di Cristiano Camera *
L’Europarlamento ha stabilito che i neo papà debbano usufruire di un congedo dal lavoro di due settimane. A stipendio pieno oppure ridotto, a seconda di come verrà recepita la direttiva dai singoli Stati membri. E’ una notizia attesa da tempo, cronologicamente preceduta da altri tentativi – anche nostrani – di veder riconosciuto ai padri il diritto di astensione lavorativa per paternità. L’ultimo della serie a giugno, con il Ddl bipartisan a firma di Alessia Mosca (Pd) e Barbara Saltamartini (Pdl), che proponeva 4 giorni di congedo obbligatorio per i papà, subito dopo la nascita del figlio, retribuiti al cento per cento.
Non so se considerare quella della nuova direttiva Ue una buona oppure una cattiva novità. So soltanto che, nel nostro Paese, essa apre la strada ad alcuni problemi e irrompe come un fulmine a ciel sereno nella nostra mentalità, facendo scatenare reazioni a volte poco critiche, come dimostra il modo in cui è stata data la notizia da due quotidiani come il Corriere della Sera e Il Giornale all’indomani della decisione di Strasburgo. I quali hanno sottolineato rispettivamente come il congedo per i neo papà “segna una rivoluzione culturale”, in famiglie dove i padri sono assenti e ogni onere della cura della prole è sopportato solamente dalle madri, e come “non si può diventare ‘mammo’ per legge”, laddove il diritto di astensione dal lavoro dovrebbe essere facoltativo e non imposto.
Al di là di stereotipi datati, che vedono ancora i padri come persone che vivono la nascita di un figlio come un onere o come una distrazione da impegni più importanti, come quelli professionali (vedi Corsera), e tralasciando anche le interpretazioni di chi definisce la nuova legge “una clamorosa sconfitta” (vedi il quotidiano fondato da Montanelli), restano i problemi aperti dalla disposizione del Parlamento europeo. Se è vero infatti che i giorni di congedo, concessi ai neo papà dopo la conciliazione con i 27 Stati membri, saranno 14 – molti di più quindi di quelli proposti nel Ddl di giugno sopra citato -, non è affatto scontato che lo stipendio corrisposto dai datori di lavoro sarà al cento per cento, così come diffusamente decantato invece sui mezzi di informazione. Sull’ammontare delle retribuzioni decideranno infatti i singoli Governi, che potrebbero così imporre un obbligo di congedo di paternità a salario decurtato. Una legge-boomerang, insomma, per chi è costretto ad arrabattarsi con stipendi già minimi, come quelli italiani, e magari ha già spese programmate a cui far fronte.
Più in generale, c’è poi la questione aperta di come faranno i singoli Stati dell’Unione europea ad affrontare le nuove spese sociali dopo il recepimento della legge. Se infatti i deputati italiani all’Europarlamento hanno votato tutti, in modo trasversale, a favore, i 192 voti contrari e le 59 astensioni testimoniano la resistenza netta degli altri Stati, primi fra tutti Germania, Francia e Gran Bretagna, che fin da subito hanno definito le misure – che prevedono anche cinque mesi di congedo di maternità retribuiti al cento per cento – eccessivamente onerose per le rispettive finanze pubbliche.
Fortunatamente, a far da contraltare a queste rimostranze ci ha pensato la relatrice della legge (passata grazie a 390 voti favorevoli), la portoghese Edite Estrela, secondo la quale “dobbiamo sconfiggere l’idea che l’educazione e la crescita dei bambini siano una responsabilità prevalentemente femminile. Nei Paesi del nord un padre che non prende il congedo parentale e non sta a casa con la famiglia è considerato un cattivo papà. Nei Paesi del sud un uomo che prende un congedo di paternità è considerato un cattivo lavoratore”.
Il lavoro, appunto, è un altra faccenda che ci tocca ancora più direttamente: quale sarà infatti l’atteggiamento degli uffici del personale delle nostre aziende di fronte alla notizia che un dipendente è in attesa di un figlio? Di questi tempi, sarà difficile intravedere possibilità di rinnovi contrattuali o di mantenimento dei vecchi accordi, anche in prospettiva, dato che i proprietari delle imprese immaginano bene, eccome, i futuri e imminenti impegni genitoriali. Mi viene da pensare in proposito a una conoscenza che ho fatto grazie al mio sito sulla paternità FiglioPadre: un ragazzo italiano, Stefano, che vive e lavora da anni in Svezia e che usufruisce del permesso di astensione dal lavoro in vigore nel paese scandinavo. Ebbene, non è mia intenzione soffermarmi sui quattro mesi di congedo di cui gode, retribuiti al 90 per cento dello stipendio (l’80 versato dallo Stato e il 10 dall’azienda), né cantare le lodi del welfare nordeuropeo. Riferirò soltanto un episodio, che Stefano mi ha raccontato, e cioè che il presidente della società per cui lavora lo ha promosso dirigente dopo che lui aveva già comunicato la sua intenzione di restare a casa durante i primi mesi di vita della figlia. “Non darei mai la responsabilità del personale a una persona che prima non si prende la responsabilità della propria famiglia”, gli ha detto testualmente il suo capo. Parole inaudite, qui da noi, e che fanno parte di una cultura che è agli antipodi della nostra, nella quale il datore di lavoro raramente rinnova il contratto perfino a donne che sono andate in maternità e che per cinque mesi, dunque, sono state “infedeli” all’azienda.
Ecco, di nuovo la cultura e la mentalità: con la nuova disposizione europea non verrà scalfita la famiglia pseudopatriarcale – per qualcuno ancora esistente in Italia – o quella addirittura maschilista o machista, dove gli uomini lavorano al di fuori della famiglia e le donne sono tutto il giorno alle prese coi pargoli – ché questo tipo di suddivisione dei ruoli si è già quasi del tutto estinto. E nemmeno ci saranno papà che verranno costretti a diventare “mammi” per legge. No, grazie a Strasburgo, invece, i papà europei avranno l’occasione di vedersi appagato maggiormente il desiderio di un più giusto equilibrio fra ruolo di genitore e carriera. Aspirazione che, stando a una ricerca dello scorso anno della britannica Equality and Human Rights Commission, sarebbe presente neL 54 per cento dei padri con figli al di sotto dell’anno di età e che ritengono di non dedicare abbastanza tempo alla prole a causa del lavoro. Mentre i datori di lavoro – questi sì – dovranno cambiare prospettiva e atteggiamento culturali, perché saranno costretti ad accettare una disposizione che in fin dei conti – ancorché un obbligo – è soprattutto un riconoscimento di un diritto che, prima o dopo, entrerà a far parte di una nuova mentalità: più svedese – se vogliamo – oppure, più semplicemente, moderna.
* Giornalista. Fondatore del sito www.figliopadre.com