di Giuliano Gramegna *
I giudici della Cassazione hanno confermato la condanna di una mamma che non aveva ottemperato alla disposizione con la quale il giudice di primo grado aveva stabilito il diritto di visita della figlioletta con il padre.
Il Tribunale di Gela aveva condannato una donna per reato di cui agli artt. 81 e 388 comma 2 c.p. per avere reiteratamente eluso i provvedimenti con cui il giudice civile aveva regolato il diritto di visita del coniuge da cui la donna si era separata, nei confronti della figlia, rifiutandosi di consegnarla al padre.
La Corte di Appello di Caltanissetta invece, dopo avere rinnovato l’istruttoria dibattimentale acquisendo alcune testimonianze nonché le spontanee dichiarazioni dell’imputata, aveva ritenuto che la condotta di questa non fosse diretta ad ostacolare le visite del padre della bambina, ma fosse mossa dall’esigenza di assicurare che gli incontri avvenissero in un clima di serenità per la piccola, di soli due anni, al fine di scongiurare il rischio di traumi.
In altri termini, i secondi giudici avevano affermato, sulla base delle dichiarazioni rese dalla stessa imputata, riscontrate dalle testimonianze degli assistenti sociali, che vi fosse un obiettiva difficoltà da parte della minore di accettare la figura paterna, ma che ciononostante l’imputata avesse cercato di facilitare gli incontri mediando tra le esigenze del padre e l’interesse, preminente, della minore e su questi presupposti era stato escluso l’elemento soggettivo del reato.
La VI Sez. Pen. Della Cassazione con la sentenza n. 26810 dell’8.7.2011, ha annullato gli effetti civili di tale decisione rilevando che, nel riformare la sentenza di primo grado, la Corte d’appello ha privilegiato le prove acquisite nel corso della rinnovata istruzione dibattimentale, giungendo ad escludere la sussistenza del dolo nel reato contestato alla imputata, pur riconoscendo che in “talune occasioni l’imputata ha anche approfittato del rifiuto frapposto dalla minore, non adoperandosi efficacemente per agevolare gli incontri tra la stessa ed il padre”, citando come esempi di tale atteggiamento l’episodio del compleanno della bambina festeggiato in strada e quello in cui la donna, che era a letto influenzata, si è rifiutata di far accompagnare dalla propria madre la figlia dal padre, che l’attendeva presso i locali dei Servizi Sociali comunali, nonché le altre occasioni in cui l’imputata non ha prestato il consenso al protrarsi dell’incontro tra la bambina ed il padre oltre l’orario previsto nel provvedimento presidenziale, dopo che la minore si era calmata ed era trascorsa la più parte delle tre ore in cui il padre stesso avrebbe potuto averla con sé.
I Giudici di Piazza Cavour rilevano che tali episodi appaiono in evidente contrasto logico con le affermazioni contenute in sentenza, secondo cui l’imputata non sarebbe mai stata determinata nei suoi comportamenti dalla volontà di ostacolare i rapporti tra figlia e padre.
Riconoscere infatti che “in talune occasioni” la madre abbia approfittato dei “rifiuti” della minore equivale ad una sostanziale ammissione di un profilo doloso, seppure attenuato, della sua condotta, in quanto si riscontra la mancanza di una attiva e doverosa collaborazione da parte del genitore affidatario alla riuscita delle visite e degli incontri dell’altro genitore, collaborazione essenziale soprattutto nel caso di un minore in tenera età, nel cui interesse si prevede che entrambi i genitori debbano mantenere e coltivare un rapporto affettivo con il proprio figlio.
Nella specie – sempre secondo i giudici della Cassazione – nella stessa sentenza assolutoria si dà atto di un atteggiamento dell’imputata che non è funzionale solo ad assicurare la serenità degli incontri, ma è connotato da una volontà ostruzionistica, che finisce per giustificare le innumerevoli volte in cui si è rifiutata di consegnare la minore al padre con una situazione di difficoltà nei rapporti padre-figlia, che la stessa imputata ha contribuito a creare, strumentalizzando i “rifiuti” della minore.
* Avvocato. ISP Roma