fine, un momento di raccolta, di intimità domestica. C’era una “presenza”, fosse anche solo fisica. Oggi nel rapporto dei giovanissimi con i loro strumenti (discorso a parte andrebbe fatto per le chat) c’è chiusura, assenza, solitudine.
Secondo il Rapporto per il 2017 dell’Unicef, un utente Internet su tre è un bambino. A parte i grandi rischi di incappare in contatti pericolosi (secondo lo stesso Rapporto nel 2016 57.335 URL contenevano materiale pedopornografico e il 60% era ospitato su server europei) e di dare adito al cyberbullismo, si pone, ancora una volta, il problema dell’impatto del digitale sulla qualità della vita, sullo sviluppo fisico e cognitivo e su quello della personalità. Per esempio, è stata accertata una forte correlazione tra disturbi del sonno e l’uso di smartphone e social network, specialmente nelle ore serali. Si è visto che l’esposizione al gaming (videogiochi), se da un lato migliora attenzione visiva e coordinazione, dall’altro stimola comportamenti impulsivi e aggressivi. Il neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer, affermato studioso nel campo delle neuroscienze e della psichiatria, sostiene, citando studi americani e tedeschi, che l’uso dei computer nei primi anni della scuola materna “può provocare disturbi dell’attenzione e successivamente dislessia. In età scolare si registra un incremento dell’isolamento sociale”.
In un momento storico in cui infanzia e adolescenza appaiono spesso caratterizzati da fragilità, disorientamento, incertezza (il che chiama in causa ruolo e funzioni dei genitori e in particolare del padre), “la più temuta delle sventure” – come osserva lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi – “è quella di non essere notati”. I social, si pensi a Facebook, aiutano ad essere popolari. Danno un senso di comunità, vicinanza, partecipazione. Essere perennemente connessi con qualcun altro e poter apparire su un palcoscenico teoricamente illimitato costituisce da un lato un rinforzo narcisistico, dall’altro è un (relativo) antidoto all’isolamento, all’individualismo, alla sostanziale solitudine. Come ha scritto il filosofo e scrittore Bernard Henry Lévy, “I social network non sono per niente sociali, sono individual, solo ego”.
Questo, naturalmente, comporta una notevole responsabilità dei genitori nel gestire i social e il digitale in genere. Difficile quando entrambi i genitori lavorano e i figli sono affidati alle cure di una baby sitter o, se più grandicelli, devono cavarsela in casa da soli. Chi li controlla? Oggi spesso sono chiamati a dare una mano i nonni, i quali, però, per motivi anagrafici, sono spesso lontani dal poter intervenire sull’uso di mezzi digitali. Difficile anche per un altro motivo: perché ostacolare o impedire l’uso di mezzi digitali e di social network ai figli significa regolarmente andare controcorrente, dover continuamente affrontare defatiganti discussioni a base di “Perché a me no?” “Ce l’hanno tutti” e via discorrendo. Naturalmente, questa opposizione può essere solo un ritardare il momento, poi il divieto diventerebbe anacronistico e controproducente. Dei limiti, però, si possono e si debbono dare: non più di tante ore al giorno, non in certe ore (quelle serali), non se prima non hai fatto i compiti. L’interdizione temporanea del telefonino o della consolle può essere un valido deterrente e una giusta punizione in caso di serie mancanze; per alcuni bambini non esiste punizione più terribile, il che dovrebbe costituire già un segno di allarme.
E poi, prevenire: abituare i figli (o i nipoti) al dialogo, alla conversazione, al confronto e creare per questo le occasioni, i momenti. Incentivare “medicine” quali la lettura, lo sport, stimolare ai giochi fisici e mentali – meglio se all’aria aperta – alla conoscenza della Natura, all’avventura (quello dello spirito di avventura è un potenziale enorme nei bambini, oggi ignorato e sacrificato da una vita urbana e domestica).
Sia chiaro: non voglio demonizzare tutto quello di cui ho parlato. Come la televisione aveva e ha grandi meriti (basti pensare alla diffusione dell’informazione e, in parte, della cultura, all’apporto dato alla alfabetizzazione e alla omogeneità della lingua italiana) e soprattutto grandi potenzialità da sfruttare, così i social e la Rete sono un patrimonio enorme che ci ha facilitato per molti versi la vita. Chi negherebbe l’utilità, anche pratica, di Internet o dei telefoni cellulari? E poi c’è l’ovvio distinguo fra “qualità” e “quantità”. Basta non accogliere passivamente questo immenso contributo che ci viene offerto, ricchissimo ma anche invadente e subdolo; basta saper valutare, saper usare con criterio (Umberto Eco diceva di non spegnere la televisione, ma di accendere la libertà critica) e soprattutto – noi genitori e noi nonni – insegnare a scegliere ai nostri figli e ai nostri nipoti.
* Presidente dell’I.S.P.