di Maurizio Quilici *
E’ abbastanza noto che teorie e ricerche nell’ambito della psicologia (ma non solo in questo) risentono del clima socio-culturale dell’epoca in cui sono, rispettivamente, formulate e svolte e riflettono in qualche modo le convinzioni e l’assetto sociale dominanti. Naturalmente, non sto parlando di ricerche con un obiettivo prefissato o condizionate dall’ente finanziatore (pensate a quelle sul fumo che avevano come sponsor… il potente gruppo Philip Morris).
Lo psicologo Rudolph Shaffer ha scritto che “i risultati della ricerca possono essere considerati come specifici per alcuni luoghi e per determinati periodi”. E ancora che “ogni parte della ricerca si svolge in un particolare contesto ideologico, morale e politico che può influenzare i risultati in modo estremamente subdolo ma, comunque, molto pervasivo” (Decisioni sui problemi socio-familiari riguardanti i bambini, Piccin 1994).
Un rigore scientifico e metodologico (oltreché logico) vorrebbe dunque che tutte le teorie venissero contestualizzate e rimesse in discussione quando i parametri – culturali, sociali, morali, economici… – risultano profondamente cambiati. E invece così non avviene, o avviene in misura molto relativa, e le teorie che si sono acquistate un posto di rilievo in una fase storica continuano ad avere un effetto in contesti ormai molto diversi.
Fra i primi decenni del secolo scorso e gli anni ’60 o ’70 numerosi studiosi hanno elaborato teorie che – rispondendo perfettamente ad una società con ruoli genitoriali rigidamente strutturati – hanno sottolineato la primarietà del ruolo materno e la assoluta residualità di quello paterno.
L’esiguità dello spazio non permette disamine ampie, ma penso a Donald Winnicott (1896-1971) e alla sua famosa frase: “Uno dei compiti principali del padre è quello di esistere e di continuare a esistere”. Volendo con questo ribadire quanto aveva più volte affermato, ossia che “la presenza del padre nella casa è necessaria per la salute fisica e mentale della madre”. E’ il concetto delle funzioni meramente “indirette” del padre, in cui lo studioso inglese è in grandissima compagnia. D’altro canto, come dar torto a questi Autori, quando la medicina dell’Ottocento e la prima pediatria raccomandavano vivamente che il padre non si accostasse nemmeno al neonato?
Winnicott era di formazione kleiniana ed anche Melanie Klein (1882-1960), nelle sue opere, sottolinea l’importanza della madre, ignorando quasi completamente il padre. Ma dei grandi Autori bisognerebbe indagare non solo – come dicevo prima – sulla società in cui essi hanno operato, ma anche sui loro rapporti familiari, sulla vita intima, sulla loro condizione di genitore e di figlio. Allora il ruolo centrale avuto in famiglia dalla madre di Melanie, Libussa, il disprezzo di questa per il marito, la delusione che quel padre – senz’altro desiderato – suscitava in Melanie (fra le numerose reliquie della sua casa non c’era nemmeno una foto di lui), il pessimo rapporto di Melanie con il marito potrebbero raccontare molte cose. Una volta, durante una riunione scientifica, la figlia di Melanie, Melitta, urlò rivolta alla madre: “Ma dov’è il padre, nei tuoi lavori?”.
Ricordo di aver letto in una sentenza di separazione, negli anni ’80, un dotto riferimento del giudice alla Psicoanalisi dei bambini della Klein a sostegno della sua sentenza di affidamento del figlio alla madre. Un’opera certamente importante, ma pur sempre pubblicata nel 1932…
Un altro Autore famoso, John Bowlby (1907-1990), ha condizionato la psicologia, la pedagogia, la pediatria degli anni a venire con la nozione dell'”attaccamento”. Bowlby considera “agente patogeno” la perdita della figura materna nel periodo compreso fra sei mesi circa e sei anni. Le sue opere fondamentali (1957, 1969, 1980) muovono da un principio lontano dall’odierno concetto di bi-genitorialita, ma che in qualche modo sembrava adombrare la non esclusività della figura materna. Infatti, in un rapporto del 1951, aveva definito “essenziale per la salute mentale” “che l’infante e il bambino sperimentino un rapporto caldo, intimo e ininterrotto con la madre (o con un sostituto materno permanente) nel quale entrambi possano trovare soddisfazione e godimento”. Il corsivo, naturalmente, è mio e su quel “sostituto materno” insisterà, molti anni dopo, la psicoanalista zurighese Alice Miller. Di più: nella sua ultima opera, A Secure Base (1988), Bowlby, consapevole delle critiche che gli erano state rivolte per aver assegnato alla madre un ruolo pressoché esclusivo, scrive che “fornendo una figura d’attaccamento per il figlio, il padre può assumere un ruolo che assomiglia strettamente a quello materno”. Ma al di là di queste affermazioni tardive la madre rimane il fulcro di ogni sua attenzione.
Bowlby si ispirò (oltreché alla Klein, a Lorenz e a molti altri Autori) a Harry Harlow (1905-1981) il quale, compiendo esperimenti con macachi rhesus nel 1958, aveva osservato che i piccoli preferivano una madre surrogato (un manichino) morbida e accogliente, anche se non forniva cibo, ad una madre rigida e fredda che pure dava nutrimento. Osservò anche che i cuccioli deprivati precocemente della madre erano incapaci di socializzare con i propri simili e, quando le femmine divenivano a loro volta madri, mostravano carenze nel comportamento genitoriale, sociale e sessuale. Anche questo autore ne inferì la insostituibilità della figura materna.
Negli anni ’80 una studiosa americana, Patricia Morgan, ripetè l’esperimento ma anziché isolare i cuccioli li lasciò crescere in un contesto sociale. Privati della madre ma assieme ad altri coetanei, il risultato fu che la asocialità non si verificò e che le femmine, diventate adulte, svilupparono un normale maternage.
Ci sarebbe da parlare di molti altri: per esempio di Spitz, che assunse il rapporto diadico madre-bambino come il “modello originario di ogni relazione interpersonale e di ogni relazione interumana in genere, ivi compresi i rapporti sociali” (così Franco Fornari, in René Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Giunti 1973). O di quel guru della pediatria americana (e non solo) che fu Benjamin Spock: “Nessuno deve interferire con il primo rapporto madre-bambino”. Le sue parole ricordano da vicino quelle di Michel Odent e Frédérick Leboyer, i due grandi ginecologi francesi i quali conducono una loro personalissima battaglia per allontanare i padri dalla sala parto.
Poi sono venuti Fromm e la Scuola di Francoforte, Biller, Lynn, Hetherington, Muldworf, Mauco e molti altri, con una nuova apertura al padre; poi c’è stata la “rivoluzione paterna”, è cambiata la società, sono cambiati i comportamenti e, naturalmente, sono cambiate le teorie. Oggi sembra inarrestabile l’ondata di psicologi, psicoanalisti, sociologi, pedagogisti, pediatri che pubblicano saggi, svolgono ricerche, formulano teorie tutte a sostegno della rilevanza paterna.
Un chiaro segno di come le formulazioni concettuali mutino in relazione ai contesti sociali e culturali e ai bisogni della società è l’atteggiamento degli studiosi nei confronti di una domanda un tempo giudicata inutile e quasi provocatoria, oggi seriamente presa in considerazione: esiste l’istinto paterno? Ma questo è un tema di cui parleremo in altra occasione.
* presidente dell’ISP