di Monica Aitanga Leva e Maria Assunta Natali *
A seguito di quella che ci era apparsa necessaria introduzione ad una tematica complessa e delicata, come quella della genitorialità omosessuale, puntare i riflettori sulle specificità della funzione paterna, ci è sembrato che questo scritto potesse rappresentare, per i soci dell’Istituto e per i lettori, una naturale prosecuzione.
Nel finale del precedente articolo sottolineavamo l’ambizioso obiettivo di raggiungere con strategie appropriate la possibilità di promuovere una cultura del rispetto verso la diversità, così che situazioni di disagio individuale e sociale potessero emergere ed essere accolte. Il nostro percorso di ricerca ha delineato un “mondo sommerso” di portata e struttura considerevoli. E’ un ritratto sfumato quello sulla condizione degli uomini gay italiani tratteggiato dalle prime analisi condotte su un campione scremato di 4690 soggetti che si autodefiniscono omosessuali o che hanno avuto rapporti sessuali recenti con persone del proprio sesso. Colpisce un certo ritardo per quanto concerne l’esposizione pubblica: solamente il 16,5% del campione esaminato fa coming-out e si rende visibile, in famiglia, con gli amici e con i propri colleghi di studio o lavoro. Quasi un uomo su 10 (9,7%), non ne ha, invece, mai parlato con nessuno. In tema di genitorialità, la situazione sembra, per contro, abbastanza evoluta, grazie, anche, al mutamento strutturale della famiglia e alle variegate innovazioni nelle tecnologie riproduttive. Persino il linguaggio è cambiato: si parla di padri single, padri sostitutivi, padri non biologici, bambini nati in provetta e, conseguentemente, di nuovi nuclei familiari, come quelli costituiti, oltre che dai figli, da due persone dello stesso sesso (Franklin, 2003).
Se questa è una fotografia realistica del quadro attuale in Italia, come non domandarsi in quali modi possano, questi padri, assolvere alla funzione genitoriale? Esiste la concreta possibilità che gli atteggiamenti paterni di un omosessuale non siano visti di buon occhio dal contesto socio-culturale e questa visione negativa potrebbe produrre una serie di dinamiche volte a svilire la paternità, generando un conseguente rigetto, da parte dei padri interessati, verso il proprio ruolo.
Gli studi sugli adulti omosessuali, giunti da oltreoceano, hanno avuto inizio negli anni ‘60 culminando nel 1973 con la declassificazione dell’omosessualità come disturbo mentale (Gonsiorek, 1991), mentre le rassegne sui rapporti tra genitori omosessuali e bambini da loro allevati sono comparse nella letteratura psichiatrica agli inizi degli anni ‘70 (Osman, 1972; Weeks et al., 1975) e nel corso degli anni ‘80 (Agbayewa, 1984). Resoconti sistematici , tuttavia, si ritrovano in pubblicazioni professionali del 1978 e la maggior parte di essi è stata resa nota più recentemente, evidenziando una sostanziale uniformità nei risultati. I dati rilevano che molti padri gay si rapportano positivamente, apparendo meno autoritari e più sensibili dei padri “tradizionali” nel percepire e supportare le esigenze dei figli. Viene anche evidenziata una ricerca di stabilità nella vita familiare, maggiore di quella rintracciata nei genitori eterosessuali. Non emergono differenze per quanto concerne il problem solving, il gioco, l’incoraggiamento, l’autonomia, la cura, e l’espressione dell’intimità. Nella nota ricerca del 1981, Scallen, tramite un questionario che indaga le abilità del ruolo paterno (EFRQ), ha comparato padri gay e non gay notando che i primi sono stati più di sostegno per i figli e meno tradizionalisti nel loro approccio di genitore.
Tali incoraggianti premesse, però, non precludono casi di contenziosi familiari in cui genitori omosessuali e bambini da loro allevati subiscono gravi penalizzazioni, quali perdita della custodia, divieto di adozione e/o procreazione assistita, etc., a seguito di un diffuso pregiudizio che, paradossalmente, proviene proprio da referenti più “acculturati” come giudici e psicologi, (Falk, 1989). Peraltro, le operazioni peritali richiederebbero un’accuratezza tale da non lasciar spazio a decisioni giuridiche azzardate. Con una sentenza emblematica emessa nel giugno 2006 dal Tribunale di Napoli, si è esplicitamente concluso che l’omosessualità di un genitore “costituisce condizione personale irrilevante ai fini delle determinazioni del giudice sull’idoneità genitoriale e sull’affidamento …, non incidendo… sull’equilibrato sviluppo psico-fisico dei minori”.
Riteniamo anche molto incisivo, a tal proposito, il quesito assegnato dal giudice del Tribunale di Firenze al CTU, in data 14 gennaio 2009. Si richiedeva di constatare il grado di maturazione di due minori, e se, in relazione allo stesso, vi fossero impedimenti nell’informarli sull’omosessualità paterna. A questo “non detto”, gli esperti conferirono assoluta priorità, in virtù del potenziale impatto patogeno dei segreti familiari, ben descritto da Matteo Selvini, psicoterapeuta familiare. Secondo l’autore, col supporto di numerosi autorevoli contributi, il correlato emotivo di ciò che resta implicito e nascosto nella comunicazione familiare si trasmette persino attraverso le generazioni, con un meccanismo tale da favorire l’espressione del sintomo psicotico. Il disvelamento verso i minori, dunque, può e deve avvenire, seppur con le peculiari cautele relative a ogni singolo caso e tenendo in considerazione un contesto sociale generalmente pregiudiziale e discriminante.
Ribadiamo nuovamente che la validità di un nucleo familiare non si fonda sul suo modello strutturale o sulla sua supposta “naturalità”, bensì sulla qualità delle relazioni. Cooperazione, disponibilità, capacità di individuare i bisogni più profondi dei minori sono considerati imprescindibili “criteri di valutazione della condotta genitoriale”(Mc Cann et al., 2005). Laddove ci fossero intralci di natura omofobica e conservatrice, ci verrebbe incontro il buon senso a suggerirci che il ruolo educativo del legame affettivo, riassunto nei suoi quattro importanti cardini (Meltzer, Harris, 1992), ha sempre in sè la potenziale, preziosa funzione di “generare amore, contenere il dolore fisico e mentale, promuovere speranza e insegnare a pensare”.
Nella testimonianza concreta da noi riportata, durante l’ incontro a tema svoltosi lo scorso maggio nella sede dell’ISP, una frase del protagonista, padre omosessuale, ci offre un’idea dell’intensità emotiva che accompagna la gestione della sua paternità : “……. ho sempre pensato che mia figlia avesse diritto non solo ad avere un padre ma anche un papà felice…non ho ritenuto fosse il caso di fingere con lei, questo non l’avrebbe aiutata a uscire dalla confusione e a vivere in un clima di chiarezza e fiducia….” (Fabrizio Paoletti- Famiglie Arcobaleno).
* psicologa. Roma