di p. Antonio Consonni
Chiarito dunque cosa si intende per “preti sposati” (non la possibilità che un sacerdote possa contrarre matrimonio, ma la possibilità che un uomo sposato possa accedere agli ordini sacri, garantendo così la celebrazione dei sacramenti), sarei favorevole a questa soluzione. Lo dico dopo averci riflettuto seriamente, non in base a una semplice simpatia per un’idea. Credo fortemente che la presenza, anche nei nostri presbiteri, di preti con famiglia, arricchirebbe molto il presbiterio stesso: la loro esperienza personale costituirebbe per noi preti che abbiamo scelto il celibato una provocazione e un invito costante a conoscere meglio, comprendendola di più, la vita della nostra gente.
Questa possibilità, credo, nulla toglie al valore, teologico prima che pratico (pure fondamentale: un prete con famiglia avrebbe meno tempo da dedicare al ministero pastorale), del celibato sacerdotale che, come anche papa Francesco ha recentemente ribadito, è un grande dono per la Chiesa e va vissuto come tale dai suoi sacerdoti. Certamente, l’aprirsi della discussione sui “preti uxorati” sta destando diversi pareri nella Chiesa. Giustamente si ragiona sulle qualità che queste persone dovrebbero avere, sull’opportunità di scegliere gente che, oltre a una fede provata, abbia anche un’età abbastanza elevata, per diverse ragioni.
Si confonde la norma con il dogma.
Mi stupisce la ferma opposizione manifestata a riguardo da alcuni cardinali, appartenenti al “fronte tradizionalista” e notoriamente avversi al pontificato di papa Francesco che, in una lettera al collegio cardinalizio, parlano della possibilità di ordinazione di uomini sposati come una minaccia, paragonando questa possibilità alle eresie che vennero combattute nei primi secoli mediante i concili e la proclamazione dei dogmi cristologici.
Mi sembra che questi prelati, seppur docenti e illustri studiosi, incorrano in un errore grave a livello teologico: confondono la norma con il dogma. Il celibato dei preti è una norma della Chiesa latina, ma non certamente un dogma! Inoltre, mi sorge questa domanda, alla quale mi piacerebbe rispondessero: se davvero vi sta a cuore, come affermate, la fede della Chiesa, come potete accettare che, per non cambiare una norma, intere popolazioni vengano private della possibilità di partecipare alla celebrazione dell’Eucarestia? Non è forse più vero che c’è la Chiesa dove l’Eucarestia viene celebrata e vissuta?
Quale Chiesa per l’uomo di oggi?
La questione del prete e dei suoi affetti e il problema della crisi del prete – che ha ragioni che vengono da lontano e sono più profonde – non si risolve con l’abolizione del celibato e con il prete che si può sposare. Ed è da ingenui credere che la semplice abolizione del celibato sia la risposta all’attuale crisi di vocazioni e all’abbandono del ministero sacerdotale da parte di molti preti, ormai in tutte le chiese. E d’altronde – varrebbe la pena ricordare anche questo – nessuno lo pretende. Mai nella storia è stata rivendicata l’origine divina del celibato ecclesiastico. Forse sarebbe il caso di cominciare a ragionare insieme – oltre il sensazionale e lo scandalistico – verso quale volto di Chiesa vogliamo finalmente cominciare a camminare, quale Chiesa vogliamo realizzare per stare accanto all’uomo di oggi, quale “pratica” o “esperienza” di chiesa vogliamo abitare. Infatti – non lo possiamo dimenticare – se il messaggio del Vangelo, la buona notizia dell’amore che salva e vince la morte, è arrivato fino a noi è perché ha saputo parlare al profondo del cuore degli uomini e delle donne lungo i venti secoli che ci hanno preceduti. Riuscendo così a ispirare il modo di pensare e di vivere di intere società. Così la questione del prete e dei suoi affetti deve essere collocata sullo sfondo della questione più generale del <Dio di Gesù Cristo> e della <Chiesa>, la comunità di coloro che ne custodiscono la memoria e la forza. (8)
La Chiesa cattolica appare invecchiata e impacciata, soprattutto in Europa dove per la maggior parte dei trentenni la «questione di Dio» non ha alcuna rilevanza, e gli scandali finanziari e sessuali hanno inferto un duro colpo alla sua reputazione. In Occidente il destino della fede deve misurarsi con un passato in cui si sono intrecciati cristianesimo, modernità, secolarizzazione, e con un presente che vede convivere progresso scientifico e religioni fai-da-te. In che modo allora la Chiesa potrà stare al passo con la vicenda moderna di cui è stata una matrice, ma che oggi la mette in difficoltà? C’è ancora posto per domande che non si esauriscano nelle promesse della tecno-scienza? E, d’altro canto, che futuro ha una modernità che recida completamente il dialogo con la religione?
In Europa, ma nel mondo globalizzato la questione riguarda l’intero pianeta, la Chiesa si trova di fronte a uno snodo generazionale senza precedenti: nella popolazione che ha meno di 30 anni, coloro che non credono semplicemente perché si sentono del tutto indifferenti e apatici rispetto alla «questione Dio», sono in netta maggioranza. Come se la cosa non li riguardasse, come se non riuscissero neppure a cogliere il senso della domanda: credi tu? Di Dio sembra proprio non sentirsi la necessità.
La Chiesa ha sempre riconosciuto e coltivato la propria vocazione universale, consapevole della necessità di parlare a tutti. Condizione per essere chiesa, appunto, anziché setta, piccolo gruppo di duri e puri ripiegati su sé stessi e separati dal resto del mondo. Sappiamo che la relazione tra fede e ragione, ereditata dalla tradizione greca e latina, è stata di enorme importanza. Sin dall’inizio la Chiesa ha intuito che il proprio destino sarebbe stato legato a quello della ragione. Ma il problema è che nel corso degli ultimi secoli si sono modificati i termini stessi della questione. Da una parte, il restringimento alla sola dimensione strumentale (vero è ciò che è certo, e dunque ciò che funziona e realizza rapidamente le promesse) ha di molto diminuito la capacità della ragione di essere guida sicura all’agire umano. Diventata tecnica, l’ambito principio in cui la ragione sembra applicarsi è il problem solving e il suo obiettivo il superamento del limite, di ogni limite.
Così, ciò che oggi sembra unificare il mondo è il grande sistema tecno/economico che, con la sua neutralità etica e le sue pretese di controllo, vorrebbe rendere superflua la stessa questione religiosa. In un pianeta diventato piccolo, senza più terre da esplorare, ma dove le diverse tradizioni religiose – che pure si delocalizzano e si innestano un po’ dappertutto – hanno sedimenti ormai consolidati, come sviluppare il dialogo interreligioso? Questione che a maggior ragione investe l’ecumenismo: quale ruolo il cattolicesimo romano può e deve giocare rispetto alle altre confessioni cristiane, numericamente più deboli ma custodi di ricchezze da rimettere in gioco, a vantaggio dei cattolici stessi e del mondo intero?
In questa cornice, all’inizio del XXI secolo, la scommessa cattolica non è allora né quella di rincorrere qualcosa che starebbe davanti – la piena affermazione della modernità, con tutti i suoi successi – né di inseguire un sogno di restaurazione e rinnovata centralità – cullandosi nella nostalgia di un passato ormai perduto. Si tratta, piuttosto, di muovere i primi passi di una via nuova, recuperando la consapevolezza di avere qualcosa di inaudito da dire. Qualcosa che manca a questo tempo. Qualcosa di prezioso per il nostro futuro comune: una svolta ‘spirituale’ a partire dall’umano comune. (9)
Il Dio di Gesù. Sapendo che viviamo dentro la realtà di uno sviluppo sociale e tecnologico che può benissimo fare a meno dell’ipotesi “Dio” e sapendo anche che ci è dato di contemplare ancora la bellezza delle notti profonde, e che il bene, qua e là, continua a resistere… diventa necessario interrogarsi su Dio, iniziando proprio dalla parola. La considerazione che Dio sia stato tropo oggettivato, idolatrato, strumentalizzato, violato dalla violenza e dagli interessi umani non ci può impedire di tornare alla parola, che non è una riduzione della divinità ma una sua restituzione alle origini, al nesso con il popolo che lo ha cercato, invocato, seguito, tradito, amato.
Pensare che Dio sia “soltanto” una parola non significa ridurne il valore nella storia. Al contrario, può significare dare contenuto di realtà alle radici profonde che hanno indotto, nei secoli, comunità di esseri umani a lavorare intorno a questa immagine, costruendo una foresta di simboli, tracciando cammini di conoscenza e di relazione tra gli uomini. Ma poiché ogni pensiero deve fare i conti con la contemporaneità, è necessario capire se la parola “Dio” sia oggi sfibrata, svuotata di senso oppure se sia possibile rinvenirne un significato nuovo, in cui al di là della narrazione mitologica si possa intravvedere l’ossatura di una inesausta ricerca. Potremmo allora considerare la parola Dio come il punto di intersezione tra le piccole vicende umane di ogni tempo e le vorticose dimensioni della ricerca intorno all’universo. Forse è in questo incrocio di strade che la parola “Dio” è stata formulata.
E forse si può tentare oggi di immaginare una nuova mappa. Interrogando la vita, ma anche le scienze, la poesia, la storia e le Scritture stesse. (continua)
[8] CHIARA GIACCARDI – MAURO MAGATTI, La scommessa cattolica, il Mulino, Bologna 2019; FRANCO GARELLI, La Chiesa in Italia. Struttura ecclesiale e mondi cattolici, il Mulino, Bologna 2007; MARCELLO OFFI, I preti, il Mulino, Bologna 1998.
[9] Cf GABRIELLA CARAMORE, La parola Dio, Einaudi, Torino 2019. Sulla copertina si legge: Ha ancora senso la parola ‘Dio’? Forse, guardando dentro le Scritture e nella storia è possibile rianimare quel movimento che gli steccati delle dottrine hanno stravolto e inaridito. Forse, è possibile ritrovare in essa lo stesso dinamismo delle vite umane e delle stelle.
* Religioso, educatore della Congregazione della Sacra Famiglia. Martinengo (Bergamo)