Maria Serena Sapegno,
Figlie del padre,
Feltrinelli, Milano 2018,
pp. 250, € 20,00
Ci sono molte strade per comprendere l’evoluzione dei padri nei suoi molteplici aspetti di contenuto e di relazione (il rapporto padre-figlio e padre-figlia, il senso di responsabilità, il gioco, l’accudimento e l’empatia, l’equilibrio fra severità e tenerezza…). Naturalmente, studi e ricerche sono il primo materiale a cui si ricorre e la saggistica esistente su un dato argomento costituisce la fonte primaria di chiunque voglia approfondire. Ma questa è una strada molto recente per quanto riguarda la paternità, argomento – ben lo sappiamo – sul quale l’attenzione di tante discipline si è concentrata solo da pochi decenni. Poi si possono studiare le leggi, che scandiscono – precedendoli e seguendoli – i fenomeni sociali; oppure osservare come i media riflettono, nella cronaca e nei commenti, un certo rapporto. Ma c’è, fra tante strade, una via maestra da percorrere: quella della letteratura. Non letteratura scientifica, appunto, bensì narrativa, che dai tempi più antichi offre spunti preziosi a chi sappia interpretarli.
E’ questa la strada imboccata da Maria Serena Sapegno, che insegna Letteratura italiana e Studi delle donne e di genere all’Università “La Sapienza” di Roma, nel suo libro Figlie del padre (sottotitolo: Passione e autorità nella letteratura occidentale). Attraverso un percorso lungo e accidentato, quello strano, ambiguo, affascinante, doloroso, aspro e dolcissimo rapporto che è quello tra un padre e una figlia viene esaminato a partire dalla Bibbia e dai miti omerici (poche le figlie nella prima, più numerose e complesse quelle nella mitologia classica greca e romana) per finire al ‘900 e al nostro secolo. Passando attraverso Shakespeare e il teatro illuminista, il romanzo del Settecento, all’ombra della rivoluzione, e quello dell’Ottocento europeo “che sembra ossessionato dal padre” e mira a ricostruire – “Restaurazione” non solo politica e sociale ma familiare – il primato dell’autorità paterna. Secolo significativo il XIX, al quale appartengono non solo il Balzac di Papà Goriot e Eugénie Grandet (“La patria perirà se i padri sono calpestati”, grida il moribondo Goriot, “la società il mondo, si reggono sulla paternità, tutto crolla se i figli non amano i padri”) e il Dickens de La piccola Dorrit, ma le prime donne scrittrici, da Mary Shelley alle sorelle Brontë, da George Eliott (alias Mary Ann Evans) a Louisa May Alcott.
Alla fine di questo percorso non c’è una fine. Nel senso che ovviamente la profonda trasformazione dei padri nei confronti dei figli e delle figlie iniziata sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso (e sulla quale forse, anche letterariamente parlando, Sapegno avrebbe potuto scrivere qualcosa in più) continuerà ad esprimersi nella letteratura, maschile e femminile. Riproponendo tuttavia – questa sembra essere la convinzione dell’Autrice tratta dai modelli letterari presi in esame – un modello di padre ora narcisista e seduttivo, ora “disadattato, difficile e disperato” (in una parola sola “ingombrante”), ora algido e anaffettivo, raramente simile a quello tratteggiato da Gianni Rodari nella bella poesia dedicata alla figlia Paola e citata dall’Autrice, poesia che ci piace qui riportare:
“Il gioco di fare da sola / è quello che più ti tenta / già non vuoi che ti tenga la mano / ogni giorno vai più lontano / per questo sono così pronto / a dirti sempre di sì / per ripagarmi fin d’ora / dei no che mi dovrai dire / per essere giusta con te stessa”.
Questo appare il giusto modello per Sapegno (ed anche per noi): “l’avventura, il fascino e la complicità, ma anche uno spazio e un tempo governati da regole, prima fra tutte quella per cui è necessario staccarsi da quella mano forte che deve, a sua volta, saper lasciar andare, non senza dolore”.
Arnaldo Spallacci,
Maschi in bilico,
Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019,
pp. 268, € 22,00
Studi, ricerche, suggestioni provenienti dall’universo mediatico ci hanno consegnato una visione degli uomini italiani parziale e sfumata, attraverso rappresentazioni che hanno pressoché ignorato aspetti importanti della loro vita reale, spesso ricondotti a stereotipi, la maggior parte ormai sorpassati, che hanno legittimato il pregiudizio del maschile italiano condizionato da una perenne immobilità. Da questa costatazione si muove il libro di Arnaldo Spallacci, sociologo, che smentisce convinzioni vecchie di anni (secoli?) rivelatesi, alla prova dei fatti – ossia delle ricerche e soprattutto dei dati statistici – non veritiere, sia perché risultato di antichi pregiudizi, sia in quanto interessate da un cambiamento recente.
Spallacci non ha mai condiviso – con l’intuito di chi si occupa da tempo di studi di genere – quella letteratura sul maschile che da “grigia” aveva poi virato al “nero” e aveva presentato regolarmente un maschio italiano geneticamente e “naturalmente” violento, asfittico nel suo immobilismo, debilitato dall’avanzare delle prerogative femminili, insomma la letteratura del “negativo maschile” tutta protesa a illustrare una presunta “estinzione” del maschio. Così si è imbarcato in un’ampia e approfondita analisi dei tanti aspetti che caratterizzano l’essere maschio in Italia, utilizzando soprattutto gli strumenti più oggettivi – i dati statistici – naturalmente con la capacità di “leggerli” e interpretarli ove necessario.
Il risultato è stato una sorprendente serie di smentite ad un quadro che pretendeva di leggere il maschile per categorie, generalizzazioni, stereotipi. Non che manchino le ombre sul maschile, intendiamoci: il maschio italiano è anche patologico, narcisista, aggressivo, debole, poco incline al lavoro domestico. Solo che questi aspetti non sono sufficienti a definire una fisionomia maschile estremamente multiforme e variegata; non disegnano il maschio italiano, che appare invece una realtà composita, nella quale i “nuovi uomini” (maschi metrosexual, uomini antisessisti, casalinghi, nuovi padri, nuovi nonni, uomini omosessuali…) stanno a testimoniare cambiamento e mobilità. Qualche esempio? Il profilo del giovane “sdraiato” (Miche Serra) o “bamboccione” per colpa dei padri (Antonio Polito) è smentito dalle più accreditate e recenti indagini, come quelle dell’Istituto Toniolo e del demografo Alessandro Rosina.
Smentita dalle indagini anche l’immagine di solitudine, passività e depressione che caratterizzerebbe i maschi ultrasessantenni. I dati a disposizione fanno poi giustizia di quelle rappresentazioni, di moda fino a qualche anno fa (quante volte contestate dall’I.S.P…), secondo le quali il “nuovo padre” era solo la proiezione di un desiderio, una figura disponibile in teoria ma di fatto assente (sul rapporto padre-figli, opportunamente Spallacci sottolinea il fenomeno recente del ruolo preminente della madre in famiglia come riferimento culturale, definendolo “una svolta ‘epocale’ rispetto a ogni concezione che ha visto nella genealogia padre-figlio il presupposto della formazione psichica, culturale, quindi identitaria, per lunghi secoli, del genere maschile”).
Le ricerche più recenti sulla prostituzione e sulla figura del “cliente” sembrano contraddire l’ipotesi di una generalità indifferenziata e segnare invece “una svolta rispetto alle tendenze criminalizzanti prevalenti nel passato” (qualsiasi uomo potrebbe essere cliente, che è lo stesso approccio per il quale qualsiasi uomo è un potenziale violentatore). E ancora, l’uomo italiano mostra certamente una nuova attenzione alla cura di sé, ma non narcisista e ossessiva come spesso i media fanno credere. Come si vede, crollano, alla luce dei sondaggi, delle analisi e delle statistiche molte convinzioni diffuse.
Ampio spazio è dedicato alla violenza di genere e a quella domestica (compresa quella, poco studiata e poco conosciuta, per “monopolio ideologico e istituzionale”, della violenza agita da uomini e donne contro uomini) con l’esame dei diversi approcci teorici al tema. Molti altri sono gli argomenti trattati nell’ottica di genere: dalla decrescita demografica della popolazione maschile (inferiore di due milioni di unità rispetto a quella femminile) alla maggiore mortalità maschile, dalla occupazione con relative discriminazioni alla scolarizzazione, con il sorpasso delle donne e la femminilizzazione del personale docente, al suicidio, alla salute.
Nelle ampie “Conclusioni”, l’ultimo paragrafo intitolato “Finale propositivo” elenca una serie di riflessioni, proposte, suggerimenti. E’ l’unica parte del libro nella quale l’Autore si spoglia della veste asettica dello studioso per dire la sua, da osservatore partecipe.
Abituati ormai ai trattatelli pseudo-scientifici o, peggio ancora, ai manualetti divulgativi regolarmente privi di note e poveri – quando presenti – di riferimenti bibliografici (qui ce ne sono forse anche troppi per il lettore non specialistico), sbrigativi nel linguaggio e nella qualità/quantità, Maschi in bilico costituisce un testo corposo e documentato, ricco di dati, spunti e informazioni. Uno sguardo davvero esaustivo sullo “stato dell’arte” del maschile in Italia. Questo va detto, anche se Spallacci è da anni socio e collaboratore del nostro Istituto e ciò potrebbe apparire un giudizio viziato da partigianeria.