di Maurizio Quilici *
Ho appena finito di scrivere un libro. Questa volta non tratta di padri, ma di un argomento che, assieme a quello della paternità, ha sempre attratto il mio interesse e suscitato grandi emozioni: quello della natura e del mondo animale (oggi questo tema si coniuga inevitabilmente con l’attenzione all’ambiente e alla sua preservazione).
Naturalmente, quando hai due “grandi” poli di attrazione ti viene spontaneo cercare dei collegamenti fra l’uno e l’altro, così oggi affronto un tema abbastanza insolito per chi segue questo notiziario, ma che, a ben guardare, rientra a pieno titolo fra gli oggetti di studio dell’Istituto: la paternità fra gli animali.
E’ opinione comune che in natura siano esclusivamente le femmine ad accudire e allevare i cuccioli. Una convinzione che fino a qualche anno fa comprendeva anche, sostanzialmente, l’animale-uomo. Questo è certamente vero nella maggior parte dei casi, e alcuni biologi – per esempio Douglas Emlen – ne danno una logica spiegazione: la femmina assiste la sua prole, mentre il maschio – a meno che non si tratti di coppie monogamiche, che sono la maggioranza fra gli uccelli – non ha nessuna certezza che quel cucciolo o quel pulcino sia davvero suo e dunque deve impiegare le sue energie non occupandosi di alcuni piccoli, che potrebbero anche essere di un rivale, ma cercando di fecondare il maggior numero possibile di femmine se vuole perpetuare i suoi geni. Poco romantico ma molto, direbbe Darwin, “adattivo”.
Un’altra biologa, Patricia Brennan, ritiene che questa spiegazione non si attagli a tutti e fa notare che gli struzzi maschi si alternano nella cova con la femmina anche se nel nido vi sono uova di altre femmine fecondate da altri maschi. Per Brennan, molte uova nello stesso nido costituiscono un vantaggio per la specie, perché aumentano le possibilità che qualcuna sfugga ai predatori. Quindi, il maschio accetterebbe il rischio di occuparsi di pulcini non suoi pur di aumentare le probabilità di perpetuazione della specie.
A questo proposito, un caso davvero curioso in cui i maschi “premiano” la fedeltà della compagna è quello citato dal biologo Robin Dunbar, dell’Università di Oxford. I maschi della prunella modularis, nome scientifico della passera scopaiola, dedicano ai pulcini un tempo direttamente proporzionale a quello che la femmina ha trascorso in vicinanza del maschio. Insomma, se ti sei data alla bella vita (e forse mi hai messo le corna) mi occupo meno dei tuoi – chissà se anche miei – piccoli. Le abitudini di questo uccellino, simile per dimensioni a un pettirosso, meritano qualche chiarimento. Anzitutto, da dove le deriva il nome italiano? Dal fatto che la femmina nidifica di preferenza vicino alle piante di erica scoparia, detta comunemente “scopa” perché usata un tempo per confezionare scope e ramazze (secondo qualcuno perché cammina strusciando la coda sul terreno come se scopasse). Tuttavia, l’interpretazione maliziosa che molti di voi avranno dato al nome non è del tutto ingiustificata… La femmina di questa specie, infatti, a differenza della grande maggioranza delle sue simili di altre specie alate, è tutt’altro che monogama e in una stessa stagione può accoppiarsi con diversi maschi. Da qui l’insolita punizione di colui che si ritiene il legittimo compagno.
Ma torniamo al nostro tema, e al fatto che anche in natura sono numerosi gli esempi di dedizione paterna. Quello del pinguino imperatore è certamente tra i più famosi, grazie anche al film del 2005 La marcia dei pinguini. Dopo aver deposto l’uovo, la femmina percorre decine di chilometri per pescare in mare aperto e riportare cibo, che rigurgiterà, al suo piccolo. Nel frattempo – possono passare anche due o tre mesi – è il padre che cova l’uovo, e il piccolo che nascerà, proteggendolo da temperature fino a 60 gradi sotto zero e da vènti che possono sfiorare i 200 chilometri all’ora. Solo al ritorno della femmina il maschio lascia il pulcino e va in mare per nutrirsi.
Altro esempio assai noto quello dell’ippocampo, o cavalluccio marino. E’ lui che tiene le uova (possono essere anche duemila) nella sacca marsupiale e dopo un periodo di gestazione compreso fra dieci e 25 giorni partorisce i piccoli dopo la schiusa. Anche fra i pesci ago sono i maschi a partorire. Altri padri premurosi sono i maschi del kiwi, dello struzzo e del suo “cugino”, il casuario, quelli del cigno reale e del cigno collonero (che spesso portano i loro piccoli sul dorso), quelli dell’uistiti, piccola scimmia diffusa nel Sud America. In quest’ultima specie i padri sono talmente gelosi che li lasciano prendere alle madri (“indifferenti consorti” le definisce lo zoologo Gerald Durrell) solo all’ora dei pasti.
La paternità… responsabile è diffusa fra molte specie di uccelli, che spesso vedono il maschio collaborare anche alla costruzione del nido. Tra le nostre rondini comuni padre e madre si dividono equamente il faticoso compito di nutrire i piccoli, compiendo fino a 400 voli al giorno. A proposito di uccelli, qualche anno fa una coppia di merli nidificò all’incrocio fra una grondaia e la finestra della mia cucina. E per molti giorni potei assistere all’impegno costante del maschio nella ricerca di vermi e insetti, con un’infinità di voli giornalieri per la prole, mentre la femmina si faceva vedere di rado.
In genere, in fondo coerentemente con la accennata spiegazione biologica del disinteresse maschile per la prole, i padri premurosi si ritrovano in quegli animali che formano coppie stabili, come le oche o i cigni (vedi il recente caso della femmina di cigno a Recoaro Terme, morta di inedia, a quanto pare, dopo che il compagno era stato ucciso a bastonate). Ma anche nei casi in cui maschio e femmina si uniscono solo per dar vita a una prole accade che il maschio non sparisca dopo l’accoppiamento, ma contribuisca attivamente a nutrire e difendere i piccoli finché questi non vanno per la loro strada.
Ho detto del merlo, ma lo stesso fa lo svasso maggiore: uno dei due procura il cibo mentre l’altro cova. Nel caso del nandù del Sudamerica e di molti altri uccelli appartenenti al gruppo dei “ratiti”, come gli emù africani, è il padre da solo che costruisce il nido, cova le uova per circa sei settimane fino alla schiusa e quindi difende la prole da eventuali aggressori.
Anche il picchio è un ottimo padre: crea con il becco il nido in un tronco d’albero e dopo la nascita collabora con la femmina a nutrire e proteggere i piccoli.
Una delle forme più curiose di attenzione paterna è quella del Grandule di Namaqua, un uccello che vive nelle zone desertiche del Sudafrica. Questo animale, per dissetare i suoi pulcini, quando si imbatte in una pozza d’acqua vi si immerge con tutto il ventre, che è munito di piume particolarmente assorbenti. Quindi raggiunge il nido e chiama a sé i piccoli, che accorrono a bere dalle piume del pdre.
Esempi di buoni padri si ritrovano anche tra gli anfibi. In alcune specie di rane i maschi portano i girini sul dorso, oppure li ingoiano e li ospitano in particolari cavità boccali finché non sono cresciuti abbastanza; il maschio della “rana abbaiante” non si allontana dalle uova per alcune settimane e le bagna con la sua urina perché non si secchino.
Persino tra gli insetti non mancano papà pieni di attenzione. Così in alcune specie di scarafaggi che si nutrono di legno i padri collaborano alla costruzione del nido e contribuiscono alla alimentazione dei piccoli, arrivando a portare loro escrementi di uccello, ricchi di azoto e quindi utili alla lor crescita. Magari repellenti, ma premurosi!
E nei mammiferi? Qui in genere i padri non brillano per troppa presenza. Al più tollerano la presenza della loro prole ma non si spendono troppo per essa. Però qualche eccezione si trova anche fra loro: i maschi dei tanto vituperati e temuti (a torto) lupi, sono padri collaborativi, affettuosi e giocherelloni. Lo stesso dicasi per i maschi delle volpi.
Qualche anno fa la rivista Nature Communication pubblicò i risultati di un esperimento compiuto in Giappone con topi di laboratorio; esso aveva messo in luce un curioso comportamento maschile: i padri intervenivano solo se “richiamati” dalle madri, impossibilitate per qualche ragione ad accudire i piccoli, con particolari stimoli vocali. Insomma, si attivavano solo se… richiamati all’ordine.
E poi ci sono episodi che anche l’etologia ha qualche difficoltà a spiegare. Capita abbastanza spesso che una femmina si prenda cura di un cucciolo non suo (specialmente se ha perduto di recente i suoi piccoli) e magari, se è nelle condizioni di farlo, lo allatti. Questo capita anche con cuccioli di specie diverse e trova spiegazioni in certi comportamenti istintivi legati alla maternità e all’istinto protettivo nei confronti del cucciolo, il quale lancia messaggi programmati in natura proprio per suscitare quella reazione di tutela (è così anche per i cuccioli dell’uomo). Molto più raro e difficilmente spiegabile quando a fare da mamma è un maschio. Come accadde con il micio Dolce (ne raccontai la storia in un editoriale di molti anni fa): un maschio battagliero e sciupafemmine che in una notte di pioggia arrivò a casa portando fra i denti un micino di poche settimane tutto intirizzito. Lo portò nella sua cuccia cominciando a leccarlo e “comunicando” con lui con lunghi miagolii e per quattro giorni non lo lasciò mai da solo. Poi ricominciò a fare brevi sortite, sempre tornando dal “suo” cucciolo. Naturalmente, il piccolo manifestò chiari segnali di imprinting e, sfuggendo persone e animali, rispondeva solo ai richiami di Dolce. Dopo una decina di giorni il gattino cominciò a familiarizzare con gli altri animali di casa, compresa una gatta che stava allattando quattro cuccioli e che non ebbe problemi ad allattare anche lui.
E’ vero che l’etologo Desmond Morris, nel libro Il gatto, afferma che “a volte anche i maschi mostrano di avere un sentimento paterno, perché puliscono i gattini e giocano con loro”, ma qui si è andati decisamente oltre.
Se poi nel comportamento delle madri (e spesso anche dei padri, come abbiamo visto), si debba leggere un mero istinto di accudimento e protezione finalizzato alla conservazione e perpetuazione della specie di appartenenza o possano ravvisarsi – come io credo – emozioni e sentimenti come amore e tenerezza, è discorso difficile da svolgersi in questa sede. Si tratta infatti di un argomento sul quale l’uomo si interroga fin dai tempi di Aristotele, passando poi per Cartesio (gli animali come automata, come macchine, privi di sentimenti ed emozioni) e giungendo a Darwin. Sentite, 160 anni fa, cosa scriveva questo scienziato nell’opera L’origine dell’uomo e la selezione sessuale:
… l’uomo e gli animali superiori, specialmente i primati, hanno alcuni istinti in comune. Tutti hanno i medesimi sensi, le intuizioni e le sensazioni, le stesse passioni, affezioni ed emozioni, anche le più complesse, come la gelosia, il sospetto, l’emulazione, la gratitudine e la magnanimità; praticano l’inganno e sono vendicativi; talora sono soggetti al ridicolo e hanno anche il senso dell’umorismo; provano meraviglia e curiosità; possiedono le stesse facoltà di imitazione, attenzione, decisione, scelta, memoria, immaginazione, associazione di idee, e la ragione, anche se a livelli molto diversi.
Oggi la moderna etologia dà per scontato che gli animali provino dolore, gioia, rabbia, tristezza e addirittura si va interrogando se si possa parlare per loro di giustizia e di “senso morale”. Enormi passi avanti sono stati compiuti negli ultimi decenni nella comprensione degli animali: le loro emozioni, le loro reazioni, il loro linguaggio, le loro capacità di comunicazione… E’ presumibile (e auspicabile) che anche il loro comportamento paterno si arricchirà di nuove conoscenze.
*Presidente dell’I.S.P.